Gemma Brandi

Quando a darsi la morte sono gli operatori penitenziari
Ristretti Orizzonti, 25 agosto 2013

Mi permetto di intervenire sul doloroso tema dei suicidi tra gli operatori penitenziari, soprattutto agenti di polizia, benché sia a conoscenza del lavoro che da anni il Dap ha avviato -certo ai tempi in cui l'attuale Direttore Generale era Direttore dell'Ufficio Studi e Ricerche e il Consigliere Francesco Gianfrotta dirigeva l'Ufficio Trattamento e Detenuti - nel campo del suicidio in carcere, per sottolineare una questione che dà nell'occhio - almeno nel mio occhio - e che credo meriti attenzione e approfondimento, se si ha a cuore la prevenzione di questo rischio suicidario.
Per parlare consapevolmente dei motivi di una auto soppressione, occorrerebbe conoscere a fondo la persona che si è tolta la vita e quindi essere in grado di confrontare le notizie raccolte sui singoli suicidi. Due dati però risaltano a tutta prima: l'apparente aumento della morte per suicidio degli agenti di polizia penitenziaria (mentre non sono aumentati i suicidi dei detenuti, checché qualcuno voglia ancora dare ad intendere il contrario) e il fatto che la stragrande maggioranza degli scomparsi rivestisse il grado di Assistente e avesse una età che non colloca più tra i giovani, ma non permette di sentirsi anziani, quella età di mezzo in cui non si è rinunciato ancora alle ambizioni giovanili, ma pare di non potere più dare una svolta alla propria esistenza, quando le scelte strategiche sembrano tutte esaurite.
Questa mia osservazione si somma a chissà quante considerazioni altri, che siano interessati davvero al benessere dei soggetti riguardati, avranno fatto, magari nel silenzio della loro intima riflessione. Occorrerebbe partecipare al contrario tali pensieri, metterli cioè in comune, e insieme fare sì che nessun suicidio si esaurisca unicamente nella scomparsa di un uomo, pretendere di ricostruire a posteriori la storia di quella morte, il percorso di una sofferenza frequentemente sommessa, non limitarsi a indicare cause generiche e scontate per un gesto che è sempre originale e inatteso.
Tutto ciò prima di riempire male un posto vuoto, creando, ad esempio, punti di ascolto o analoghi stratagemmi destinati irrimediabilmente a fallire, come sa chiunque lavori in carcere. Altro paio di maniche sarebbe affrontare con serietà e tenacia la evoluzione inevitabile del ruolo dell'agente di polizia penitenziaria, sotto la spinta del rinnovamento della popolazione detenuta e della domanda di contenzione sapiente, di assistenza estesa e di cura accorta che questa reclama, una domanda che esige una risposta interdisciplinare e integrata.
Ecco cosa mi sento, in aggiunta, di suggerire al Vicedirettore del Dap, Dottor Luigi Pagano, che tutti sanno funzionario tutt'altro che indifferente al tema del suicidio, e non da ieri: incoraggiare e favorire tutte le forme di lavoro interdisciplinare in carcere, specie con gli organi della salute che vi hanno fatto ingresso dal 2008, sebbene in misura diversa nel Paese, affinché i piani formativi e l'attività quotidiana risenta del sapere di aree che devono incrociare davvero i loro strumenti, non come lame di un duello, ma come mezzi di cooperazione e crescita, una volta riconosciuto il bisogno che si manifesta al di qua e al di là delle sbarre.
Direi, poi, che la fatiscenza progressiva degli istituti, anche da un punto di vista strutturale e igienico, proprio mentre il sovraffollamento pigia ai cancelli, sfinisce i reclusi e ferisce gli operatori. Qualcosa deve essere fatto affinché l'istituzione non perda di valore. Il degrado, come insegna la teoria delle finestre rotte, finisce per produrre esponenzialmente degrado.
Non ci meraviglieremo allora degli incendi che deflagrano nelle prigioni, espressione di una crescente rabbiosa disperazione. La questione non riguarda, ovviamente, solo l'istituzione penitenziaria, ma anche le strade del Bel Pese, gli ospedali, le scuole, eccetera, ma in carcere viene avvertita con maggiore intensità e in anticipo, perché il carcere, concentrandoli e distillandoli, annuncia i problemi in divenire di una società.
Formazione, integrazione, ristrutturazione sono tutti temi che chiamano in causa l'hic et nunc e non sono aggiustabili costruendo risposte esterne al carcere o scuole che siano altrove rispetto allo specifico istituto in cui il personale lavora o ipotesi di costruzione di altri reclusori.
Infine, anche vincendo la riservatezza dell'Autore, mi sento di suggerire a tutte le persone interessate al tema del suicidio di detenuti e operatori penitenziari, il bel libro di Marco Santoro, Comandante della Polizia Penitenziaria di Sollicciano, dal titolo L'ombra dell'altro, un libro amaro, che sembra lasciare poco spazio alla speranza e comunque a soluzioni facili, un libro per pensare e incontrarsi.

*Psichiatra psicoanalista, Responsabile della Salute Mentale Adulti Firenze 1 e 4 e Istituti di Pena di Firenze