Roberto Nicastro

L’Istituto Einaudi ha avviato una ricerca sulla relazione tra misure alternative e recidiva

Le due città, settembre 2012

Ridurre la recidiva, trasformare il carcere in un’esperienza non ripetibile, sostenere tutti i percorsi che favoriscono l’ingresso nella società e limitano i rischi di tornare a delinquere. Sono questi gli obiettivi della ricerca che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno affidato all’Einaudi Institute for Economics Finance (Eief), al Crime Research Economic Group (Creg) e al Sole 24 Ore.
Sarà proprio il Dap a consentire agli studiosi l’accesso alle informazioni necessarie alla ricerca, aprendo – con un’operazione trasparenza – i suoi archivi all’esterno, al fine di valutare l’incidenza sulla recidiva delle misure alternative e del lavoro in carcere.
Alla base dell’iniziativa ci sono i numeri e i confronti internazionali. Nel Regno Unito e in Francia, ad esempio, c’è un ricorso alle misure alternative triplo rispetto al nostro. Da noi la pena si sconta in carcere nell’82,6% dei casi, mentre in quei Paesi il 75% delle condanne viene eseguito all’esterno. Guardando invece ai numeri interni, una rilevazione del Dap realizzata nel 2007 indicava che per chi sconta la pena con misure alternative la recidiva si ferma al 19%, mentre sale al 68% per chi sconta la pena all’interno del carcere. Il tema, del resto, è anche economico se è vero che – come dimostrato in passato – la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponde a un risparmio annuale per il sistema carcere di 51 milioni di euro. Questi dati vengono confermati anche da altre rilevazioni come quella fatta da “Italia Lavoro”, l’Agenzia del Ministero del Lavoro, secondo la quale su 2.158 detenuti che hanno avviato i tirocini guidati presso le aziende, il tasso di recidiva è bassissimo, pari al 2,8%. Senza reinserimento il dato schizza invece all’11% entro i sei mesi dall’uscita dal carcere per arrivare a sfiorare il 27% dopo due anni.
“Per abbattere la recidiva – ha spiegato il Ministro della Giustizia, Paola Severino – bisogna anche convincere l’opinione pubblica che le misure alternative alla detenzione sono la strada maestra e che il carcere è l’extrema ratio”.
“Il carcere non è l’unica pena – ha sottolineato anche il Capo del Dap, Giovanni Tamburino – ci sono altre sanzioni in grado di garantire la sicurezza.
Per questo – ha continuato Tamburino – dare una base scientifica al rapporto di causalità tra misure alternative/lavoro e riduzione della recidiva, ci consentirà di fare un importante passo avanti”.
E proprio la ricerca avviata dall’Eief, un istituto di ricerca indipendente fondato dalla Banca d’Italia, ha l’obiettivo di far emergere la realtà del fenomeno e in questo modo dimostrare quali sono le strade praticabili per ridurre, se non abbattere, la recidiva.
La filosofia che anima gli studiosi l’ha spiegata il Direttore dell’Eief, Daniele Terlizzese, che ha detto: “se confrontassimo il tasso di mortalità in un determinato anno tra coloro che, nell’anno precedente, sono stati in ospedale con quello di coloro che invece non ci sono stati troveremmo che il primo è largamente superiore al secondo. Eppure nessuno ne trarrebbe l’implicazione, credo, che andare in ospedale fa morire le persone, per il semplice motivo che chi va in ospedale è malato, ed è questa la causa della maggiore mortalità rispetto a chi, non essendo malato, in ospedale non ci va. Tutto questo è ovvio, ma in termini un po’ più generali. Il motivo per cui è difficile trarre conclusioni dal confronto diretto tra i due gruppi di persone è che non sono entrambi rappresentativi della stessa popolazione, non sono quello che in termini tecnici si chiama campioni casuali: c’è un qualche fattore (nel caso specifico l’essere malati) che influenza simultaneamente l’appartenenza all’uno o all’altro gruppo e il fenomeno che vogliamo studiare (la mortalità). Per usare un altro termine tecnico, c’è un problema di selezione. Con la recidiva – ha continuato Terlizzese – e le misure alternative, o più in generale il carcere aperto, si pone, in linea di principio, lo stesso problema. Se confrontiamo il tasso di recidiva tra coloro che hanno scontato la propria pena usufruendo di misure alternative con quello di coloro che hanno seguito invece il percorso tradizionale, cioè il carcere chiuso, osserviamo che il primo è molto più basso del secondo. Ma è probabile che ci sia, anche qui, un problema di selezione: se le misure alternative sono accessibili solo per coloro la cui “propensione a delinquere” (uso un termine generico probabilmente inadatto, ma tanto per capirci) è inferiore, la differenza tra i tassi di recidiva rifletterà la diversa propensione a delinquere, e non potrò attribuirla, almeno non tutta, all’utilizzo delle misure alternative. Questo è il motivo per cui serve un’analisi scientifica dei dati, prima di poter trarre conclusioni su cui basare decisioni di politica carceraria. 
Alla base della ricerca c’è una filosofia semplice ma efficace: poiché il problema deriva dal fatto che i due gruppi di persone non sono rappresentativi della stessa popolazione, è necessario cercare di modificarne la composizione in modo che diventino il più possibile simili, e quindi confrontabili, salvo per il fatto che alcuni hanno usufruito delle misure alternative a altri no. Bisognerà cioè costruire due campioni, uno di coloro che sono stati “trattati” con le misure alternative, hanno scontato la pena in un carcere aperto, e uno “di controllo”, di coloro che invece non ne hanno usufruito, hanno scontato la pena in un carcere chiuso, ma che idealmente differiscano solo per il trattamento, e siano il più possibile simili per tutte le altre caratteristiche. Il confronto tra il tasso di recidiva nei due campioni darà quindi una misura abbastanza attendibile dell’effetto causale delle misure alternative, poiché solo quelle saranno differenti tra i due gruppi. 
“In una prima fase – ha proseguito Terlizzese – pensiamo di concentrare l’attenzione sul carcere di Bollate, che rappresenta un’esperienza emblematica nella pratica delle misure alternative al carcere chiuso e che ha archivi amministrativi molto ricchi di informazioni; anche perché in quel caso i detenuti fanno domanda di essere ammessi, e quindi è possibile, in linea di principio, risalire anche a coloro che non sono stati ammessi. Crediamo quindi che la nostra sia un’ipotesi di lavoro plausibile, ma ne dobbiamo ancora verificare in concreto la fattibilità: si è tenuta traccia di coloro che hanno fatto domanda? dei motivi che hanno indotto ad accettarla o respingerla? c’era effettivamente un problema di affollamento? la detenzione di coloro che sono stati respinti è avvenuta interamente in un carcere chiuso o sono rientrati successivamente nelle misure alternative?...sono tutte questioni che dobbiamo esaminare in dettaglio e che condizioneranno il tipo di analisi che riusciremo a fare. Ma questa è in sostanza l’idea. Ricostruire un campione di “controllo” sufficientemente simile a quello dei “trattati” sfruttando elementi casuali nell’assegnazione alle misure alternative.
Quello che i ricercatori troveranno è sicuramente un universo fatto di luci e ombre, dove il lavoro è una realtà radicata nel mondo carcerario ma per molti versi ancora marginale. I dati del Dap indicano che al giugno di quest’anno i detenuti lavoranti erano circa 13mila su un totale di 66mila detenuti. La maggior parte (10.986) lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, mentre quelli che sono assunti a tempo pieno o part-time da imprese e cooperative sociali sono solo una minima parte (2.215, il 16,7% del totale dei detenuti lavoranti). Tra l’altro, la legge Smuraglia (lo strumento normativo grazie al quale dal 2000 è possibile introdurre sgravi fiscali e un abbattimento dell’80% degli oneri contributivi per le imprese che danno lavoro ai detenuti) ha risentito delle carenze economiche del Paese e dal 2011 non è più stato possibile rinnovare gli sgravi fiscali.
Per quanto riguarda invece le misure alternative alla detenzione, dal 2006 (l’anno dell’indulto) il loro numero è rimasto generalmente stabile (erano 22.889 nel giugno 2006 e sono 21.517 nello stesso mese del 2012), anche se si deve tener conto che nello stesso periodo i detenuti sono cresciuti di circa 5mila unità. Un dato che deve poi far riflettere è che tra le misure alternative, gli affidamenti in prova (molto importanti per il reinserimento sociale) sono crollati di circa il 50%.
Ecco perché si conferma di fondamentale importanza analizzare il rapporto che c’è tra carcere e recidiva, e soprattutto tra quest’ultima e il ricorso alle misure alternative. Una strada obbligata per trovare da un lato una soluzione efficace al sovraffollamento, e dall’altro assicurare una risposta alla speranza comune che il carcere si limiti ad essere un luogo di passaggio tra una libertà e un’altra.