Glauco Giostra*
La politica della paura che affolla le nostre carceri
Pagina99, 25 maggio 2014
Mercoledì l’Europa deciderà sulle sanzioni all’Italia. Molto è stato fatto, ma la questione resta soprattutto culturale. Solo una maggioranza coesa e coraggiosa potrà cambiare le cose.
Stanno scorrendo gli ultimi giorni nella clessidra della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il 28 maggio scade il termine concesso dalla famosa "sentenza Torreggiani" che ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divieto di tortura) a causa del trattamento inumano e degradante inflitto ai ricorrenti detenuti, ristretti in meno di tre metri quadrati pro-capite: una scudisciata etica, prima ancora che giuridica. Molto è stato fatto in questo anno sia a livello legislativo, sia a livello logistico-organizzativo. Ancora molto, tuttavia, resta da fare: non tanto per assicurare almeno, in un prosaico calcolo geometrico della sofferenza, i fatidici tre metri quadrati ai nostri detenuti, ma per garantire loro condizioni carcerarie non indegne di un uomo e opportunità di graduale reinserimento sociale.
Non si tratta di facile buonismo: alcuni reati meritano pene severe, prolungatamente privative della libertà. Ma niente può mai autorizzare lo Stato a togliere, oltre alla libertà, anche la dignità e la speranza. A preoccupare di più non sono le persistenti inadeguatezze normative e organizzative, ma una diffusa resistenza culturale a porvi mano. Quella resistenza che verosimilmente - dopo aver contrastato l’iter dei recenti provvedimenti legislativi in materia penitenziaria, peggiorandoli - renderà anche mollo difficoltosi i passi ulteriori e precari quelli già compiuti. Alla base, più o meno esplicitata, c’è questa convinzione: ogni breccia aperta nel carcere creerebbe un grave problema di sicurezza sociale. Considerazione di facile presa sull’opinione pubblica, ma destituita di fondamento.
Le indagini di vittimizzazione hanno ormai appurato che. nei Paesi occidentali almeno, i condannati detenuti costituiscono soltanto il 2-3% di coloro che delinquono, e che quindi la liberazione di quelli più meritevoli ha poco a che fare con la sicurezza sociale. Le misure alternative alla detenzione, per contro, abbattono drasticamente il fenomeno della recidiva.
Nel 2011 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ordinato al Governatore della California di liberare 46.000 detenuti (sostanzialmente l’intera nostra popolazione penitenziaria nella sua dimensione fisiologica) per risolvere un problema di sovraffollamento.
Prima di adottare una così drastica misura, per valutarne l’impatto sociale, la Corte ha acquisito dati statistici e accreditate valutazioni socio-criminologiche, concludendo che il provvedimento avrebbe potuto avere persino conseguenze positive, ove lo Stato avesse avuto cura di rilasciare anticipatamente solo quei detenuti che presentavano il minor rischio di recidiva e di fare ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione. È inutile provare a vincere con argomenti e dati, che vengono sempre scrupolosamente ignorali, questa cicca renitenza a ogni riforma penitenziaria. Più importante è tentare di capirne le ragioni profonde.
Da quando, con la globalizzazione, lo Stato non è più in grado di sviluppare una propria politica economica, né di garantire le rassicuranti protezioni sociali della seconda metà del secolo scorso, la collettività avverte un senso di permanente precarietà e di disarmata vulnerabilità; si è ormai rassegnata a ridurre le proprie istanze di protezione alla mera tutela della sua incolumità, rispetto alla quale ritiene che lo Stato possa ancora offrirle garanzie.
Questo "subconscio collettivo" di irrimediabile insicurezza costituisce un giacimento inesauribile di redditizie opportunità politiche. Gli stentorei manifesti imperniati sulla fermezza della repressione e sulla "tolleranza zero" si rivelano, puntualmente, un ottimo strumento di procacciamento di consensi.
Tanto che ci si imbatte spesso in politicanti che lutto ignorano, tranne quanto sia remunerativa la retorica della sicurezza pubblica. Quasi a ogni stagione meteorologica ne corrisponde una securitaria in cui viene agitato l’allarme di turno (pedofilia, stupefacenti, furti in appartamento, immigrazione clandestina, omicidio colposo stradale, eccetera). Troppo spesso il potere politico, non volendo, non potendo, non sapendo apprestare rimedi socio-economici o culturali, mette mano alla fondina legislativa. E le "munizioni" sono sempre le stesse: più carcere, più reati, meno garanzie processuali, meno benefici penitenziari. Si tratta di un investimento a costo zero, a bassissimo rischio e ad alto rendimento in termini elettorali.
Il fenomeno non è soltanto domestico, naturalmente. Nei Paesi occidentali è diffuso e studiato. Da noi però ha una carattere endemico, perché la "politica verbale" - fatta di preannunci, spot, ipertrofia legislativa - non è solo una componente della politica penale, ma tende sostanzialmente ad esaurirla. Fenomeno acuito dalla frequenza degli appuntamenti elettorali, durante i quali la cifra demagogica di ogni soluzione ventilala o adottala cresce a dismisura.
Nel nostro Paese, poi, a questa "politica verbale" si accompagna, risultandone a un tempo causa ed effetto, o comunque oggettivamente sinergica, una "informazione verbale", in cui troppo spesso le parole commentano le parole. Un’informazione, oltretutto, molto più sensazionalistica e allarmistica che negli altri Paesi, massicciamente occupata da notizie relative ai più efferati misfatti, con morbose spettacolarizzazioni del dolore.
Un’informazione banalizzarne, emotiva ed ansiogena, quasi sempre disgiunta da un attento studio del dato di realtà e da un’intelligenza del suo significato: non si potrebbe predisporre terreno più adatto su cui far prosperare il "populismo penale". Intendendo, con questa locuzione, la tendenza politica ad apprestare placebo legislativi che fingano di rimuovere le cause delle ansie collettive suscitate da episodi di cronaca nera, ma che in realtà mirano soltanto a captare facili consensi: il governo dell’insicurezza sociale.
Si pensi al termine "svuota carceri", con il quale sono stati giornalisticamente etichettati i provvedimenti che hanno di recente cercato di evitare la permanenza o l’ingresso in carcere di chi non avrebbe dovuto, in base alla nostra Costituzione e al buon senso, né restarvi, né entrarvi. Il "messaggio" mediatico, diretto a suscitare ansiosa attenzione, ha spacciato l’idea di una sorta di cicco "sversamento" nella società del temibile contenuto dei penitenziari. La realtà, come si è detto, era ben diversa: si trattava di concedere limitate riduzioni di pena o misure alternative alla detenzione a soggetti di cui la magistratura di sorveglianza aveva accertalo caso per caso la mancanza di pericolosità e la meritevolezza.
Ma, nell’odierna informazione fast-food, le parole-concetto contano più della realtà che rappresentano e ne segnano in qualche modo il destino: la tossina della mistificazione, una volta inoculata nelle vene mediatiche, non conosce antidoto efficace.
Se permane un tale contesto politico-culturale, quindi, non solo è difficile immaginare ulteriori riforme, pur necessarie, ma è da temere che persino quelle realizzate siano precarie. Al primo reato commesso da un soggetto in misura alternativa o al riacutizzarsi, reale o mediatico, di un certo fenomeno criminale, si riapriranno i consueti scenari: cubitali titoli di giornali e insistite zoomate sulla disperazione delle vittime confermeranno molti cittadini nei loro latenti timori, alimentandoli; timori che troveranno non disinteressata udienza in quei politici specialisti nel cogliere con prontezza felina ogni opportunità demagogica offerta dalla nostra "democrazia emotiva". Il carcere tornerà ad essere la metafora architettonica dove stipare le nostre ansie e le nostre paure.
Le cose potranno davvero e stabilmente cambiare soltanto quando una maggioranza politica forte nei numeri e culturalmente coesa - sostenuta da una stampa meno sensazionalista e più tecnicamente provveduta - avrà il coraggio di spiegare che la criminalità non si fronteggia infierendo sui criminali già individuati e puniti, ma ponendo le premesse socio-economiche per ridurre al minimo le ragioni del delinquere e fornirà alle forze dell’ordine
strumenti per prevenire e contrastare le manifestazioni delittuose, nonché per accertarne le responsabilità. Di spiegare che le misure alternative alla detenzione che accompagnano il percorso di recupero del condannato non rappresentano un modo per rendere ineffettiva la pena, bensì per renderne effettiva la funzione assegnatale dalla Costituzione. Di spiegare che la prospettiva di attenuazioni graduali dello stato detentivo motiva psicologicamente il condannato a sottrarsi alle suggestioni di chi gli prospetta il sodalizio criminale come l’unico modo per tutelarsi, all’interno e al di fuori del carcere. Di spiegare che l’evasione o l’azione criminosa di un soggetto ammesso a una misura alternativa (evenienza statisticamente molto rara, ancorché amplificata a dismisura dai media) non è necessariamente frutto di un errore del magistrato che l’ha concessa o di una disfunzione del sistema, ma è il tributo che si paga a una scelta di politica penale che, dati alla mano, offre enormi vantaggi, tra l’altro, proprio in termini di sicurezza (drastico abbattimento delle ipotesi di recidiva). Di spiegare alla collettività su quali principi si basa la politica della pena seguita, quali possibili prezzi comporti, quali inaccettabili effetti produrrebbe un diverso approccio fobo-demagogico al problema. Spiegazione agevole, quest’ultima: basterà ricordare.
*Ordinario di procedura penale all’Università La Sapienza di Roma e Componente laico del Csm