Carceri, i numeri della vergogna

di Valentina Calderone

l'Unità, 9 ottobre 2013

Il 28 luglio 2011, in occasione di un convegno organizzato dai radicali italiani, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano utilizzò queste parole per descrivere lo stato delle nostre carceri: «Una realtà che ci umilia in Europa e che ci allarma per la sofferenza quotidiana di migliaia di esseri umani in condizioni che definire disumane è un eufemismo ».
Da quel luglio 2011 sono passati oltre due anni, nel corso dei quali il presidente Napolitano è più volte tornato sull'argomento. L'ultimo di questa lunga serie di interventi risale a ieri, quando il presidente ha inviato alle due Camere una lettera in cui ha espresso preoccupazione per una questione che va posta «con la massima determinazione e concretezza» e affrontata «in tempi stretti nei suoi termini specifici e nella sua più complessiva valenza».

Quello cui Napolitano si riferisce è la condanna all'Italia della Corte europea dei diritti dell'uomo a seguito del pronunciamento della sentenza Torreggiani. In quella sentenza viene accertato come, nel nostro Paese, vengano sistematicamente violati i diritti di chi si trovi costretto in carcere (per scontare una pena o in attesa di giudizio). Uno dei motivi principali di sofferenza all'interno dei nostri penitenziari riguarda la condizione di perenne affollamento delle strutture detentive.

Con un tasso di sovraffollamento del 136 per cento, nelle carceri italiane sono ospitati 64.758 detenuti (al 30 settembre 2013), contro una capienza regolamentare di 47.615. Gli stranieri sono 22.770 e le donne 2.821. Se leggiamo i dati sulle presenza con riferimento alla posizione giuridica, scopriamo che ben 12.333 persone sono in carcere ancora in attesa di primo giudizio e che altre 12.302 stanno aspettando una sentenza definitiva. I condannati in tutti e tre i gradi - a esclusione degli internati e di quelli la cui posizione è al momento indefinibile - sono invece 38.845. Questo significa che quasi il 40 per cento dei detenuti nelle nostre carceri sono da presumersi non colpevoli, così come recita l'articolo 2 della Costituzione.

Altra nota dolente, il ricorso alle misure alternative.

Al 30 settembre 2013 erano poco meno di 22mila le persone che si trovavano in regime come quello dell'affidamento in prova, della semilibertà o della detenzione domiciliare. Il trend della concessione delle misure alternative alla pena detentiva ha conosciuto notevoli picchi (50.228 nel 2004) e drastiche riduzioni (10.839 nel 2007), attestandosi negli ultimi anni intorno alle 20.000.Un dato davvero troppo basso rispetto alle potenzialità che queste misure avrebbero in termini di deflazione della popolazione detenuta in carcere.

Anche gli esiti della cosiddetta «legge svuotacarceri» si sono rivelati insufficienti a risolvere il problema, posto che dalla sua entrata in vigore a oggi - quasi tre anni - sono uscite dal carcere 12.109 persone. L'urgenza di adeguare l'esecuzione della pena carceraria a standard di umanità e dignità - dato il poco tempo a disposizione - non può probabilmente prescindere da una seria valutazione di misure come l'indulto e l'amnistia, richiamati dal presidente della Repubblica nel suo discorso di ieri. Se approvato, il congiunto provvedimento di clemenza porterebbe in tempi brevissimi a una decongestione del sistema carcere. Decongestione che permetterebbe di mettere finalmente in pratica quelle riforme strutturali così necessarie.

L'ultimo indulto approvato dal nostro Parlamento risale al 2006 ed è forse il provvedimento più criticato e disconosciuto degli ultimi anni. Ed è un vero peccato, perché se solo si guardassero i dati risulterebbe chiara la «bontà» di quella decisione: a cinque anni dall'approvazione dell' indulto, i recidivi (coloro i quali tornano a commettere lo stesso reato) sono il 33,92%, mentre la recidiva per chi sconta interamente la pena in carcere è del 68,45%. Certo, il 33,92% non è poco, ma se paragonato a quel 68,45% non fa che confermare un dato: il carcere crea altro carcere e, così com'è attualmente strutturato, il sistema dell'esecuzione della pena è molto lontano dal compiere quella «rieducazione del condannato» cui dovremmo aspirare secondo l'articolo 27 della Costituzione.

Il nostro tempo sta per scadere. Il 28 maggio 2014 sarà un anno esatto dal pronunciamento definitivo della sentenza di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. Da quel momento, l'Italia sarà passibile di essere sanzionata e verranno riattivati tutti i ricorsi presentati da detenuti ed ex detenuti, congelati in attesa degli adeguamenti che il nostro Paese dovrebbe mettere in atto. Manca poco tempo e, per dirla con le parole del presidente Napolitano, è «giunto il momento di riconsiderare le perplessità relative all'adozione di atti di clemenza generale». Insomma, c'è da fare un piccolo atto di coraggio per iniziare a risolvere un enorme problema.