CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE
YVES BOT
presentate il 3 ottobre 2013 (1)
Causa C‑378/12
Nnamdi Onuekwere
contro
Secretary of State for the Home Department
[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber), London (Regno Unito)]
«Diritto dei cittadini dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri – Direttiva 2004/38/CE – Articolo 16 – Continuità della residenza necessaria all’acquisizione di un diritto di soggiorno permanente – Conteggio dei periodi trascorsi in carcere nello Stato membro ospitante»
1. Mediante il presente rinvio pregiudiziale la Corte è chiamata a precisare la nozione di «soggiorno legale», ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38/CE (2). Detta disposizione prevede la concessione di un diritto di soggiorno permanente ai familiari di un cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che abbiano soggiornato legalmente in via continuativa per cinque anni assieme al cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante.
2. Più precisamente l’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber), London (Regno Unito), chiede alla Corte se un soggiorno trascorso in carcere possa essere considerato come legale ai sensi di detta disposizione.
3. Nel caso in cui la Corte rispondesse negativamente a detta questione, il giudice del rinvio intende stabilire se, ai fini del calcolo di tale periodo di cinque anni, sia possibile cumulare i periodi di soggiorno legale effettuati prima e dopo la pena detentiva.
4. Nelle presenti conclusioni indicherò le ragioni per cui ritengo che un periodo di detenzione non possa essere qualificato come «soggiorno legale» ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 e non possa dunque essere conteggiato nel calcolo del periodo di cinque anni richiesto al fine dell’acquisizione del diritto di soggiorno permanente. Esporrò in seguito i motivi per cui ritengo che i periodi di soggiorno legale che precedono e che seguono una pena detentiva non possano essere sommati ai fini del calcolo di detto termine, avendo la detenzione l’effetto di interrompere il decorso di tale periodo.
I – Il contesto normativo
A – La direttiva 2004/38
5. La direttiva 2004/38 riunisce e semplifica la normativa dell’Unione in materia di libera circolazione delle persone e del diritto di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari.
6. Infatti, detta direttiva abolisce l’obbligo per i cittadini dell’Unione di ottenere una carta di soggiorno, introduce un diritto di soggiorno permanente a favore dei suddetti cittadini e dei loro familiari e circoscrive la possibilità per gli Stati membri di limitare il soggiorno dei cittadini degli altri Stati membri sul loro territorio.
7. L’articolo 7, paragrafi 1 e 2, di detta direttiva, intitolato «Diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi», così recita:
«1. Ciascun cittadino dell’Unione ha il diritto di soggiornare per un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, a condizione:
a) di essere lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante; o
b) di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante; o
c) — di essere iscritto presso un istituto pubblico o privato, riconosciuto o finanziato dallo Stato membro ospitante in base alla sua legislazione o prassi amministrativa, per seguirvi a titolo principale un corso di studi inclusa una formazione professionale,
— di disporre di un’assicurazione malattia che copre tutti i rischi nello Stato membro ospitante e di assicurare all’autorità nazionale competente, con una dichiarazione o con altro mezzo di sua scelta equivalente, di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il suo periodo di soggiorno; o
d) di essere un familiare che accompagna o raggiunge un cittadino dell’Unione rispondente alle condizioni di cui alle lettere a), b) o c).
2. Il diritto di soggiorno di cui al paragrafo 1 è esteso ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro quando accompagnino o raggiungano nello Stato membro ospitante il cittadino dell’Unione, purché questi risponda alla condizioni di cui al paragrafo 1, lettere a), b) o c)».
8. L’articolo 16 della direttiva 2004/38, intitolato «Norma generale per i cittadini dell’Unione e i loro familiari», è redatto come segue:
«1. Il cittadino dell’Unione che abbia soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nello Stato membro ospitante ha diritto al soggiorno permanente in detto Stato. Tale diritto non è subordinato alle condizioni di cui al capo III.
2. Le disposizioni del paragrafo 1 si applicano anche ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che abbiano soggiornato legalmente in via continuativa per cinque anni assieme al cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante.
3. La continuità della residenza non è pregiudicata da assenze temporanee che non superino complessivamente sei mesi all’anno né da assenze di durata superiore per l’assolvimento degli obblighi militari né da un’assenza di dodici mesi consecutivi al massimo dovuta a motivi rilevanti, quali gravidanza e maternità, malattia grave, studi o formazione professionale o il distacco per motivi di lavoro in un altro Stato membro o in un paese terzo.
4. Una volta acquisito, il diritto di soggiorno permanente si perde soltanto a seguito di assenze dallo Stato membro ospitante di durata superiore a due anni consecutivi».
B – Il diritto del Regno Unito
9. La direttiva 2004/38 è stata trasposta nel Regno Unito mediante il regolamento del 2006 sull’immigrazione (Spazio economico europeo) [Immigration (European Economic Area) Regulations 2006], come modificato dal regolamento del 2009 sull’immigrazione (Spazio economico europeo) [Immigration (European Economic Area) (Amendment) Regulations 2009] (in prosieguo: il «regolamento sull’immigrazione»).
10. In forza dell’articolo 15, paragrafo 1, lettera b), del regolamento sull’immigrazione, il diritto di soggiorno permanente è acquisito dai familiari di un cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro ma che hanno risieduto sul territorio del Regno Unito per un periodo ininterrotto di cinque anni.
11. L’articolo 18, paragrafo 2, del regolamento sull’immigrazione prevede che il Secretary of State for the Home Department (in prosieguo: il «Secretary of State») rilasci una carta di soggiorno permanente entro sei mesi da quando la persona interessata ne ha fatto domanda e ha fornito la prova di disporre di tale diritto.
12. L’articolo 21 del regolamento sull’immigrazione è diretto a trasporre l’articolo 28 della direttiva 2004/38.
II – Fatti del procedimento principale e questioni pregiudiziali
13. Il sig. Onuekwere è cittadino nigeriano. Egli sostiene di essere arrivato sul territorio del Regno Unito nel 1999. Il 2 dicembre 1999, ha contratto matrimonio con una cittadina irlandese, con la quale ha avuto due bambini. Il 5 settembre 2000 il sig. Onuekwere ha ottenuto un permesso di soggiorno che gli conferiva il diritto di restare sul territorio del Regno Unito in quanto coniuge di una cittadina dell’Unione. La data di scadenza di detto permesso era il 5 settembre 2005.
14. Il 26 giugno 2000, il sig. Onuekwere, dichiarato colpevole di aver avuto rapporti sessuali con una paziente dell’ospedale presso cui lavorava affetta da disturbi mentali, veniva condannato a nove mesi di reclusione con sospensione della pena per due anni. Il giudice del rinvio precisa che egli ha completato il periodo di sospensione senza essere incarcerato.
15. Il 30 settembre 2003, in occasione di un controllo alla frontiera tra la Francia e il Regno Unito, il sig. Onuekwere è stato arrestato per aver favorito l’ingresso irregolare nel territorio del Regno Unito di un passeggero che trasportava a bordo della propria auto. Il sig. Onuekwere è stato rilasciato su cauzione in attesa del giudizio, ma non è comparso in udienza, circostanza che ha portato alla sua condanna per tale reato, il 18 agosto 2004. Il 16 settembre 2004, il sig. Onuekwere è stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione per i fatti risalenti al 30 settembre 2003.
16. È stato rilasciato il 16 novembre 2005 e, con decisione del 18 novembre 2005 il Secretary of State ha adottato un provvedimento di espulsione. Il sig. Onuekwere ha proposto un ricorso contro tale provvedimento, ricorso che è stato accolto con decisione del 1° novembre 2006, sulla base del fatto che il ricorrente era il consorte di una cittadina dell’Unione che esercitava i diritti conferiti dal Trattato CE.
17. Il 26 dicembre 2007, in occasione di un controllo stradale, il sig. Onuekwere è stato arrestato per possesso illegale di documenti falsi. L’8 maggio 2008 è stato condannato per tali fatti a due anni e tre mesi di reclusione. Il giudice del rinvio precisa che, alla data della condanna, egli aveva già trascorso 109 giorni in carcere.
18. Il 6 febbraio 2009, giorno del rilascio del sig. Onuekwere, il Secretary of State ha adottato un secondo provvedimento di espulsione a suo carico. Con decisione del 29 giugno 2010, l’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber), London, ha accolto il ricorso proposto dal sig. Onuekwere. Detto giudice ha concluso che, benché la moglie del ricorrente avesse esercitato diritti conferiti dal Trattato tra l’aprile 1998 e il maggio 2004, acquisendo in tal modo un diritto di soggiorno permanente, lo stesso non valeva per il sig. Onuekwere, poiché la sua detenzione dal 16 settembre 2004 gli aveva impedito di acquisire siffatto diritto. Tuttavia, detto giudice ha ritenuto che il ricorrente non potesse essere espulso, dato che gli elementi relativi alla sua situazione personale prevalevano sull’interesse pubblico relativo alla sua espulsione per motivi di ordine pubblico.
19. In seguito a tale decisione il sig. Onuekwere ha chiesto il rilascio di una carta di soggiorno permanente. Con decisione del 24 settembre 2010 il Secretary of State ha respinto tale domanda. Contro detta decisione è stato dunque proposto un ricorso dinanzi al First-tier Tribunal (Immigration and Asylum Chamber), e un’udienza ha avuto luogo il 20 giugno 2011. Detto giudice ha ritenuto che il sig. Onuekwere avesse diritto ad una carta di soggiorno ma che non disponesse di un diritto di soggiorno permanente fondato su un soggiorno continuativo di cinque anni.
20. Il sig. Onuekwere ha allora proposto ricorso contro detta decisione dinanzi al giudice del rinvio affermando che, alla luce della sentenza del 23 novembre 2010, Tsakouridis (3), la detenzione non aveva interrotto la continuità della residenza, ma costituiva semplicemente un fattore da prendere in considerazione.
21. Come indicato dal giudice del rinvio, il periodo di circa quattro anni e dieci mesi, compreso tra il 2 dicembre 1999, data del matrimonio del sig. Onuekwere con una cittadina dell’Unione, e il 16 settembre 2004, data della detenzione di quest’ultimo, è di poco inferiore ai cinque anni richiesti per l’ottenimento del diritto di soggiorno permanente in forza dell’articolo 16 della direttiva 2004/38.
22. Nutrendo dubbi sull’interpretazione da dare a dette disposizioni l’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber), London, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) A quali condizioni, laddove esistano, un periodo di detenzione integri un soggiorno legale ai fini dell’acquisizione del diritto di soggiorno permanente ai sensi dell’articolo 16 della direttiva 2004/38.
2) Se, qualora un periodo di detenzione non integri un soggiorno legale, una persona che ha scontato un periodo di detenzione possa sommare i periodi di soggiorno precedenti e successivi alla detenzione ai fini del calcolo dei cinque anni necessari per acquisire il diritto di soggiorno permanente ai sensi della direttiva 2004/38».
III – Analisi
23. Con la prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, alla Corte se l’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 debba essere interpretato nel senso che un periodo di detenzione può costituire un «soggiorno legale» ed essere perciò preso in considerazione nel calcolo dei cinque anni richiesti ai fini dell’acquisizione del diritto di soggiorno permanente.
24. Nel caso in cui detto periodo non costituisca un «soggiorno legale» il giudice del rinvio intende accertare, con la seconda questione, se detta disposizione debba essere interpretata nel senso che i periodi di soggiorno legale precedenti e successivi alla detenzione possono essere sommati ai fini del calcolo di detto periodo di cinque anni.
A – Sulla nozione di «soggiorno legale» ai sensi dell’articolo 16 della direttiva 2004/38
25. Desidero innanzitutto indicare le ragioni per cui ritengo che la sentenza del 29 aprile 2004, Orfanopoulos e Oliveri (4), nonché la citata sentenza Tsakouridis a cui fanno riferimento espressamente il giudice del rinvio e il sig. Onuekwere, non siano rilevanti nella presente causa.
26. Nella causa che ha dato luogo alla citata sentenza Orfanopoulos e Oliveri, una delle questioni che si erano poste era quella di sapere se il sig. Orfanopoulos avesse conservato lo status di lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione nonostante un periodo di detenzione, essendo il mantenimento del diritto di soggiorno subordinato alla qualità di lavoratore o, se del caso, di persona alla ricerca di un impiego. Si trattava, dunque, nel caso di specie, non già di determinare l’effetto della detenzione sulla continuità di un soggiorno legale ai fini dell’acquisizione di un diritto di soggiorno permanente — diritto che, al momento della pronuncia di tale sentenza, non esisteva ancora per il cittadino dell’Unione — bensì di determinare l’effetto di tale detenzione sul mantenimento della qualifica di lavoratore ai fini della conservazione del diritto di soggiorno.
27. Per quanto attiene alla causa che ha dato luogo alla citata sentenza Tsakouridis, la questione era quella di sapere in che misura le assenze dal territorio dello Stato membro ospitante durante il periodo di cui all’articolo 28, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2004/38, cioè nel corso dei dieci anni precedenti la decisione di allontanamento dell’interessato, impediscano a quest’ultimo di godere della protezione rafforzata. A tale questione la Corte ha semplicemente indicato che la circostanza che l’interessato abbia fatto oggetto di un rientro forzato nello Stato membro ospitante al fine di scontarvi una pena detentiva e il periodo trascorso in detenzione possono essere presi in considerazione, insieme agli elementi elencati nel punto 33 di tale sentenza, nella valutazione complessiva richiesta per determinare se i legami di integrazione precedentemente creati con lo Stato membro ospitante siano stati interrotti (5).
28. In detta causa era dunque chiesto alla Corte non di precisare la nozione di soggiorno legale, nozione che, del resto, è assente dalla formulazione dell’articolo 28 di detta direttiva, bensì d’interpretare il sistema di protezione contro l’allontanamento previsto da tale disposizione. Le condizioni per l’ottenimento e la perdita del diritto di soggiorno devono essere distinte da quelle che si riferiscono alla perdita della protezione rafforzata (6). Le citate sentenze Orfanopoulos e Oliveri nonché Tsakouridis non mi sembrano perciò pertinenti nel caso di specie.
29. Per contro, altre recenti sentenze della Corte forniscono alcuni elementi utili ai fini della risposta alla prima questione.
30. Infatti, nella sentenza del 21 dicembre 2011, Ziolkowski e Szeja (7), la Corte ha avuto l’occasione, per la prima volta, di definire la nozione di «soggiorno legale» ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38. Cosi, tale nozione sottesa ai termini «che abbia soggiornato legalmente», di cui a detta disposizione, deve intendersi come corrispondente ad un soggiorno conforme alle condizioni previste da detta direttiva e, segnatamente, a quelle previste all’articolo 7, paragrafo 1, della stessa (8).
31. Inoltre, nella sentenza dell’8 maggio 2013, Alarape e Tijani (9), la Corte ha statuito che, ai fini dell’applicazione dell’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, occorre rilevare che l’acquisizione del diritto di soggiorno permanente dei familiari di un cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro dipende in ogni caso dal fatto che, da un lato, il cittadino stesso risponda alle condizioni stabilite dall’articolo 16, paragrafo 1, di detta direttiva, e che, dall’altro, i familiari di cui trattasi abbiano soggiornato con tale cittadino durante il periodo in questione.
32. Per quanto riguarda l’acquisizione di un diritto di soggiorno permanente per i familiari del cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, siffatto obbligo di soggiornare con detto cittadino nello Stato membro ospitante durante il periodo in questione implica per essi l’esistenza necessaria e concomitante di un diritto di soggiorno ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, in qualità di familiari che accompagnano o raggiungono il cittadino medesimo (10). Ricordo che detta disposizione indica che il diritto di soggiorno previsto per i cittadini dell’Unione, conformemente al paragrafo 1 di detto articolo, è esteso ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro quando accompagnino o raggiungano nello Stato membro ospitante il cittadino dell’Unione, purché questi risponda alle condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettere a), b) o c), di detta direttiva.
33. Del resto, ne consegue che, ai fini dell’acquisizione del diritto di soggiorno permanente dei familiari di un cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, possono prendersi in considerazione unicamente i periodi di soggiorno di tali familiari che rispondano ai requisiti di cui all’articolo 7, paragrafo 2, della stessa (11).
34. Da tale giurisprudenza deriva la seguente constatazione. Il diritto di soggiorno permanente di un cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, non è un diritto autonomo, bensì un diritto derivato dal diritto di soggiorno permanente di quest’ultimo. Parimenti, il diritto di soggiorno di tale cittadino di uno Stato terzo discende direttamente dal diritto di soggiorno del cittadino dell’Unione ottenuto conformemente all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2004/38.
35. Secondo il sig. Onuekwere, dunque, il fatto che, durante i cinque anni di soggiorno legale richiesti ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 2, di detta direttiva, egli abbia scontato una pena detentiva, è poco rilevante. Egli ritiene, infatti, che nonostante i periodi trascorsi in carcere, dato che sua moglie, cittadina dell’Unione, soddisfa le condizioni dell’articolo 7, paragrafo 1, di detta direttiva e gode di un diritto di soggiorno permanente, egli stesso sarebbe legittimato a godere di siffatto diritto. Inoltre, a proposito della condizione di soggiorno con il cittadino dell’Unione ripresa nell’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, nell’espressione «abbiano soggiornato legalmente (...) assieme al cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante», il sig. Onuekwere ritiene che non esista un obbligo di convivenza tra detto cittadino che esercita il proprio diritto di libera circolazione e di soggiorno e il coniuge, familiare, tanto che sarebbe possibile considerare che i periodi trascorsi in carcere corrispondano ad un soggiorno con il cittadino dell’Unione.
36. Non posso concordare con tale analisi.
37. Innanzitutto, riguardo all’espressione «assieme al cittadino dell’Unione» di cui all’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, la Corte ha ritenuto, fin dagli anni ’80, che la convivenza di un lavoratore migrante con un cittadino di uno Stato terzo familiare di detto lavoratore non esiga necessariamente che il familiare di cui trattasi vi abiti in permanenza, ma soltanto che l’alloggio di cui dispone il lavoratore possa considerarsi normale per ospitare la sua famiglia. L’esigenza dell’unicità dell’alloggio familiare permanente non può quindi ammettersi implicitamente (12). Nel caso di specie, si trattava di una cittadina di uno Stato terzo che viveva separata dal coniuge, lavoratore migrante, e che voleva ottenere un diritto di soggiorno in forza dell’articolo 10 del regolamento (CEE) n. 1612/68 (13). La Corte ha, perciò, indicato che i familiari di un lavoratore migrante, ai sensi di tale disposizione, non devono necessariamente convivere con lui in permanenza per essere titolari di un diritto di soggiorno in forza di tale disposizione.
38. Tale interpretazione vale altresì per gli strumenti di diritto dell’Unione successivi al regolamento n. 1612/68, nella fattispecie la direttiva 2004/38. Ritengo che l’espressione «assieme al cittadino dell’Unione» di cui all’articolo 16, paragrafo 2, di detta direttiva, non debba essere interpretata letteralmente, e dunque restrittivamente, col rischio di sottrarre ad alcuni legittimi beneficiari i diritti che la direttiva normalmente conferisce loro e col rischio, altresì, di violare il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui ciascuno dispone in forza dell’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
39. Infatti, esistono situazioni in cui, per forza di cose, il cittadino dell’Unione e il cittadino di uno Stato terzo, suo familiare, non possono coabitare sempre sotto lo stesso tetto. Per esempio, il cittadino dell’Unione può essere obbligato a vivere durante la settimana o persino per un periodo più lungo, in una regione diversa da quella in cui vive il coniuge cittadino di uno Stato terzo. Ciò è particolarmente vero nella società attuale in cui è spesso richiesta una mobilità professionale e geografica. Parimenti, un familiare di un cittadino dell’Unione può avere lo status di studente ed essere dunque indotto ad effettuare i propri studi in una città diversa rispetto a quella in cui l’unità familiare ha la sua dimora principale.
40. La Corte ha, d’altronde, già giudicato che la circostanza che i figli di un cittadino dell’Unione non abitino in permanenza con quest’ultimo non incide sui diritti loro derivanti dagli articoli 10 e 12 del regolamento n. 1612/68. L’articolo 10 di tale regolamento, ai sensi del quale il familiare del lavoratore migrante ha il diritto di stabilirsi con il lavoratore medesimo, non esige la coabitazione permanente del familiare interessato, bensì unicamente, come risulta dal paragrafo 3 di tale articolo, che l’alloggio di cui il lavoratore dispone possa considerarsi normale per ospitare la sua famiglia (14).
41. L’obbligo, previsto all’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38, di risiedere in via continuativa con il cittadino dell’Unione per un periodo di cinque anni non significa dunque che la convivenza sotto lo stesso tetto debba essere permanente.
42. Ciò nonostante, come esporrò in seguito, non ritengo che i periodi di soggiorno trascorsi in carcere possano essere considerati come periodi di soggiorno legale ai sensi di tale disposizione ed essere perciò contabilizzati nel calcolo dei cinque anni richiesti da detta disposizione ai fini dell’ottenimento di un diritto di soggiorno permanente.
43. Occorre ricordare lo scopo della direttiva 2004/38. Come ho già detto nelle mie conclusioni nella causa che ha dato luogo alla citata sentenza Ziolkowski e Szeja, deriva dai considerando 3 e 17 di detta direttiva che essa intende giungere ad un sistema imperniato sul rafforzamento della coesione sociale nel quale il diritto di soggiorno permanente appare come un fattore chiave in quanto elemento della cittadinanza dell’Unione, cittadinanza chiamata a costituire lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri quando essi esercitano il loro diritto di libera circolazione e di libero soggiorno. Così, la volontà del legislatore dell’Unione è quella di raggiungere, per i cittadini dell’Unione che soddisfano le condizioni di acquisizione di tale diritto di soggiorno permanente, una parità di trattamento quasi totale con i cittadini nazionali (15).
44. Il diritto di soggiorno permanente va, dunque al di là del semplice diritto di libera circolazione e soggiorno nel territorio dell’Unione. Esso intende creare, nei cittadini dell’Unione, un sentimento di appartenenza completa alla società dello Stato membro ospitante, in particolare rimuovendo tutti gli ostacoli amministrativi che possono esistere per i non cittadini (16). Perciò, una volta ottenuto, il diritto di soggiorno permanente non è sottoposto ad alcuna delle condizioni di cui al titolo III della direttiva 2004/38, e segnatamente quelle elencate dall’articolo 7 della stessa.
45. Vero è che la presente causa riguarda un cittadino di uno Stato terzo familiare di un cittadino dell’Unione. Tuttavia, l’effetto voluto non è perciò meno forte. Innanzitutto il legislatore dell’Unione ha voluto preservare l’integrità del nucleo familiare, che è intrinsecamente legata al diritto al rispetto della vita familiare, permettendo il ricongiungimento familiare e facilitando così la libera circolazione dei cittadini dell’Unione, dato che a questi ultimi non è più impedito di spostarsi in quanto perderebbero i contatti con la propria famiglia (17). Poi, concedendo altresì un diritto di soggiorno permanente ai cittadini di uno Stato terzo familiari di un cittadino dell’Unione, il legislatore dell’Unione intende, altresì, tutelare siffatta integrità del nucleo familiare facendo in modo che anche tali cittadini di uno Stato terzo abbiano un senso di appartenenza alla società dello Stato membro ospitante.
46. In realtà, la concessione di un diritto di soggiorno permanente è quasi equivalente, per i cittadini di uno Stato terzo familiari di un cittadino dell’Unione ad assimilarli a siffatto cittadino qualora abbiano soggiornato con esso per almeno cinque anni sul territorio dello Stato membro ospitante. Infatti, per il legislatore dell’Unione un periodo sufficientemente lungo di residenza sul territorio dello Stato membro ospitante dimostra che il cittadino dell’Unione o il suo familiare hanno sviluppato legami stretti con detto Stato e, dunque, la sua reale integrazione.
47. Il sistema disposto dalla direttiva 2004/38, e, più specificamente, la creazione di un diritto di soggiorno permanente, si basa, dunque, sull’idea che una reale integrazione debba essere, in qualche modo, premiata, o almeno che debba avere l’effetto di rafforzare detto senso di appartenenza alla società dello Stato membro ospitante.
48. Dunque, se tale sistema è basato su una reale integrazione dell’interessato, come può ammettersi che una persona che ha trascorso uno o più periodi in carcere possa beneficiare di un diritto di soggiorno permanente? L’integrazione all’interno della società dello Stato membro ospitante non presuppone del resto, da parte di colui che se ne avvale, il rispetto, in primo luogo, delle leggi e dei valori di tale società?
49. Ritengo che tale sia, per l’appunto, il caso. Come la Corte ha indicato nella sentenza del 21 luglio 2011, Dias (18), e come ho ricordato nelle mie conclusioni nella causa che ha dato luogo alla sentenza del 22 maggio 2012, I. (19), l’integrazione, sottesa all’acquisizione del diritto di soggiorno permanente previsto dall’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38, è coniugata non solo a elementi spaziali e temporali, ma anche ad elementi qualitativi, relativi al grado di integrazione nello Stato membro ospitante (20).
50. Periodi di soggiorno trascorsi in prigione indicano necessariamente un debole grado d’integrazione della persona interessata. E ciò è ancora più evidente quando, come nel procedimento principale, detta persona è un plurirecidivo. A mio avviso, un comportamento penalmente sanzionabile è chiaramente rivelatore della mancanza di volontà del suo autore di integrarsi nella società dello Stato membro ospitante.
51. Se si porta all’estremo il ragionamento del sig. Onuekwere, non si può non constatare che è in perfetta contraddizione con lo spirito della direttiva 2004/38 e con lo scopo che essa persegue. Infatti, la tesi sostenuta dal sig. Onuekwere equivale, alla fine, a ritenere che più grave è la sanzione e, quindi, più è lunga la detenzione, più la persona interessata è integrata nella società dello Stato membro ospitante. Così, per esempio, un cittadino di uno Stato membro familiare di un cittadino dell’Unione, condannato a venti anni di reclusione per omicidio, potrebbe esigere un diritto di soggiorno permanente dopo cinque anni trascorsi in carcere, qualora il suo coniuge, che soddisfaceva le condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, di detta direttiva, abbia egli stesso acquisito un diritto di soggiorno permanente.
52. Deve ammettersi che, oltre ad essere insensato, tale ragionamento è contrario allo scopo perseguito dalla direttiva in parola che è, segnatamente, quello di promuovere la coesione sociale mediante l’introduzione un diritto di soggiorno permanente e di rafforzare il senso di appartenenza alla cittadinanza dell’Unione. C’è forse bisogno di ricordare, al riguardo, che la cittadinanza è per il cittadino una garanzia di appartenenza ad una comunità politica e di diritto?
53. Infine, dato che è stato fatto riferimento alle mie conclusioni nella causa che ha dato luogo alla citata sentenza Tsakouridis (21), poiché il sig. Onuekwere ritiene che la circostanza di non tenere conto dei periodi di soggiorno trascorsi in carcere sarebbe incompatibile con l’obiettivo di integrazione e con la funzione di reinserimento della pena, preciserò quanto segue.
54. È indubbio che qualsiasi pena deve, in forza delle esigenze che scaturiscono dai principi fondamentali della disciplina delle sanzioni, avere una funzione di reinserimento che le sue modalità di esecuzione devono garantire. Tuttavia, se è stata inflitta una pena, è proprio perché i valori che la società ha espresso nel proprio diritto penale sono stati contestati dal trasgressore. E se il reinserimento deve avere l’importanza che gli spetta, è appunto perché l’inserimento non si è verificato oppure, il che motiva la commissione del reato, è stato compromesso dalla stessa.
55. Oltre alla funzione di reinserimento, la sanzione comporta una funzione essenziale, quella retributiva, funzione avente lo scopo di far pagare il prezzo per il reato commesso, proporzionata alla gravità di detto reato, consistente in questo caso nella misura di reclusione. Dette funzioni non possono escludersi a vicenda. L’esistenza della funzione di reinserimento non può comportare che il periodo in cui è stata scontata la pena per il reato commesso crei, in capo al condannato, un diritto il cui ottenimento presuppone il riconoscimento e l’accettazione di quei valori sociali che, mediante il suo atto delittuoso, il condannato ha appunto violato.
56. È il motivo per cui ritengo, dunque, che, anche nell’ambito dell’alleggerimento della sanzione, che possa tradursi ad esempio, negli arresti domiciliari, o in una semi libertà condizionata al ritorno in carcere del condannato la sera, non si può ritenere che l’interessato effettui un soggiorno legale ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38.
57. Per l’insieme di tali ragioni, ritengo che detta disposizione debba essere interpretata nel senso che un periodo di detenzione non può essere qualificato come «soggiorno legale» e non può dunque essere preso in considerazione nel calcolo del periodo di cinque anni richiesto ai fini dell’acquisizione di un diritto di soggiorno permanente.
B – Sul cumulo dei periodi di soggiorno legale ai fini del calcolo del periodo di cinque anni
58. La seconda questione posta dal giudice del rinvio è intrinsecamente legata alla prima. Perciò, in caso di risposta negativa a tale prima questione, l’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber), London, intende stabilire, in sostanza, se l’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 debba essere interpretato nel senso che i periodi di soggiorno legale precedenti e successivi a un periodo di reclusione possono essere sommati ai fini del calcolo del richiesto periodo di cinque anni.
59. In altri termini, la questione è quella di sapere se la reclusione interrompa la continuità del soggiorno legale, con la conseguenza che i periodi di soggiorno legale effettuati prima e dopo tale reclusione non possono essere cumulati.
60. Secondo il governo tedesco e la Commissione, alcuni periodi potrebbero essere presi in considerazione. Infatti, a dire del governo tedesco, deve applicarsi per analogia l’articolo 16, paragrafo 3, della direttiva 2004/38. Perciò, diversi periodi di reclusione per un totale di più di sei mesi nel corso dell’anno o un periodo unico di reclusione di più di dodici mesi interromperebbero la continuità del soggiorno legale richiesto ai fini dell’acquisizione del diritto di soggiorno permanente. Parimenti, periodi di reclusione di durata inferiore a quelle summenzionate interromperebbero la continuità di tale soggiorno qualora il reato che giustifica la reclusione dimostri manifestamente la mancanza di volontà, da parte dell’interessato, di integrarsi nella società dello Stato membro ospitante o di rispettarne i valori.
61. Quanto alla Commissione, essa ritiene che la considerazione di alcuni periodi trascorsi in carcere dipenda, segnatamente, dal grado di integrazione dell’interessato prima della detenzione, dalla durata della stessa, dalla gravità del reato commesso e per cui è stato condannato e dall’esistenza o meno di una recidiva. La Commissione sostiene, dunque, che si dovrebbe compiere, in tal caso, un’analisi di proporzionalità.
62. Non condivido né la posizione del governo tedesco né quella della Commissione.
63. Come già detto, l’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 prevede una condizione di continuità del soggiorno, esigendo che il familiare nella situazione del sig. Onuekwere abbia soggiornato legalmente con il cittadino dell’Unione per un periodo ininterrotto di cinque anni. Tale disposizione deve essere letta alla luce degli obiettivi di detta direttiva, espressi in particolare nei considerando 17 e 18, cioè quelli di favorire la coesione sociale e permettere l’integrazione dei nuovi arrivati nella società dello Stato membro ospitante mediante l’instaurazione di buoni rapporti sociali, familiari e professionali in tale Stato. Inoltre, i lavori preparatori relativi alla direttiva 2004/38 evidenziano l’importanza della creazione di un forte legame d’integrazione con lo Stato membro ospitante come prerequisito per l’ottenimento del diritto di soggiorno permanente. La condizione enunciata dall’articolo 16, paragrafo 2, di tale direttiva esprime dunque la presunzione secondo cui un periodo ininterrotto di cinque anni ha permesso all’individuo interessato di stringere forti legami d’integrazione con la società dello Stato membro ospitante.
64. Del resto, alla luce delle osservazioni presentate nell’ambito della prima questione, mi sembra che se i periodi di soggiorno legale precedenti e successivi alla reclusione potessero essere presi in considerazione ai fini del calcolo del richiesto periodo di cinque anni, detta circostanza equivarrebbe, in realtà, a negare l’assenza d’integrazione dell’interessato e comprometterebbe notevolmente l’effetto utile perseguito dall’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38. La reclusione a seguito di una violazione delle regole della società dello Stato membro ospitante dimostra, per l’appunto, che la persona interessata non era integrata in detta società. Ancora una volta, tale circostanza è ancora più evidente quando l’interessato è recidivo.
65. Il cumulo dei periodi di soggiorno precedenti e successivi l’esecuzione della pena non è, dunque, coerente con lo scopo perseguito da tale direttiva. Procedere in tal modo equivarrebbe a snaturare l’espressione «periodo continuativo di cinque anni» di cui all’articolo 16, paragrafo 2, della stessa e a ignorare l’esigenza di continuità del processo di integrazione.
66. A mio avviso, la formulazione dell’articolo 16, paragrafo 3, di detta direttiva non cambia sotto alcun profilo tale analisi. Tale disposizione propone alcuni esempi di assenze temporanee che non pregiudicano la continuità del soggiorno legale. Tale è il caso di assenza di non più di sei mesi nel corso dell’anno, di un’assenza di durata superiore per motivi di obblighi militari, di un’assenza di dodici mesi consecutivi al massimo dovuta a motivi rilevanti quali gravidanza e maternità, malattia grave, studi o formazione professionale o, ancora, il distacco per motivi di lavoro.
67. La lettura di tale disposizione mi induce a osservare innanzitutto che le assenze menzionate sono assenze dal territorio dello Stato membro ospitante. Mi pare, dunque, difficile assimilare i periodi di soggiorno trascorsi in carcere ad un’assenza dal territorio di tale Stato.
68. Inoltre, tali assenze non derivano da un comportamento penalmente rilevante della persona interessata. Rappresentano, in particolare, alcuni avvenimenti nella vita di un cittadino dell’Unione o di un suo familiare cittadino di uno Stato terzo, che li costringono ad abbandonare temporaneamente il territorio dello Stato membro ospitante. Tale è il caso, segnatamente, degli obblighi militari o professionali, o anche di una malattia grave che richiede cure per cui le strutture di altri Stati si rivelano più adatte. Un cittadino dell’Unione o un suo familiare cittadino di uno Stato terzo possono, altresì, voler lasciare temporaneamente il territorio dello Stato membro ospitante per poter stare con una persona cara in un momento difficile. La volontà di integrarsi nella società di tale Stato e di stringere con esso legami forti non è per questo diminuita.
69. Ritengo, perciò, che non sia possibile applicare l’articolo 16, paragrafo 3, della direttiva 2004/38 al caso sottoposto alla Corte, contrariamente a quanto sostiene il governo tedesco.
70. La Commissione propone che il giudice nazionale sia libero, in alcuni casi, di rendere meno rigida la regola secondo la quale i periodi di soggiorno legale precedenti e successivi alla reclusione non sono conteggiati nel calcolo del termine, Si terrebbe, perciò, conto del principio di proporzionalità limitando le conseguenze di una condanna per quegli individui condannati a pene particolarmente brevi, conseguenza di reati relativamente minori. L’applicazione del principio di proporzionalità impedirebbe, dunque, in alcuni casi l’interruzione del periodo di cinque anni ai fini dell’acquisizione di un diritto di soggiorno permanente.
71. Credo che tale soluzione non sia concepibile. Innanzitutto, come conciliare con il principio di certezza del diritto il fatto che, in un’Unione a 28, il diritto penale e, quindi, la qualificazione dei reati divergono? Alcuni reati possono non essere di pari gravità e vedersi applicare le stesse sanzioni in tutti gli Stati membri. D’altronde, ritengo che servano dei criteri precisi affinché colui che commette un reato sappia esattamente cosa attendersi. L’incertezza derivante dall’applicazione del principio di proporzionalità quale proposta dalla Commissione potrebbe mettere a repentaglio il principio di legalità della pena.
72. Al contrario di quanto ha sostenuto la Commissione durante l’udienza, ritengo che non spetti alla Corte, bensì al legislatore dell’Unione, definire tali criteri e le soglie al di sotto delle quali si dovrebbe ritenere che il soggiorno trascorso in carcere non interrompa il periodo richiesto dall’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38.
73. A mio avviso, solo un periodo di soggiorno trascorso in carcere nell’ambito di una detenzione cautelare nell’attesa del processo, seguita da una decisione di non luogo a procedere o da un’assoluzione, potrebbe essere preso in considerazione nel calcolo del periodo di cinque anni richiesto ai fini dell’acquisizione di un diritto di soggiorno permanente. Infatti, in tale caso specifico, la detenzione cautelare non rappresenta l’esecuzione di una pena in seguito ad una condanna per aver commesso un reato. Si tratta della reclusione dell’interessato durante tutta o parte delle indagini durante le quali lo stesso gode della presunzione d’innocenza. Qualora, in seguito, egli sia oggetto di una decisione di non luogo a procedere o di un’assoluzione, le pubbliche autorità ritengono che non ci sia stata affatto violazione delle regole e dei valori della società, dato che l’interessato non ha mai cessato di essere innocente per i fatti cui era accusato. Perciò non lo si può accusare di un comportamento penalmente rilevante che implica una mancanza di volontà di integrarsi nella società dello Stato membro ospitante.
74. Considerati tutti gli elementi che precedono, ritengo che l’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38 debba essere interpretato nel senso che i periodi di soggiorno legale precedenti e successivi a un periodo di reclusione non possono essere sommati ai fini del calcolo del periodo di cinque anni, dal momento che la reclusione ha interrotto il decorso di tale periodo.
IV – Conclusione
75. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, propongo alla Corte di rispondere all’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber), London, nel modo seguente:
L’articolo 16, paragrafo 2, della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, deve essere interpretato nel senso che:
– un periodo di reclusione non può essere qualificato come «soggiorno legale» e non può dunque essere preso in considerazione nel calcolo del periodo di cinque anni richiesto ai fini dell’acquisizione di un diritto di soggiorno permanente, e
– i periodi di soggiorno legale precedenti e successivi a un periodo di reclusione non possono essere sommati ai fini del calcolo dei cinque anni, dal momento che la reclusione ha interrotto il decorso di detto periodo.