Sentenza 569/1989
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente SAJA - Relatore GALLO E.
Camera di Consiglio del 16/11/1989 Decisione del 13/12/1989
Deposito del 22/12/1989 Pubblicazione in G. U. 27/12/1989
Norme impugnate:
Massime: 15010
Titoli:
Atti decisi:



N. 569

SENTENZA 13-22 DICEMBRE 1989

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 47, commi secondo e terzo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario), così come modificato dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 2 marzo 1989 dal Tribunale di Sorveglianza di Brescia nel procedimento di sorveglianza relativo a Esposito Francesco, iscritta al n. 293 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell'anno 1989;

2) ordinanza emessa il 26 giugno 1989 dal Tribunale di Sorveglianza di Trieste nel procedimento di sorveglianza a carico di Bergamini Alberto, iscritta al n. 406 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 37, prima serie speciale, dell'anno 1989;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella Camera di consiglio del 16 novembre 1989 il Giudice relatore Ettore Gallo.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza 2 marzo 1989 il Tribunale di Sorveglianza di Brescia sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 47, comma terzo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario), così come modificato dall'art.11 della legge 10 ottobre 1986 n. 663, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, secondo comma, 27, terzo comma della Costituzione.

Riferiva il Tribunale nell'ordinanza che tale Francesco Esposito, condannato dal Pretore di Lonato alla pena di mesi sei di arresto per il reato di guida senza patente, aveva presentato istanza di affidamento in prova al servizio sociale. Rilevava, però, il giudice a quo che il condannato, non avendo subito nemmeno custodia cautelare, non si trovava nelle condizioni previste dal comma impugnato che esige, per l'ammissibilità all'affidamento in prova, che il condannato abbia subito, se non la detenzione in espiazione, almeno un periodo di custodia cautelare, cui sia succeduto, prima della condanna, un periodo di libertà, "serbando comportamento tale da consentire il giudizio di cui al precedente comma 2": vale a dire, un comportamento dal quale si possa ritenere che il provvedimento di affidamento, "anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo, e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati".

A questo punto, però, è parso al giudice a quo che la situazione, così come delineata nel terzo comma dell'art. 47, non sia compatibile con i parametri costituzionali invocati. Da una parte, infatti, si viene a determinare grave sperequazione nei confronti di chi, avendo commesso reato più lieve, o per qualsiasi altra ragione indipendente dalla sua volontà, non ha avuto la ventura di subire custodia cautelare: sicché può verificarsi che colui al quale è stata inflitta una pena di tre anni di reclusione, purché abbia subito anche un sol giorno di custodia cautelare, e tenuto nel periodo successivo il comportamento di cui al terzo comma in parola, può essere ammesso all'affidamento al servizio sociale, mentre dev'esserne escluso chi non ha subito custodia cautelare, e dovrà perciò entrare in carcere a scontare pochi mesi di pena detentiva. In definitiva, sottolinea l'ordinanza che, mentre la diversità fra le due situazioni è affidata a circostanza pressoché irrilevante, ne resta ingiustamente pregiudicato proprio chi più sarebbe meritevole dell'affidamento.

D'altra parte, risulterebbe così anche violato l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, perché verrebbe virtualmente elusa la finalità rieducativa delle pene detentive, specie delle meno gravi, in quanto il condannato verrebbe sottoposto ad un trattamento carcerario, tutt'altro che rieducativo attualmente attesa la situazione in cui versano gli Istituti di pena, ed escluso da un reinserimento graduale ed assistito nel tessuto sociale, che la mite pena subita farebbe ben sperare.

Infine, quanto al parametro di cui all'art. 13, secondo comma, della Costituzione, l'ordinanza fa riferimento alla sentenza n. 343 del 1987 di questa Corte: ma l'argomentazione risulta piuttosto oscura a causa - a quanto sembra di qualche riga del testo saltata.

2. Anche il Tribunale di Sorveglianza di Trieste, con ordinanza 26 giugno 1989, ha sollevato la stessa questione di legittimità costituzionale, benché abbia limitato il riferimento ai parametri di cui agli artt. 3 e 27 della Costituzione.

Dalla narrativa dell'ordinanza si apprende che a tale Alberto Bergamini era stata applicata dal Pretore di Trieste la sanzione di Lit. 600 mila di ammenda, in sostituzione della pena di giorni 20 di arresto e Lit. centomila di ammenda che avrebbe dovuto infliggere per il reato di cui all'art. 4 della legge n. 110 del 1975 (porto abusivo di arma o di oggetti atti ad offendere). Ma, a seguito del ricorso del pubblico ministero, la Corte di Cassazione aveva annullato senza rinvio la parte della sentenza relativa alla sanzione sostitutiva, sicché il Bergamini, ventenne ed incensurato, si era trovato a dover scontare i 20 giorni di arresto. Egli aveva allora presentato al Pretore istanza di sospensione dell'emissione dell'ordine di carcerazione, ai sensi degli artt. 47, quarto comma e 50, sesto comma, della legge impugnata, e contemporanea domanda al Tribunale di Sorveglianza per essere ammesso all'affidamento in prova al servizio sociale per tutta la durata della pena detentiva.

E poiché anche il Bergamini era sempre rimasto a piede libero, pur serbando prima e dopo la condanna comportamento tale da meritare la richiesta ammissione, il Tribunale sollevava la questione di cui s'è detto. In particolare, faceva rilevare l'ordinanza che al Bergamini mancava il requisito della previa custodia cautelare, fosse pure per un sol giorno, e che, d'altra parte, egli non sarebbe stato comunque ammesso all'affidamento nemmeno se fosse entrato in carcere per l'espiazione, in quanto non avrebbe mai potuto raggiungere il periodo minimo di osservazione per un mese, previsto dal secondo comma dell'articolo impugnato.

3. Interveniva nell'uno e nell'altro giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale si riportava integralmente, senza peraltro riferirle, alle conclusioni e alle ragioni esposte in relazione ad asserita analoga questione sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Torino con ordinanza 18 maggio 1987 nel processo contro La Fleur; questione per la quale l'Avvocatura aveva chiesto fosse dichiarata l'infondatezza.

Considerato in diritto

1. I Tribunali di Brescia e di Trieste lamentano che, con le riforme introdotte dalla legge n. 663 del 1986, l'art. 47 della legge 26 luglio 1975 n. 354 ha assunto un contenuto ben diverso da quanto disponeva nella sua formulazione originaria. Accanto, infatti, a coloro che, dovendo scontare una pena non superiore ad anni 3, hanno subito favorevolmente in istituto l'osservazione della personalità per almeno un mese (la disposizione originaria prevedeva addirittura tre mesi), l'attuale terzo comma ha introdotto la possibilità di ammettere all'affidamento anche coloro che non sono mai stati in espiazione di pena: essendo sufficiente che sieno stati in custodia cautelare e che, fra la cessazione della custodia e la condanna definitiva, abbiano serbato comportamento tale da consentire il giudizio di cui al precedente comma 2.

La legge, però, non stabilisce alcun periodo minimo alla detta custodia, sicché - secondo i giudici di merito - è da ritenersi sufficiente anche quello di uno o due giorni. D'altra parte, il periodo di custodia cautelare sarebbe, comunque, al di fuori dell'osservazione, dato che il comma impugnato riferisce il comportamento, di collaborazione alle finalità risocializzanti, al tempo trascorso in libertà.

In tali condizioni, sembra ai giudici di merito che il vincolare tuttavia l'ammissibilità all'affidamento ad una custodia cautelare che può essere pressoché irrilevante, e che comunque non esercita alcuna influenza sull'osservazione, è condizione sprovvista di razionalità. Essa determina, infatti, ingiustificata discriminazione a favore di chi è stato condannato a pena di certa gravità ed è stato in custodia cautelare, sia pure per pochi giorni, di norma a causa di una situazione di pericolo in ordine all'inquinamento delle indagini, o alla sottoposizione all'eventuale pena irroganda o, infine, addirittura in relazione alla perpetrazione di nuovi reati. E, tuttavia, colui che, per la tenuità del reato, e per la sua spontanea disponibilità e sottomissione alla Giustizia, non ha mai subito custodia cautelare, resta escluso da questa più mite modalità di esecuzione della pena, che dovrà interamente scontare in carcere se la sua misura è tale - come nel caso di Trieste - da non raggiungere nemmeno il tempo minimo di osservazione (1 mese) imposto dal secondo comma dell'articolo in esame.

Siffatta situazione, pertanto, non solo sarebbe incompatibile con l'art. 3, ma anche con il terzo comma dell'art. 27, perché verrebbe escluso da un graduale ed assistito reinserimento sociale, in relativa libertà, colui che ne sembra più meritevole, destinandolo ad espiare nel carcere una pena breve, nelle attuali condizioni penitenziarie ben poco favorevoli ad una collaborazione risocializzatrice.

2. La questione è fondata.

La Corte intende preliminarmente chiarire di essersi resa ben conto delle possibili obbiezioni all'impostazione che le ordinanze di rimessione hanno dato alle proposte questioni.

Guardando, infatti, alla delineazione dell'istituto così come emergeva originariamente dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario) sembra evidente che il legislatore del tempo avesse inteso favorire ed accelerare il reinserimento sociale di chi, condannato a pena detentiva di un certo rilievo (fino a due anni e sei mesi o fino a tre anni per gli infraventunenni od ultrasettantenni), avesse dimostrato durante l'osservazione della personalità, condotta da un collegio di esperti nell'istituto penitenziario per almeno tre mesi, di essere disponibile a collaborare con i preposti all'attuazione della finalità rieducativa della pena. In tal caso, il condannato veniva ammesso ad espiare la residua pena in relativa libertà, con l'assistenza e sotto il controllo del servizio sociale, ma sottoposto alle prescrizioni di cui agli artt. 5, 6 e 7 della legge, certamente limitative della sua facoltà di determinare la sua condotta in assoluta libertà. Se la disponibilità del condannato all'attività rieducativa del servizio sociale continuava per tutta la durata della residua pena, questa si estingueva assieme ad ogni altro effetto penale.

Entro tali contorni la fisionomia dell'istituto risultava ben chiara, e questa Corte non ha mancato di sottolinearla in più occasioni.

Non si trattava di provvedimento premiale o di clemenza, ma di un esperimento penitenziario, condotto sotto altre modalità di espiazione, per agevolare ed affrettare il reinserimento sociale del condannato, consentendogli di espiare la residua pena in condizioni di relativa libertà, e in affidamento al servizio sociale, favorendo la disponibilità alla collaborazione rieducativa, di cui aveva dato prova durante l'osservazione degli esperti, nel corso dell'espiazione carceraria.

Si trattava, dunque, di un istituto "riservato" ai condannati che si trovassero in espiazione carceraria della pena e che, come tali, potessero essere sottoposti in istituto alla speciale osservazione collegiale.

A fronte di quella configurazione, ogni tentativo di istituire raffronti con chi, dovendo scontare una breve pena, si trovasse, però, in libertà, appariva improponibile. Anche perché per queste diverse ipotesi esistono istituti specifici intesi ad evitare - ove consigliabile - o ad attenuare l'espiazione di pene brevi. Da quelli previsti nella fase stessa di cognizione (sospensione condizionale, sanzioni sostitutive) a quelle alternative alla detenzione (semilibertà), fino al provvedimento di commutazione o di grazia, prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 87 della Costituzione).

Ma nel corso dei tempi l'istituto ha subito così numerose e importanti modificazioni, da doversi riconoscere l'attenuarsi di quei caratteri originari con la conseguente sostanziale trasformazione della sua stessa natura.

A parte la modifiche intervenute in ordine alla soppressione di talune preclusioni (art. 4 legge 12 gennaio 1977, n. 1, e 7 legge 13 settembre 1982 n. 646) che non interessano il punto in esame, già con l'art. 4-bis, inserito nel decreto-legge 22 aprile 1985, n. 144 al momento della conversione nella legge 21 giugno 1985, n. 297, il periodo di osservazione collegiale veniva diminuito da tre mesi ad un solo mese; e con l'art. 4-ter, pure inserito come il precedente in sede di conversione, veniva formulato l'art. 47-bis della legge in esame che ha sconvolto - sia pure per plausibili ragioni - la stessa filosofia dell'istituto.

Com'è noto, infatti, in base al disposto di detto articolo, quando una sentenza di condanna a pena detentiva, nei limiti di cui al comma 1 dell'art. 47, deve essere eseguita nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma di recupero, l'interessato può chiedere di essere affidato in prova al servizio sociale per proseguire l'attività terapeutica, sulla base di un programma da lui stesso concordato con una unità sanitaria locale e con uno degli enti, anche privati, contemplati dall'art. 1- bis del citato decreto-legge n. 144 del 1985. E lo può chiedere già prima che sia data esecuzione alla pena, sicché il pubblico ministero (o il Pretore), anziché emettere l'ordine di carcerazione, trasmette gli atti all'autorità di sorveglianza del luogo dove il programma terapeutico dev'essere eseguito. Dopodiché l'autorità di sorveglianza decide nelle forme che ad essa sono proprie e, se il condannato è ammesso, e proseguirà il programma terapeutico osservando ogni altra prescrizione fissata dal Tribunale di sorveglianza, egli non entrerà più nei luoghi di espiazione carceraria.

Con siffatta grave deroga, pertanto, l'istituto già perdeva il suo carattere originario, che lo intendeva riservato ai detenuti in espiazione carceraria della pena; per tal modo, infatti, poteva venire applicato anche a chi mai aveva conosciuto l'interno del carcere. Ovviamente la deroga - come si è accennato - aveva sicuramente una sua giustificazione sociale nelle finalità di recupero dei tossico ed alcooldipendenti: ma sarebbe stato allora preferibile che il legislatore ne avesse fatto uno speciale istituto, conservandolo nell'ambito della legislazione delle "attività di prevenzione e di reinserimento dei tossicodipendenti", quale appunto era la citata legge n. 297 del 1985 che lo prevedeva, senza inserirlo nel corpo di una misura penitenziaria di cui avrebbe contribuito - com'è avvenuto - a snaturare la fisionomia contenutistica. Così come, del resto, si è fatto per lo speciale affidamento concernente le condanne dei Tribunali militari (legge 20 aprile 1983, n. 167).

Ma se l'art. 47-bis, pur non avendo delineato un istituto speciale, portava almeno, però, anche nella rubrica, il segno della sua destinazione a "casi particolari", fu poi l'art.11 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, che riformando ex novo l'intero testo dell'art. 47, finì di compiere l'opera di progressiva demolizione attribuendo alla linea generale dell'istituto una natura ibrida e contraddittoria.

A parte i limiti massimi della pena detentiva che venivano unificati per tutti in anni tre, l'aspetto saliente e decisivo di quest'ultima riforma è l'intima contraddizione nel carattere dell'istituto che veniva ad instaurarsi fra i commi 1 e 2 del nuovo art. 47, da una parte, e i commi 3 e 4 dall'altra. I primi due commi, infatti, lasciavano sostanzialmente integro l'istituto originario, riservato ai detenuti in espiazione carceraria della pena, sia pure con la già vista riduzione ad un mese dell'osservazione collegiale della personalità. Ma i due successivi commi introducevano una nuova specie di affidamento, che prescinde del tutto dall'osservazione collegiale in istituto spostandola invece sul comportamento che il condannato ha tenuto nel periodo di libertà successivo ad una eventuale custodia cautelare. E l'aspetto più singolare è rappresentato dal fatto che di tale custodia non è indicato alcun periodo minimo, sicché - come giustamente è stato osservato dai giudici di merito - anche un giorno di custodia cautelare potrebbe essere ritenuto sufficiente, in presenza delle altre condizioni, a giustificare l'ammissione all'affidamento in prova.

3. A questo punto la sola condizione che sembra collegare le due situazioni ora accennate è rappresentata da questa simbolica permanenza in custodia cautelare dell'aspirante all'affidamento che non sia mai stato in espiazione di pena. È evidente che il legislatore ha inteso, con questa disposizione, risolvere il problema del computo, ai fini dell'affidamento, della custodia cautelare: un nodo che era stato indicato dalla dottrina fin dalla prima applicazione della legge. Ed è altresì trasparente che lo spostamento dell'osservazione collegiale sul periodo di libertà successivo alla custodia cautelare tende a superare le difficoltà che erano insorte in proposito. Da una parte, infatti, si sosteneva che, in forza del disposto dell'art. 137 codice penale (oggi anche art. 657 codice procedura penale), la custodia cautelare non poteva non essere equiparata alla pena ad ogni effetto, ma dall'altra si obiettava che, a norma dell'art. 13 dell'ordinamento penitenziario, l'osservazione della personalità è riservata esclusivamente ai soggetti condannati e non a quelli in custodia cautelare. Il tentativo di conciliare quest'ultima difficoltà attribuendo un significato non tecnico al termine "osservazione", usato nell'art. 47, urtava, però, manifestamente contro la specificazione testuale che doveva trattarsi di "osservazione della personalità condotta collegialmente per almeno un mese in istituto": il che non può non essere inteso nel senso proprio e tecnico dell'osservazione scientifica da parte di équipe specializzata, e non di quella comune osservazione amministrativa affidata ai dirigenti del carcere. Deve ricordarsi, anzi, che le precise espressioni dell'art. 47 rappresentavano proprio una eloquente risposta del legislatore a certe semplificazioni da parte dei giudici di sorveglianza. Soltanto che, così formulato, il terzo comma dell'art. 47 ha aperto i problemi attuali. Se, infatti, il periodo di custodia cautelare non serve all'osservazione che viene spostata su quello successivo della libertà, e se, proprio per questo, non occorre nemmeno più che sia rispettato il termine di almeno un mese imposto dal comma precedente, resta oscuro il significato di questa condizione che finisce per proporsi come inutile presupposto della grave deroga alla disciplina generale, rimasta ferma nei primi due commi.

Una deroga che fa dell'affidamento previsto nei commi terzo e quarto una specie diversa, in quanto sostanzialmente esonera dalla previa situazione di espiazione carceraria colui che, nel periodo intermedio, dopo una simbolica custodia cautelare, abbia tenuto un comportamento tale da consentire un giudizio prognostico favorevole in termini rieducativi.

Ma la realtà è che, come si verifica sostanzialmente nell'affidamento del tossicodipendente, ciò che conta veramente è il giudizio sul comportamento tenuto in libertà.

Questo elemento della custodia cautelare, che dovrebbe giustificare il diverso e sfavorevole trattamento usato a chi non ha avuto la ventura d'incadervi, è assolutamente privo di significato ai fini del giudizio di idoneità del soggetto alla rieducazione, specie quando si tratti di qualche giorno: ed, infatti, il legislatore, senza infingimenti, non lo pretende. Il che significa anche che è privo di significato in termini di art. 27, terzo comma della Costituzione.

Taluno ha ritenuto che il legislatore abbia escogitato quell'elemento per stabilire un dies a quo dell'osservazione sul comportamento dell'interessato ma non sembra che fosse necessario ricorrere ad elemento così aleatorio, ben potendosi identificare altri punti fermi (si pensi, nell'attuale codice, alla formulazione dell'imputazione, all'udienza preliminare, al decreto di citazione a giudizio, e da ultimo anche alla stessa sentenza di primo grado).

Il vero è che l'elemento prescelto a discriminare il campo di coloro che hanno sempre mantenuto lo stato di libertà, non solo non è significativo, ma è anche del tutto estraneo rispetto ai fini che l'affidamento si ripromette. Il che appare evidente solo che si consideri da quali e quante circostanze imprevedibili può dipendere una custodia cautelare: come le esigenze attinenti alle indagini, in relazione a situazioni di concreto pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova (art. 247, lett. a) codice procedura penale); o quelle inerenti al pericolo di fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione (art. 247 lett. h), stesso codice); o infine quando risulti il concreto pericolo della commissione di gravi delitti, con uso di armi o di violenza alle persone, o di criminalità organizzata (art. 274, lett. c), stesso codice). Tutte situazioni dove, in minore o maggior misura, predomina il discrezionale apprezzamento del giudice.

Non solo. Ma poiché poi le misure cautelari coercitive possono essere applicate soltanto quando si proceda per delitti per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, tutta la microcriminalità, che non può essere oggi sottoposta a misure cautelari personali coercitive, così, come anche tutti coloro che, avendo commesso reati meno lievi dei precedenti, sono stati, però, ritenuti dal giudice innocui sul piano delle esigenze di cui al citato art. 247 codice procedura penale, non potrebbero aspirare all'affidamento in prova al servizio sociale.

In altri termini, l'affidamento finisce per essere così riservato a coloro che hanno commesso reati più gravi o che hanno dimostrato maggiore pericolosità, al punto da essere sottoposti a misure cautelari personali coercitive. Sembra, però, difficile sostenere che questi posseggano maggiore idoneità alla rieducazione rispetto a chi non abbia sperimentato la custodia cautelare.

Ne consegue che il solo elemento significativo rimasto a contraddistinguere la disciplina comune dell'affidamento, vuoi del detenuto in espiazione, vuoi del condannato ancora in libertà, vuoi del condannato tossico o alcooldipendente, è in definitiva l'osservazione del comportamento ai fini del giudizio prognostico di idoneità del soggetto alla rieducazione. Osservazione che ormai il legislatore ha riconosciuto possa utilmente avvenire tanto durante l'espiazione carceraria della pena (art. 47, secondo comma), quanto in libertà (art. 47, secondo comma e 47-bis). È stato, anzi, più volte rilevato in dottrina che, in una misura di trattamento extracarcerario, la pur imprescindibile valutazione della personalità può essere più opportunamente condotta in libertà, sia per i condizionamenti indotti dalla detenzione, che spesso generano psicosi erroneamente interpetrabili come segni di ravvedimento, sia per evitare al condannato, che abbia possibilità di recupero, di subire le nefaste influenze criminogene dell'ambiente carcerario.

Se è dunque questa la ragione che ha indotto il legislatore a modificare così profondamente nel corso degli anni un istituto che era nato forse con altre vocazioni, il punto di discrimine incentrato su qualche giorno di custodia cautelare, per ammettere o escludere l'affidamento di chi non si trovi in espiazione di pena, si presenta incompatibile tanto con il principio di cui all'art. 3 quanto con quello di cui all'art. 27, secondo comma, della Costituzione. Ogni altro profilo resta assorbito.

Vedrà poi il legislatore se non sia opportuno a questo punto dare all'intera normativa un coordinamento più sistematico.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.47, terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario), così come modificato dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986 n. 663, nella parte in cui non prevede che, anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare, il condannato possa essere ammesso all'affidamento in prova al servizio sociale se, in presenza delle altre condizioni, abbia serbato un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al precedente comma 2 dello stesso articolo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 1989.

Il Presidente: SAJA

Il redattore: GALLO

Il cancelliere: MINELLI

Depositata in cancelleria il 22 dicembre 1989.

Il direttore della cancelleria: MINELLI