Sentenza 519/1995
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente FERRI
  Relatore GUIZZI
Camera di Consiglio del 18/10/1995
  Decisione del 15/12/1995
Deposito del 28/12/1995
  Pubblicazione in G. U. 03/01/1996



Massime: 21973   21974   21975  

N. 519

SENTENZA 15-28 DICEMBRE 1995

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: avv. Mauro FERRI; Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY;

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 670, primo e secondo comma, del codice penale, promossi con ordinanze emesse l'11 novembre 1994, dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze, il 21 ottobre 1994, dal Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi, e il 3 febbraio 1995, dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze, rispettivamente iscritte ai nn. 22, 67 e 320 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 5, 7 e 23, prima serie speciale, dell'anno 1995;

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 18 ottobre 1995 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Rufat Elmaz e Kasumova Dzulistan, imputate del reato di mendicità, il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze ha sollevato, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 670, primo comma, del codice penale, riproponendola in termini identici, con successiva ordinanza, nel procedimento a carico di Bajrami Dzafar, imputato del medesimo reato.

Osserva il rimettente che la fattispecie contravvenzionale punitiva della mendicità è posta a tutela dei beni giuridici della tranquillità e del decoro della civile convivenza con offese che sussisterebbero sia nel caso della mendicità aggravata da forme particolari (vessatorie, ripugnanti, petulanti o fraudolente: art. 670, secondo comma), sia nel caso in cui si impieghino minori nell'accattonaggio (art. 671). Non vi sarebbe, invece, offesa della morale e della tranquillità pubblica quando l'accusato versi in una situazione di bisogno non riconducibile a sua colpa, risolvendosi la mendicità in una legittima richiesta di umana solidarietà, volta a far leva sul sentimento della carità.

La previsione incriminatrice di cui all'art. 670, primo comma, del codice penale, violerebbe - ad avviso del giudice a quo - i principi costituzionali di solidarietà, di uguaglianza e della finalità rieducativa della pena contenuti negli artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, giacché sarebbe riservato lo stesso trattamento punitivo anche a soggetti che si trovino in condizioni economico-sociali del tutto diverse. Essa, infatti, prescinde dallo stato di indigenza non ascrivibile alla condotta individuale: di qui, un trattamento inadeguato, poiché non finalizzato a rieducare quanti, obiettivamente incapaci di mantenersi autonomamente, siano perciò costretti a far ricorso all'altrui solidarietà.

2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione per essersi questa Corte già espressa in tal senso con la sentenza n. 51 del 1959, fornendo una interpretazione adeguatrice del combinato disposto degli artt. 670 e 54 del codice penale e sostenendo, altresì, che i diritti della persona umana, solennemente affermati come primari e fondamentali, diverrebbero illusori se non venissero contemperati con le esigenze di una tollerabile convivenza (sentenza n. 102 del 1975). Priva di ogni fondamento sarebbe, poi, l'asserita violazione dell'art. 27, terzo comma, dal momento che la consolidata giurisprudenza costituzionale ha circoscritto la finalità rieducativa e risocializzante della pena esclusivamente alla fase dell'esecuzione.

3. - Nel corso del procedimento penale a carico di Ismail Severdzan, di nazionalità iugoslava, che era stato colto a mendicare nei locali di una scuola elementare mostrando la fotografia di un bambino al quale erano stati parzialmente amputati gli arti inferiori, il Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi - ha sollevato due distinte questioni di legittimità costituzionale sull'art. 670, primo e secondo comma, del codice penale.

Il giudice a quo avverte l'esigenza di individuare il bene giuridico protetto dalla disposizione in esame, e lo identifica nell'ordine pubblico inteso come moralità, decoro e pubblica quiete. Egli dubita, però, che l'art. 670 offra una forma anche lata di tutela del dovere di svolgere un'attività lavorativa o del diritto all'integrità del patrimonio e alla tranquillità della persona; e ritiene, anzi, che si profilerebbe una evidente e non giustificata sproporzione nel sacrificio del diritto fondamentale, e inviolabile, della libertà personale. Il rimettente richiama, perciò, l'insegnamento di questa Corte, che anche da ultimo si è riservata il compito di verificare se il legislatore rispetti il limite della ragionevolezza nella determinazione della sanzione penale (sentenza n. 341 del 1994); limite imposto alla sfera di discrezionalità quando le finalità di prevenzione siano perseguite con strumenti penali che producono danni all'individuo, e alla società, sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti attraverso l'uso della incriminazione (sentenza n. 409 del 1989).

Sulla scia di tali principi, sottolinea il Pretore di Modena, la Corte ha perciò censurato diverse disposizioni della legge penale sia per lesione del principio di uguaglianza (sentenze nn. 422 e 344 del 1993 e 409 del 1989) sia per violazione della finalità rieducativa della pena (sentenza n. 313 del 1990).

Il raffronto con talune disposizioni riguardanti l'ordine pubblico, o la tranquillità, o l'incolumità pubblica, per le quali si prevedono in via alternativa le sanzioni dell'arresto o dell'ammenda, palesa un profilo di irragionevolezza quale si riscontra nel minimo edittale dell'arresto, per un mese, comminato dall'art. 670, secondo comma, del codice penale. Il disturbo delle occupazioni o quello del riposo, la molestia o il disturbo alle persone, e finanche gli atti contrari alla pubblica decenza, recherebbero un'offesa al pubblico decoro inferiore a quella dell'accattonaggio, atteso che l'art. 726 del codice penale punisce con l'arresto sino a un mese, o con l'ammenda da lire 20.000 a 400.000, i comportamenti da ultimo citati.

L'estrema severità della norma in esame è, certo, il prodotto delle concezioni autoritarie che connotavano la cultura del legislatore del 1930, inducendolo a una radicale inversione di tendenza rispetto alla impostazione del codice Zanardelli, che - ispirandosi alla tradizione del pensiero liberale - puniva la mendicità con l'arresto fino a cinque giorni, nella forma meno grave (art. 453), e con quello fino a un mese per l'accattonaggio vessatorio (art. 454). Attribuendo peraltro al giudice la possibilità di far scontare la pena mediante prestazione d'opera in lavori di pubblica utilità (art. 455).

Altra doglianza prospettata dallo stesso Pretore riguarda infine, per violazione degli artt. 13 e 97 della Costituzione, il principio di sussidiarietà della tutela penale, che potrebbe dispiegare un effetto perverso, nell'attuale stato di crisi dell'amministrazione giudiziaria, contribuendo a incrementare il sovraffollamento delle carceri. Più idonea sembra dunque la scelta della depenalizzazione, anche perché la fattispecie incriminatrice tutela, ad avviso del giudice a quo, un interesse anacronistico che, certo, non può considerarsi rivitalizzato dall'intensificarsi dei movimenti migratori dai paesi in condizioni precarie di sviluppo.

4. - È intervenuto, anche nel giudizio sulla questione sollevata dal Pretore di Modena, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la infondatezza della questione.

In ordine al primo profilo di asserita illegittimità costituzionale, che si concreta nella richiesta di una pronuncia sostitutiva volta a ridimensionare le pene previste dal citato art. 670 per ricondurle entro limiti ragionevoli, l'Avvocatura ha ribadito la discrezionalità del legislatore per la rispondenza della fattispecie alla tutela dei beni giuridici della "tranquillità pubblica, con qualche riflesso sull'ordine pubblico" (sentenza n. 51 del 1959).

Con riferimento, poi, al secondo profilo - quello in base al quale sarebbe irrazionale la "criminalizzazione" della mendicità - verrebbe in rilievo la pericolosità del comportamento di coloro i quali possono porre in pericolo i beni giuridici della pubblica tranquillità e dell'ordine pubblico. Sebbene la Costituzione non reprima in sé il comportamento di quanti - astenendosi dal lavoro - conducono un'esistenza diversa da quella della generalità dei cittadini, essa demanda tuttavia al legislatore il compito di predisporre i mezzi idonei a evitare che il diritto del singolo contrasti con la tutela dei beni predetti (sentenza n. 12 del 1972). Di conseguenza, la repressione penale dell'accattonaggio, conclude l'Avvocatura, non comprimerebbe i diritti fondamentali della personalità e, quindi, non sconfinerebbe nell'arbitrarietà e nell'irragionevolezza, né lederebbe il canone del buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione.

Considerato in diritto

1. - Viene riproposta, a distanza di circa vent'anni, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 670 del codice penale con due ordinanze di identico tenore sollevate dal Pretore di Firenze, in ordine al primo comma, e con una ordinanza del Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi, in ordine al primo e secondo comma.

Ad avviso del Pretore di Firenze, vi sarebbe lesione dei principi di solidarietà, di uguaglianza e della finalità rieducativa della pena contenuti, rispettivamente, negli artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, assoggettandosi a sanzione penale coloro che versano in condizioni di indigenza non ascrivibili alla propria condotta, dolosa o colposa che sia. Oggetto di doglianza del Pretore di Modena - sezione di Carpi, è il secondo comma del medesimo art. 670 del codice penale, nella parte in cui prevede come minimo edittale la pena di un mese di arresto: sanzione penale che sarebbe statuita in spregio dei principi di ragionevolezza e della finalità rieducativa della pena (art. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione), fra l'altro più severa di quella comminata dal codice Zanardelli agli artt. 453 e 454.

Con tale ultima ordinanza viene prospettata, altresì, la questione di costituzionalità dell'intero articolo 670 per contrasto, oltre che con i valori costituzionali indicati, anche con il principio della libertà personale e con il canone del buon andamento dell'amministrazione (artt. 13 e 97, primo comma, della Costituzione), apparendo violato il principio di sussidiarietà della tutela penale perché si utilizza una sanzione non congrua, correlata a un interesse che si palesa anacronistico, mentre sarebbe più efficace la repressione amministrativa che eviterebbe, peraltro, l'effetto indotto d'un sovraffollamento delle carceri.

Riguardando le questioni, oggetto delle tre ordinanze di rimessione, la stessa disposizione di legge, si deve necessariamente procedere alla loro riunione, esaminando per prima l'ordinanza del Pretore di Modena - sezione di Carpi, che è logicamente da anteporre alle altre, dato il suo carattere di globalità. E invero, ove accolta, essa renderebbe superfluo l'esame delle altre due questioni.

2. - La Corte costituzionale si è già pronunciata sull'art. 670 del codice penale, nel senso della infondatezza, con le sentenze n. 51 del 1959 e n. 102 del 1975 in precedenza citate.

Con la prima decisione, limitata al controllo di conformità in riferimento all'art. 38 della Costituzione, questa Corte escluse la illegittimità costituzionale della disposizione, rilevando che "la libertà di prestare assistenza in forme private e ad iniziativa privata non comprende in alcun modo la libertà di accattonaggio". Con la seconda, diede, sì, valore recessivo alla mendicità come "scelta di libertà", ma nel contempo sostenne che - per coloro i quali vi fossero indotti non essendo stati messi "in condizione di poter tempestivamente usufruire di quell'assistenza pubblica" cui avrebbero avuto diritto - ben potesse rientrare nella sfera di applicazione dell'art. 54 del codice penale l'accattonaggio della persona "fisicamente debilitata e priva di chi debba per legge provvedere ai suoi bisogni essenziali".

3. - L'art. 670 del codice penale consta di due ipotesi criminose che si devono mantenere fra loro nettamente distinte. La prima punisce, con la pena dell'arresto fino a tre mesi, "chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al pubblico" (primo comma); la seconda sanziona più gravemente, con l'arresto da uno a sei mesi, il fatto "commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare l'altrui pietà" (secondo comma). È opportuno, sul piano metodologico, distinguere le due ipotesi nel caso in cui questa Corte dovesse accedere a una declaratoria di illegittimità, anche parziale, delle questioni sollevate. E ciò al fine di consentire una valutazione disgiunta dei due valori penalistici coinvolti, senza pregiudicare, con l'esame di una figura, anche la valutazione dell'altra (che è quanto accadrebbe qualora si configurasse il reato di cui al secondo comma dell'art. 670 quale ipotesi aggravata).

La denuncia del Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi, investe l'intera disposizione e, dunque, entrambe le figure di reato.

L'ipotesi della mendicità non invasiva integra una figura di reato ormai scarsamente perseguita in concreto, mentre nella vita quotidiana, specie nelle città più ricche, non è raro il caso di coloro che - senza arrecare alcun disturbo - domandino compostamente, se non con evidente imbarazzo, un aiuto ai passanti. Di qui, il disagio degli organi statali preposti alla repressione di questo e altri reati consimili - chiaramente avvertito e, talora, apertamente manifestato - che è sintomo, univoco, di un'abnorme utilizzazione dello strumento penale.

Gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che - senza indulgere in atteggiamenti di severo moralismo - non si può non cogliere con preoccupata inquietudine l'affiorare di tendenze, o anche soltanto tentazioni, volte a "nascondere" la miseria e a considerare le persone in condizioni di povertà come pericolose e colpevoli. Quasi in una sorta di recupero della mendicità quale devianza, secondo linee che il movimento codificatorio dei secoli XVIII e XIX stilizzò nelle tavole della legge penale, preoccupandosi nel contempo di adottare forme di prevenzione attraverso la istituzione di stabilimenti di ricovero (o ghetti?) per i mendicanti. Ma la coscienza sociale ha compiuto un ripensamento a fronte di comportamenti un tempo ritenuti pericolo incombente per una ordinata convivenza, e la società civile - consapevole dell'insufficienza dell'azione dello Stato - ha attivato autonome risposte, come testimoniano le organizzazioni di volontariato che hanno tratto la loro ragion d'essere, e la loro regola, dal valore costituzionale della solidarietà. D'altra parte, i paventati effetti di ulteriore affollamento delle carceri e d'un accrescimento del carico penale sono irrealistici e comunque potranno essere scongiurati se e in quanto si consoliderà l'indirizzo del legislatore verso la "depenalizzazione".

In questo quadro, la figura criminosa della mendicità non invasiva appare costituzionalmente illegittima alla luce del canone della ragionevolezza, non potendosi ritenere in alcun modo necessitato il ricorso alla regola penale. Né la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica, con qualche riflesso sull'ordine pubblico (sentenza n. 51 del 1959), può dirsi invero seriamente posta in pericolo dalla mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto.

4. - Altro discorso attiene invece al secondo comma dell'art. 670, che riguarda una serie di figure di mendicità invasiva. Per le forme in cui prende corpo, questa disposizione rimane fattispecie idonea a tutelare rilevanti beni giuridici, fra i quali anche lo spontaneo adempimento del dovere di solidarietà, che appare inquinata in tutte quelle ipotesi nelle quali il mendicante faccia impiego di mezzi fraudolenti al fine di "destare l'altrui pietà".

La questione sollevata in ordine a questa parte non può, dunque, essere accolta.

5. - Nella declaratoria di illegittimità costituzionale nei termini esposti, resta assorbita la questione, particolare, sollevata dal Pretore di Firenze con riguardo al primo comma in parte qua. Non può essere invece assorbita la seconda questione sollevata dal Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi, circa la sproporzione della sanzione penale minima per l'ipotesi di reato più grave. Essa, tuttavia, deve essere dichiarata infondata, perché questa Corte non ritiene di poter ripercorrere, nella specie, l'iter argomentativo della sentenza n. 341 del 1994, tenuta a modello nell'ordinanza di rimessione, per l'evidente diversità delle condotte indicate quali tertia comparationis.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i giudizi:

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 670, primo comma, del codice penale;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 670, secondo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, 27, terzo comma, 97, primo comma, della Costituzione, dal Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi, con l'ordinanza in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 670, secondo comma, del codice penale nella parte in cui prevede come pena minima un mese di arresto, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Pretore di Modena - sezione distaccata di Carpi, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 1995.

Il Presidente: Ferri

Il redattore: Guizzi

Il cancelliere: Di Paola

Depositata in cancelleria il 28 dicembre 1995.

Il direttore di cancelleria: Di Paola