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Sentenza 414/1991 Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente CORASANITI - Redattore
Camera di Consiglio del 09/10/1991 Decisione del 06/11/1991 Deposito del 19/11/1991 Pubblicazione in G. U. 27/11/1991 Norme impugnate: Massime: 17629
Titoli: Atti decisi:
N. 414
SENTENZA 6-19 NOVEMBRE 1991
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: dott. Aldo CORASANITI; Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nel testo introdotto dall'art. 13 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 18 febbraio 1991 dal Tribunale militare di sorveglianza di Roma nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Di Lorenzo Antonino iscritta al n. 281 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 1991; 2) ordinanza emessa il 10 giugno 1991 dal Tribunale militare di sorveglianza di Roma nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Cappelluti Davide, iscritta al n. 479 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1991;
Udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 1991 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola;
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento relativo all'esame di un'istanza per la concessione del beneficio della detenzione domiciliare, proposta da un detenuto che stava scontando un periodo di reclusione militare (inflittagli per il reato di rifiuto di prestare il servizio di leva), il Tribunale militare di sorveglianza di Roma, con ordinanza emessa il 18 febbraio 1991, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 27, 29, 31 e 32 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 47- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo introdotto dall'art. 13 della legge 10 ottobre 1986, n. 663.
A parere del giudice a quo dovrebbe escludersi che il beneficio in argomento possa essere esteso alla pena della "reclusione militare", in quanto il tenore letterale della norma impugnata espressamente si riferisce soltanto all'"arresto" ed alla "reclusione" e non già, genericamente alla "pena detentiva" (locuzione usata invece nell'art. 54 della stessa legge di ordinamento penitenziario) in cui può viceversa ritenersi compreso il concetto di "reclusione militare".
Quest'ultima pena è giuridicamente distinta dalla reclusione, attesa anche la diversa durata legale minima (un mese per la prima, quindici giorni per la seconda).
Tuttavia l'impossibilità di estendere il beneficio anche alla reclusione militare sarebbe imputabile, secondo il Tribunale rimettente, ad una mera svista del legislatore in quanto nessuna differenza sostanziale potrebbe ravvisarsi tra i due tipi di reclusione, in considerazione della mancanza di qualsivoglia fondamento teorico all'idea di una "rieducazione militare" quale "rieducazione speciale".
In ogni caso, argomenta il giudice a quo, lo status di militare non potrebbe condurre ad una minore attenzione verso quelle esigenze di tutela del diritto al lavoro, alla salute, alla vita in famiglia dd sottese alla concezione del beneficio dd senza vulnerare i corrispondenti parametri costituzionali. Nessuna distinzione tra i due tipi di reclusione consentirebbe, secondo il collegio, di sacrificare il finalismo rieducativo della pena a meno di non violare il principio d'eguaglianza.
2. - Il medesimo Tribunale, nel corso di un procedimento del tutto analogo, ha sollevato la stessa questione, con identica ordinanza emessa il 10 giugno 1991 (senza peraltro riferimento all'art. 4 della Costituzione).
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale militare di sorveglianza di Roma, con due ordinanze di identico contenuto, del 18 febbraio 1991 (R. O. n. 281/1991) e del 10 giugno 1991 (R. O. n. 479/1991), solleva di ufficio questione di legittimità costituzionale, in relazione agli articoli 2, 3, 4 (solo nella prima ordinanza), 27, 29, 31 e 32 della Costituzione, dell'art. 47- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo introdotto dall'art. 13 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nella parte in cui esclude che la pena detentiva della reclusione militare possa essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura o di assistenza.
2. - La questione è fondata nei termini di cui appresso.
Il quesito posto alla Corte è se la reclusione militare sia pena detentiva con caratteristiche tali da impedire ch'essa sia assimilabile nelle connotazioni essenziali alla reclusione comune, e possa come questa essere espiata in detenzione domiciliare.
La definizione legislativa della reclusione militare è contenuta nell'art. 26, primo comma, del codice penale militare di pace: "La pena della reclusione militare si estende da un mese a ventiquattro anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro, secondo le norme stabilite dalla legge o dai regolamenti militari approvati con decreto del Presidente della Repubblica".
La reclusione comune è invece definita nell'art. 23, primo comma, del codice penale: "La pena della reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno".
I caratteri varianti nelle due definizioni consistono: a) nella diversa durata minima della pena edittale (un mese per la reclusione militare, quindici giorni per la comune); b) nell'isolamento notturno previsto per la reclusione comune, non per quella militare.
Essendo essi di scarso significato distintivo, occorre risalire al corpus di norme tuttora vigenti, costituito dal decreto luogotenenziale del 27 ottobre 1918, n. 201 (Regolamento per gli stabilimenti militari di pena e per le compagnie di disciplina), per ricavarne fini e modalità a fondamento della specialità della reclusione militare.
Lo scopo degli stabilimenti militari di pena è dichiarato nel paragrafo 8 del capo primo della parte prima del decreto luogotenenziale citato: "Questi riparti di punizione e di pena debbono avere un carattere prevalente di istituti di correzione. La riforma morale dei militari incorporati e detenuti è cosa della maggior importanza e dovrà essere il fine a cui costantemente tendere. Il lavoro, l'istruzione, l'educazione ai princip/' morali ed ai doveri degli uomini onesti, accompagnata dall'esempio di una condotta sempre corretta del personale di governo, la vigilanza continua, l'inflessibile severità verso i tristi e la repressione di qualunque infrazione alle regole stabilite, sono i mezzi da adoperarsi per conseguire il fine ora detto".
La rieducazione del condannato, richiesta dal precetto di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, è dunque presente anche nel regolamento per gli stabilimenti militari di pena, precedente di un trentennio la Costituzione repubblicana, e non è di per sé ragione sufficiente di specialità della reclusione militare rispetto alla comune. Per quest'ultima, le modalità della rieducazione sono più modernamente formulate nell'art. 1, sesto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà): "Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti".
3. - È evidente che la specialità della reclusione militare risiede in quelle modalità della esecuzione della pena che consistono nella istruzione militare teorica di almeno un'ora al giorno e nella esercitazione militare pratica settimanale di circa due ore (paragrafo 608 del decreto luogotenenziale 27 ottobre 1918, n. 201).
Le esercitazioni pratiche comprendono istruzione individuale, di plotone e di compagnia, ginnastica militare, servizio territoriale, pratica del fucile; quelle teoriche riguardano il servizio di sicurezza delle truppe in campagna, il regolamento di disciplina e quello penitenziario, il codice penale militare, l'igiene e la scuola di contegno, l'affardellamento, i doveri del soldato in congedo illimitato ed in occasione di chiamata alle armi (paragrafo 610 d.lgt. cit.). Inoltre nel carcere militare per le istruzioni si impiegano armi senza sciabola-baionetta ed in condizioni tali da non servire a far fuoco; nei reclusori le istruzioni sono senz'armi (paragrafo 611 d.lgt. cit.).
Le descritte attività sono le uniche caratterizzazioni delle finalità militari della rieducazione del militare in espiazione di pena, allo scopo evidente di un suo recupero al servizio alle armi, una volta cessato il periodo di detenzione.
Esse sono idonee a descrivere la specialità della reclusione militare rispetto alla reclusione comune.
I fini della rieducazione per il condannato militare e per quello comune si rivelano dunque divergenti: il prevalente recupero al servizio militare per il primo, il reinserimento sociale per il secondo.
Dalla specialità della giurisdizione e del diritto penale sostanziale e processuale militare non discenderebbe necessariamente la specialità della esecuzione della pena se non fosse perseguito il fine di una rieducazione particolare del militare-detenuto. La sola ragione valida per la conservazione della specialità della pena detentiva militare deve individuarsi nella sua natura, funzionale all'espletamento del compito delle Forze Armate conforme all'art. 52 della Costituzione: la difesa della Patria, in un ordinamento informato allo spirito democratico della Repubblica, nonché il concorso alla salvaguardia delle libere istituzioni e al bene della collettività nazionale nei casi di pubbliche calamità, come ulteriormente statuisce l'art. 1, secondo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina militare).
Non possono invece più valere a giustificare la soggezione del militare in espiazione di pena alla disciplina e al diritto punitivo militare le ragioni storiche di un ordinamento originario e primario delle Forze Armate, quasi di una società separata rispetto a quella dei cittadini. In epoche in cui gli eserciti prescindevano dallo status civitatis dei reclutati, peraltro privi, nei regimi pre- costituzionali, di diritti civili formalmente riconosciuti, per dare rilevanza esclusiva allo status militis, è comprensibile che, a tutela dell'unico decisivo interesse della disciplina e della gerarchia, si tenesse separato il soldato, anche in espiazione di pena, rispetto ai condannati comuni, a sottolineare la qualità inalienabile dello statuto personale (semel miles semper miles), salvo l'effetto espulsivo della degradazione.
Residuando ancora un apprezzabile fondamento della specialità della reclusione militare, nel quadro della odierna integrazione dell'ordinamento militare in quello statale, consistente in una particolare funzionalizzazione della rieducazione del condannato al dovere costituzionale di difesa della Patria, attuale e non virtuale quando sia collegato alla qualità del cittadino alle armi, non sembra si possa ravvisare lesione del principio di uguaglianza per il diverso regime di espiazione della pena detentiva dei condannati militari e dei condannati comuni.
4. - Non si può peraltro interpretare il regime di espiazione della reclusione militare, come divenuto da situazione un tempo di privilegio, rispetto al sistema penitenziario comune, condizione deteriore, se rapportato a beni costituzionalmente garantiti a tutti i cittadini, richiamati dai parametri invocati, del diritto al lavoro, ex art. 4 della Costituzione, dei diritti della famiglia, ex artt. 29 e 31 della Costituzione, del diritto alla salute, ex art. 32 della Costituzione, e fruibili nella detenzione domiciliare, cui la norma impugnata non prevede abbiano accesso i condannati militari.
Questi beni, anche se riconducibili alla categoria dei diritti inviolabili, di cui all'art. 2 della Costituzione, non hanno tutti egual forza nel porsi come limite alla soggezione del militare alla specialità della pena militare, attraendolo in quella comune e ammettendolo in conseguenza alla detenzione domiciliare.
Non il diritto al lavoro che è sospeso durante il servizio alle armi, limitandosi la norma di cui all'art. 52, secondo comma, della Costituzione, a disporre che l'adempimento dell'obbligo del servizio militare non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino.
Non i diritti della famiglia perché la unione domestica per l'adempimento dei mutui doveri di assistenza è anch'essa in linea di principio interrotta dalla partenza del cittadino alle armi e dalla sua convivenza nella comunità militare.
Diversa valenza ha invece il bene fondamentale della vita e della salute, di cui all'art. 32 della Costituzione. Esso ha forza di sottrarre il cittadino alle armi, condannato alla pena della reclusione militare, alla soggezione alla disciplina e alle modalità della espiazione speciale, quando egli richieda conversione di questa in detenzione domiciliare. Il valore della dignità e della salute di ciascun essere umano è valore supremo che non conosce distinzioni e graduazioni di status personali e dunque annienta ogni separazione tra cittadini e soldati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la illegittimità costituzionale dell'articolo 47- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nel testo introdotto dall'art. 13 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nella parte in cui non prevede che la reclusione militare sia espiata in detenzione domiciliare quando trattasi di "persona in condizioni di salute particolarmente gravi che richiedono costanti contatti con i presidi sanitari territoriali".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 6 novembre 1991.
Il Presidente: CORASANITI
Il redattore: CASAVOLA
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 19 novembre 1991.
Il direttore della cancelleria: MINELLI