Corte costituzionale della Repubblica italiana
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Sentenza 386/1989
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente SAJA
  Relatore GALLO E.
Camera di Consiglio del 17/05/1989
  Decisione del 04/07/1989
Deposito del 11/07/1989
  Pubblicazione in G. U. 19/07/1989

Ordinanze di rimessione
71/1989  
Massime: 13563   13564   13565  

                                 N. 386                                  
SENTENZA 4-11 LUGLIO 1989
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale
Esecuzione penale - Misure alternative alla detenzione - Affidamento
in prova al servizio sociale - Condizioni - Cumulo di pene non
superiore a tre anni - Pene gia' espiate - Inclusione nel computo -
Illegittimita' costituzionale in parte qua.
_ Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, comma primo (sostituito
dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986, n. 663).
_ Costituzione, artt. 3 e 27, comma terzo.
Pena - Concorso di pene della stessa specie - Principio della < unica>> - Applicabilita' anche a danno del condannato - Non
fondatezza della questione.
_ Cod. pen., artt. 73 e 76.
_ Costituzione, artt. 3, 13, 27, 101 e 104.
Esecuzione penale - Misure alternative alla detenzione - Affidamento
in prova al servizio sociale - Prosecuzione o sospensione in caso di
nuova condanna - Cumulo di pene non superiore a tre anni - Pene gia'
espiate - Inclusione nel computo - Inammissibilita' della questione.
_ Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 51-bis (introdotto dall'art. 15
della legge 10 ottobre 1986, n. 663).
_ Costituzione, artt. 3, 13, 27, 101 e 104.


                        LA CORTE COSTITUZIONALE                          
composta dai signori:
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo
CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo
CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 47, comma
primo, della legge 26 luglio 1975, n.354, come sostituito dall'art.11
della legge 10 ottobre 1986 n.663 (Modifiche alla legge
sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative
della liberta'); dell'art. 51- bis della legge 26 luglio 1975 n. 354
(Ordinamento penitenziario), cosi' come introdotto dall'art. 15 della
legge 10 ottobre 1986, n. 663 e degli artt. 73 e 76 del codice
penale, promosso con l'ordinanza emessa l'8 novembre 1988 dal
Tribunale di sorveglianza di Brescia, nel procedimento di
sorveglianza relativo a Fassi Mario, iscritta al n. 71 del registro
ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 8, prima serie speciale, dell'anno 1989;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 17 maggio 1989 il Giudice
relatore Ettore Gallo;
Ritenuto in fatto
1. - Il Tribunale di Sorveglianza di Brescia, con ordinanza 8
novembre 1988, emessa nel procedimento di sorveglianza relativo a
Fassi Mario, sollevava questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 47, primo comma, dell'Ordinamento penitenziario (cosi' come
sostituito dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986 n. 633 Modifiche
alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e
limitative della liberta' -) e dell'art. 51- bis dello stesso
Ordinamento, nonche' degli artt. 73 e 76 del codice penale, con
riferimento agli artt. 3, 13, 27, 101 e 104 della Costituzione.
Esponeva il Tribunale nell'ordinanza che il Fassi,
tossicodipendente, detenuto in espiazione di pena, dopo essere stato
sottoposto con esito favorevole all'osservazione scientifica della
personalita', aveva chiesto di essere affidato in prova al Servizio
Sociale. Era emerso, infatti, dall'esame e dalle osservazioni, che il
soggetto, nonostante le condanne riportate, aveva poi raggiunto nel
trattamento progressi tali da essere maturo per un'ampia misura
alternativa, mediante affidamento ad una comunita' terapeutica, gia'
identificata e disponibile, per l'attuazione di un programma di
recupero e di terapia.
Secondo il Tribunale, sussistono, pertanto, tutti i presupposti
per ritenere che il Fassi osservera' le prescrizioni e non
commettera' piu' reati.
Riferiva, pero', l'ordinanza che, ad avviso del Procuratore
Generale, il richiesto affidamento non sarebbe ammissibile. Infatti,
benche' nessuna delle condanne riportate dal Fassi fosse superiore ad
anni tre, e nonostante lo stesso residuo di pena sia ora inferiore ad
anni tre (il fine pena e' stato fissato per il 31 maggio 1991,
essendo stata concessa anche la liberazione anticipata), tuttavia la
giurisprudenza della Corte di Cassazione ritiene che si debba tenere
conto del cumulo delle pene inflitte con le varie sentenze di
condanna: e cio' anche se il cumulo non e' stato formalmente operato,
essendo sufficiente che le pene vengano espiate senza soluzione di
continuita'. Riconosce, pero', la detta giurisprudenza che non si
debba tenere conto delle pene estinte per amnistia e persino per
condono, ma non di quelle estinte per espiazione.
Rileva il Tribunale che il principio della "pena unica",
discendente ex artt. 73 e 76 codice penale, non puo' risolversi a
danno del condannato, e qualora - come nella specie - determini
intollerabili disparita' di trattamento dovrebbe incontrare censura
d'illegittimita' costituzionale.
La stessa Corte di Cassazione, del resto, lo avrebbe riconosciuto
- continua l'ordinanza - a piu' effetti: come quando ha ammesso che
ciascuna pena riassuma la sua autonomia in ipotesi di condono, o come
quando ha ritenuto, allorche' esisteva il divieto di concedere la
semiliberta' ai condannati per rapina, che anche nel caso di piu'
condanne cumulate, una volta espiata tutta la pena concernente la
condanna per rapina, il condannato poteva essere ammesso alla
semiliberta' in relazione alle altre condanne in espiazione per reati
non ostativi.
Incomprensibile, percio', sarebbe - secondo il Tribunale -
l'interpetrazione che discrimina le pene espiate soltanto in
relazione all'istituto dell'affidamento in prova che - come questa
Corte ha ritenuto (cfr. sentenze 15 ottobre 1987 n. 343; 13 novembre
1985 n. 312; 13 giugno 1985 n. 185) - ha sostanziale natura di pena.
Una tale interpretazione viola non soltanto l'art. 3 della
Costituzione per le ragioni gia' indicate, ma anche l'art. 27, terzo
comma, perche' viene a frustrare la funzione rieducativa della pena.
2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato dall'Avvocatura Generale dello Stato, la
quale ha innanzitutto eccepito l'inammissibilita' della sollevata
questione, in quanto verrebbe richiesto alla Corte un dispositivo di
estensione dell'applicazione di trattamento o di istituto a soggetti
che, secondo la norma, ne sono esclusi perche' fruiscono di altro
trattamento; estensione che questa Corte avrebbe sempre ritenuto
estranea ai propri poteri perche' riservata a quelli discrezionali
del legislatore.
Nel merito, l'Avvocatura chiede declaratoria d'infondatezza,
negando che si possa riferire il limite di anni tre, come massimo
oltre il quale l'affidamento non e' ammissibile, esclusivamente a
ciascuna sentenza di condanna e non alla complessiva pena risultante
dal cumulo: e cio' perche' la reiterazione di fatti criminosi, che il
cumulo presuppone, e' espressione di piu' marcata inaffidabilita'
soggettiva ed indice di prognosi negativa. Su questa premessa,
l'Avvocatura contesta anche le altre argomentazioni dell'ordinanza.
Considerato in diritto
1. - La questione sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di
Brescia, pur investendo sul piano argomentativo il piu' ampio tema
della legittimita' del principio del cumulo delle pene anche quando
si risolva a danno del condannato, in realta' e' limitata nelle
conclusioni al quesito se, agli effetti dell'ammissibilita'
dell'affidamento in prova ex art. 47, primo comma, della legge 26
luglio 1975 n. 354 (Ordinamento penitenziario), si debba tenere conto
nel cumulo anche delle pene gia' espiate.
Sul punto, e' eloquente il passo dell'ordinanza dove si afferma
che "rioperando - come fa la Cassazione - un cumulo generale che
comprenda anche le condanne positivamente espiate, si viola la stessa
giurisprudenza della Cassazione che ha sempre affermato che nel
cumulo non possono essere incluse le pene gia' estinte, a meno che
cio' non sia utile al fine di recare vantaggio al condannato".
Appunto a tale proposito, l'ordinanza aveva invocato la
giurisprudenza della Corte di Cassazione quando vigeva il divieto di
concessione della semiliberta' ai condannati per rapina:
giurisprudenza che effettivamente ammetteva che, una volta espiata la
pena concernente la rapina, non se ne dovesse tenere piu' conto nel
cumulo, e si potesse percio' concedere la semiliberta' in relazione
alle altre condanne per reati non ostativi.
Cio' precisato, va respinta la preliminare eccezione
d'inammissibilita' dell'Avvocatura, dato che non si chiede alcuna
estensione di trattamento o di istituti a situazioni diverse,
disciplinate sotto altri principi.
La questione proposta, infatti, si limita a chiedere, in
definitiva, il riconoscimento d'illegittimita', per violazione degli
artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dell'art.47, primo
comma, dell'Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede
- almeno nell'attuale lettura della giurisprudenza - che, ai fini
dell'ammissibilita' del condannato all'affidamento in prova, non si
debba tenere conto, in ipotesi di cumulo, delle pene gia' espiate.
Ogni altra questione dedotta ed ogni altro parametro invocato sono
effettivamente ultronei, e di cio' sara' detto fra poco.
2. - Nel merito la questione e' fondata.
Come ha rilevato anche l'Avvocatura Generale, il principio della
"pena unica", cosi' come risultante in sede di esecuzione ex art. 76,
primo comma, codice penale, sulla base del cumulo delle pene,
inflitte con una o piu' sentenze di condanna, non ha di per se' nulla
d'irrazionale o di discriminatorio. Tanto piu' che e' ivi
espressamente fatta salva "ogni diversa disposizione di legge".
Cio' comporta che, semmai, eventuali violazioni del principio di
eguaglianza (art. 3 della Costituzione), o di quello concernente la
funzione risocializzante della pena ( art. 27, secondo comma, della
Costituzione), vanno riferite caso per caso, per ogni singola
situazione applicativa, all'eventuale omissione di particolari
disposizioni che, in coerenza al sistema, avrebbero potuto evitarle.
Nella specie, l'art. 47, primo comma, dell'Ordinamento
penitenziario, denunziato con l'ordinanza in esame, stabilisce che il
condannato puo' essere affidato al servizio sociale per un periodo di
prova pari alla residua pena detentiva da scontare, se la pena
inflitta non supera i tre anni. Il problema sorge allorquando, avendo
il condannato riportato piu' pene concorrenti a seguito di piu'
sentenze di condanna, ne sia stato disposto il cumulo, con
conseguente pena unica ex art. 76, primo comma, codice penale; oppure
anche quando, pur senza l'esistenza di un provvedimento formale di
cumulo, il condannato si trovi in corso d'espiazione delle varie pene
inflitte senza soluzione di continuita'.
In tali ipotesi, la giurisprudenza ormai consolidata della Corte
di Cassazione ritiene che si debba sempre fare riferimento, per
stabilire l'ammissibilita' all'affidamento in prova, al cumulo delle
pene inflitte, o comunque in corso di ininterrotta espiazione se un
formale cumulo non e' stato disposto: e se il cumulo supera i tre
anni di pena detentiva, l'affidamento non e' ammissibile anche se la
residua pena da scontare sia inferiore al detto limite.
Ammette, tuttavia, la detta giurisprudenza che le pene condonate o
comunque estinte debbano essere escluse dal computo, ma non le pene
espiate.
Orbene, sul piano della logica giuridica, se si ha riguardo
all'entita' della pena complessiva riportata, sia pure con piu'
condanne, per dedurne sfavorevoli illazioni in ordine alla prognosi
di cui al secondo comma dell'art. 47 dell'Ordinamento penitenziario,
allora non ha senso l'esclusione dal computo di pene che, pur non
essendo piu' eseguibili perche' estinte, esprimono pur sempre,
tuttavia, un presupposto notevole della pericolosita': e cio' tanto
piu' che il detto art. 47 fa riferimento alla pena "inflitta" e non a
quella da espiare.
Ma se, al contrario, si ritiene che e' proprio alla pena in
concreto espianda che il legislatore abbia inteso riferirsi con quel
limite di anni tre, resta allora senza razionale giustificazione che
non si debba escludere dal computo proprio la causa principale di
consunzione della pena, quella che ne rappresenta la ragione
fondamentale della sua stessa essenza: l'espiazione.
Ed, in realta', essendo l'affidamento in prova uno dei modi di
esecuzione della pena, in quanto la sua alternativita' e' riferita
alla "detenzione" e non all'istituto stesso della pena (rispetto al
quale altre sono le misure alternative), e' sembrato correttamente al
legislatore che l'adozione di una siffatta forma alternativa di
esecuzione dovesse essere contenuta entro limiti di una certa
relativa brevita' della detenzione effettivamente da scontare:
altrimenti, ne sarebbe rimasta indebolita la funzione di prevenzione
generale della pena. D'altra parte, proprio in presenza di una lunga
pena da espiare, un'adeguata prognosi relativa agli effetti
rieducativi del provvedimento di affidamento, e alla prevenzione del
pericolo di ricadute, non potrebbe essere espressa con sufficiente
tranquillita' senza l'osservazione anche del comportamento tenuto nel
corso dell'espiazione detentiva della parte di pena che supera i tre
anni.
3. - Orbene, tutto cio' corrisponde in definitiva alla ratio che
ispira le linee della tendenza giurisprudenziale, per la quale si
rinunzia a tenere conto di pene che, per non essere piu' eseguibili a
causa della loro estinzione, non potrebbero mai consentire alcuna
osservazione. Ma se cosi' e', a maggior ragione, allora, non si deve
tenere conto, agli effetti dell'affidamento, di pene che, essendo
state espiate, hanno consentito una piu' lunga osservazione del
comportamento e hanno potuto anche conseguire, sia pure parzialmente,
oltre agli effetti necessariamente retributivi, quegli effetti di
rieducazione e di recupero sociale che attengono alla funzione di
prevenzione speciale (terzo comma dell'art. 27 della Costituzione).
La stessa Corte di Cassazione, del resto, sia pure ad altro
proposito, in tema di semiliberta' (altra forma di esecuzione dalla
pena), si e' attenuta alla filosofia di questo valore
dell'espiazione. E' accaduto allorquando ha ritenuto che il divieto,
allora vigente, di concedere la semiliberta' ai condannati per
rapina, non avesse piu' effetto quando la pena inflitta per la rapina
fosse stata interamente espiata; ammettendo altresi' che si tenesse
conto dell'eventuale liberazione anticipata ottenuta in relazione
alla detta pena.
Vero e', dunque, che le difficolta' interpretative del denunziato
art. 47, primo comma, dipendono dalla formulazione della norma che,
nella sua laconicita', consente soluzioni non sempre rispettose dei
principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione.
Tanto piu' poi quando - come nella specie - l'affidamento in prova
si riferisce ai casi particolari contemplati dall'art. 47- bis della
legge in parola, cosi' come sostituito dall'art. 12 della legge 10
ottobre 1986 n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento
penitenziario e sulle misure privative o limitative della liberta').
In tali casi, infatti, la persona tossicodipendente (e' questa
l'ipotesi di specie) consegue con l'affidamento una forma di
esecuzione ancora piu' limitativa di quanto non sia quella generica
prevista nell'articolo precedente, dato che deve dichiararsi
disponibile ad un programma di recupero, ed effettivamente
intraprendere poi attivita' terapeutica, sulla base di un programma
concordato con l'U.S.L. o con gli Enti che a tali finalita' sono
predisposti.
Ancora piu' imperativa, pertanto, e' la necessita' che, per tali
casi, la norma offra all'interpetre una formulazione esplicitamente
ossequiente alla funzione costituzionale della pena e al principio di
eguaglianza. In tali ipotesi, infatti, quasi sempre i reati commessi
sono determinati dalla necessita' di procacciarsi quella droga che
incatena alla tossicodipendenza: sicche', ancor piu' della detenzione
carceraria, e' proprio il programma di recupero, mediante attivita'
terapeutica in idonee comunita', ad espletare la funzione di
prevenzione speciale della pena.
4. - Ma, contrariamente all'avviso dell'Avvocatura Generale, e'
sempre, comunque, all'art. 47, primo comma, della legge, che andava
rivolta la censura, come correttamente ha fatto il giudice
rimettente, e non all'art. 47-bis. Questo si limita, infatti, a dare
particolari indicazioni, richiamando espressamente il limite di cui
al comma primo dell'articolo precedente. In guisa che, una volta
precisato il senso di quel limite, l'intervento correttivo
automaticamente si riverbera sull'articolo evocante.
Del tutto fuori luogo, invece, e' il coinvolgimento nella
questione da parte dell'ordinanza dell'art. 51- bis, sia perche'
estraneo al fatto di causa, sia perche', comunque, anche qui
l'intervento sull'art. 47, primo comma, si estendera'
automaticamente, per quanto del caso, all'art. 51- bis in forza del
richiamo pure in esso contenuto. L'irrilevanza della denunzia
comporta l'inammissibilita'.
Mentre, poi, e' infondata la critica del principio della "pena
unica" dipendente dal concorso di pene della stessa specie, una volta
che, come si e' rilevato piu' sopra, il principio non e'
inderogabile, sia per l'espressa riserva di legge contenuta nella
disposizione, sia per l'implicita osservanza che ovviamente va data,
comunque, ai principi costituzionali.
Quanto, infine, ai parametri invocati, l'accoglimento della
questione in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione, e' assorbente di ogni altro.
                           PER QUESTI MOTIVI                             
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 47, primo
comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (cosi' come sostituito
dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986 n. 663 - Modifiche alla
legge sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e
limitative della liberta' -), nella parte in cui non prevede che nel
computo delle pene, ai fini della determinazione del limite dei tre
anni, non si debba tener conto anche delle pene espiate;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 51- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354,
cosi' come introdotto dall'art. 15, legge 10 ottobre 1986, n. 663,
con riferimento agli artt. 3, 13, 27, 101 e 104 della Costituzione,
sollevate dal Tribunale di Sorveglianza di Brescia con ordinanza 8
novembre 1988;
3) dichiara non fondata la questione di legittimita'
costituzionale degli articoli 73 e 76 del codice penale, con
riferimento agli artt. 3, 13, 27, 101 e 104 della Costituzione,
sollevata dallo stesso Tribunale con la medesima ordinanza.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 luglio 1989.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: GALLO
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria l'11 luglio 1989.
Il direttore della cancelleria: MINELLI

Piazza del Quirinale, 41 - 00187 Roma tel. 0646981 - fax. 064698916 - ccost@cortecostituzionale.it