Sentenza 364/1988 Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente SAJA - Redattore
Udienza Pubblica del 29/09/1987 Decisione del 23/03/1988 Deposito del 24/03/1988 Pubblicazione in G. U. 30/03/1988 Norme impugnate: Massime: 13794 13795 13796 13797 13798 13799 13800 13801 Atti decisi:
N. 364
SENTENZA 23-24 MARZO 1988
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, prof. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 5, 42, 43 e 47 del codice penale e dell'art. 17, lett. b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per l'edificabilità dei suoli) promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 22 luglio 1980 dal Pretore di Cingoli nel procedimento penale a carico di Marchegiani Mario ed altri, iscritta al n. 694 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 338 dell'anno 1980;
2) ordinanza emessa il 14 maggio 1982 dal Pretore di Padova nel procedimento penale a carico di Marin Giacinto, iscritta al n. 472 del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 351 dell'anno 1982;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 29 settembre 1987 il Giudice relatore Renato Dell'Andro;
Udito l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri;
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso d'un giudizio penale a carico di Marchegiani Mario e altri, imputati della contravvenzione di cui all'art. 17, lett. b), legge 28 gennaio 1977, n. 10, per avere eseguito senza concessione edilizia notevoli opere di bonifica di un terreno agricolo e per finalità agricole, con esclusione d'ogni intento edificatorio, il Pretore di Cingoli - ritenendo gli imputati meritevoli di proscioglimento perché avevano creduto in buona fede, sulla base della giurisprudenza del Consiglio di Stato, di poter eseguire i lavori senza licenza - con ordinanza del 22 luglio 1980 ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 27, primo comma, 54, 73, 111 e 113 Cost., degli artt. 5, 42, quarto comma, 43, 47 cod. pen. e 17, lett. b), legge 28 gennaio 1977, n. 10, nella parte in cui non prevedono la rilevanza della precitata "buona fede", determinata da interpretazioni della giurisprudenza del supremo consesso di giustizia amministrativa.
Il giudice a quo osserva che le norme impugnate contrastano: con l'art. 2 Cost., perché la libertà dell'uomo viene ad essere lesa proprio da una situazione anormale creata dallo stesso ordinamento; con l'art. 3 Cost., in quanto le norme impugnate escludono ogni rilievo della carenza di coscienza dell'antigiuridicità della condotta e dell'errore sulle leggi amministrative richiamate nel precetto penale; nonché con gli artt. 24, 111 e 113 Cost., nei quali è contenuto il principio dell'unitarietà dell'ordinamento nel campo della difesa degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi.
Il Pretore di Cingoli ritiene sussista altresì contrasto delle norme impugnate con gli artt. 54 e 73 Cost., che stabiliscono l'obbligo del rispetto delle leggi, in quanto, nell'ipotesi che l'errore sia dipeso da difformi interpretazioni giurisprudenziali, il cittadino che rispetti l'interpretazione d'un giudice non si ribella all'autorità dello Stato ma si adegua all'obbligo di cui agli stessi articoli.
Lo stesso Pretore rileva, infine, il contrasto delle norme impugnate con il primo comma dell'art. 27 Cost., che impone la possibilità della conoscenza della legge penale.
2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, deducendo l'infondatezza della questione.
Osserva preliminarmente l'Avvocatura che, quale che sia la corretta soluzione da darsi all'antico problema della buona fede nelle contravvenzioni, è certo che essa non involge l'applicazione di norme o principii costituzionalmente garantiti. L'unico principio costituzionale, pilastro fondamentale di qualsiasi ordinamento giuridico, è quello che si ricava dall'art. 73, terzo comma, Cost. coordinato con l'art. 25, secondo comma, Cost., e con l'art. 5 cod. pen. e che da secoli viene compendiato nel brocardo nemo ius ignorare censetur. Alla stregua di tali disposizioni, un contrasto d'interpretazione d'una data norma tra giurisdizioni superiori non può giustificare la condotta di chi si determini esclusivamente in base all'orientamento a sé più favorevole ignorando quello contrario.
Quanto al preteso contrasto delle norme impugnate con l'art. 2 Cost., l'argomento del giudice a quo appare, secondo l'Avvocatura dello Stato, "misterioso", in quanto le norme denunciate si compendiano nel principio dell'obbligatorietà della legge, esigenza imprescindibile del vivere civile. Obbligatoria, tuttavia, è la legge non già l'interpretazione che ne abbia dato questo o quel giudice: tale interpretazione non è fonte di diritto. La possibilità di interpretazioni giurisprudenziali diverse è fisiologica nel nostro sistema e non si vede come potrebbe eliminarsi senza eliminare quella pluralità di giurisdizioni superiori che è consacrata dalla stessa Costituzione. Di fronte a contrasti di giurisprudenza il cittadino è libero di determinarsi nel modo più acconcio.
Quanto al contrasto con l'art. 3 Cost., la stessa Avvocatura osserva che il principio d'obbligatorietà della legge e d'irrilevanza dell'errore di diritto vale in modo uguale per tutti. Né è ravvisabile, prosegue l'Avvocatura dello Stato, violazione degli artt. 24, 111 e 113 Cost., giacché dai medesimi non può desumersi alcuna norma che garantisca costituzionalmente il cittadino dal pericolo di giudicati contrastanti, tanto più quando, come nella specie, si tratti non di conflitto pratico di giudicati ma di semplici orientamenti difformi su casi analoghi.
Infine, in ordine al contrasto, che il Pretore di Cingoli assume esistente tra gli articoli impugnati e l'art. 27, primo comma, Cost., l'Avvocatura osserva che, ai fini dell'operatività del principio d'obbligatorietà della legge, è necessaria e sufficiente la possibilità, offerta a chiunque, di conoscere la norma nel testo promulgato (art. 73, terzo comma, Cost.) possibilità che non viene certo meno per effetto d'una interpretazione giudiziale.
3. - Analoga questione di costituzionalità è stata sollevata dal Pretore di Padova, il quale - nel corso d'un procedimento penale a carico di Marin Giacinto, imputato della contravvenzione di cui all'art. 666 cod. pen., per avere senza licenza detenuto e fatto funzionare nel suo bar un apparecchio radio, un videogame ed un flipper - con ordinanza del 14 maggio 1982 ha impugnato, per contrasto con gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., l'art. 5 cod. pen., nella parte in cui nega ogni rilevanza all'errore od all'ignoranza scusabile.
Il Pretore osserva preliminarmente che, nella specie, l'imputato aveva creduto in buona fede che per la radio non fosse necessaria la licenza e che per gli altri apparecchi la situazione fosse regolare, essendo stato indotto in tale errore sia dall'oscurità delle norme in tema di licenza per apparecchi radiofonici sia dalle assicurazioni verbalmente fornitegli da funzionari comunali. In situazioni di questo genere, continua il Pretore, quando cioè "nella selva legislativa è difficile trovare la giusta via e l'imputato dà una spiegazione logica del proprio comportamento", lo stesso imputato dovrebbe poter invocare la propria buona fede, il che invece è vietato dall'art. 5 c.p.
Senonché, tale disposizione, in quanto nega ogni rilevanza all'errore od all'ignoranza scusabile derivante dall'oscurità della legge penale e dalla mancata concreta possibilità di conoscerla, appare innanzitutto in contrasto con l'art. 27, terzo comma, Cost.. Quest'ultimo articolo, attribuendo alla pena funzione rieducativa, pone in risalto il rapporto tra il reo ed i valori violati, nel senso che l'opera rieducativa della pena è ipotizzabile soltanto nel caso in cui l'agente abbia dimostrato indifferenza od ostilità verso i valori tutelati dall'ordinamento.
In secondo luogo sussisterebbe contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost., il quale, col divieto di retroattività e l'esigenza di tassatività della norma penale, tende a garantire la possibilità di conoscere la legge penale, possibilità che dovrebbe escludersi quando l'ignoranza discenda da una causa qualificata, oggettiva e scusabile, quale sarebbe la difficoltà d'interpretazione della legge stessa.
Sussisterebbe infine contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., per i quali la Repubblica s'impegna a garantire i diritti inviolabili ed il pieno sviluppo della persona ed a rimuovere gli ostacoli che a tale sviluppo si frappongono. Qualora i limiti fra il lecito e l'illecito non fossero chiaramente delineati, l'ordinamento, anziché rimuovere i predetti ostacoli, ne costituirebbe esso stesso un esempio vistoso.
4. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, deducendo l'infondatezza della questione.
Rileva l'Avvocatura che il giudice a quo da un lato esaspera alcuni aspetti di ordine pratico, che potrebbero essere adeguatamente risolti sol che si giudicasse con un po' di buon senso e logica e da un altro lato non tien conto della sentenza n. 74 del 1975, che ha già risolto la questione della conformità dell'art. 5 c.p. agli artt. 2 e 25 Cost.
Quanto al preteso contrasto delle norme impugnate con l'art. 27, terzo comma, Cost., l'Avvocatura rileva che, se fosse esatto l'assunto del Pretore, l'ignoranza della norma dovrebbe escludere la pena in ogni caso e non soltanto nell'ipotesi d'ignoranza inevitabile e, pertanto, scusabile.
L'Avvocatura esclude che possa ravvisarsi contrasto delle norme impugnate con l'art. 25, secondo comma, Cost., in quanto "la base costituzionale dell'art. 5 c.p. risiede nell'art. 73, terzo comma, Cost."; ed esclude anche contrasto tra le stesse norme e gli artt. 2 e 3 Cost., non potendo affermarsi che difficoltà interpretative delle norme penali siano d'ostacolo al pieno sviluppo della persona umana o violino il principio d'eguaglianza dei cittadini;
Considerato in diritto
1. - Le ordinanze in epigrafe propongono analoghe questioni: riuniti i giudizi, le stesse questioni possono, pertanto, esser decise con unica sentenza.
2. - L'ordinanza di rimessione del Pretore di Cingoli riferisce che agli imputati è stata contestata la contravvenzione di cui all'art. 17, lettera b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10 e l'ordinanza di rimessione del Pretore di Padova riferisce che l'imputato è stato chiamato a rispondere della contravvenzione di cui all'art. 666 c.p.: mentre le predette ordinanze risultano sufficientemente motivate in ordine alla rilevanza non si può qui far riferimento al notissimo indirizzo giurisprudenziale relativo alla "buona fede" nelle contravvenzioni senza impostare e risolvere il generale problema della legittimità dell'art. 5 c.p.: a parte la sua non uniformità, il predetto indirizzo giurisprudenziale, come in seguito si motiverà, non trova fondamento nella vigente legislazione a causa della norma di "sbarramento", di cui all'art. 5 c.p., che impedisce ogni rilievo, comunque, all'ignoranza della legge penale, sia essa qualificata o meno. Come è stato esattamente rilevato, disciplinando un elemento negativo (l'ignoranza) lo stesso articolo non offre possibilità d'operare distinzioni di disciplina tra le diverse cause dell'ignoranza o tra le varie modalità concrete nelle quali la medesima si manifesta.
3. - Prima d'esaminare se ed in quali limiti l'art. 5 c.p. deve ritenersi illegittimo, a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, vanno qui brevemente sottolineate alcune premesse ideologiche, di metodo, storiche e dommatiche.
La mancata considerazione delle relazioni tra soggetto e legge penale, l'idea che nessun rilievo giuridico va dato all'ignoranza della legge penale, è, fra l'altro, il risultato di tre ben caratterizzate impostazioni ideologiche. La prima, in radicale critica alla concezione normativa del diritto, contesta che l'obbedienza o la trasgressione della legge abbia attinenza con la conoscenza od ignoranza della medesima. La seconda sottolinea che, essendo l'ordinamento giuridico sorretto da una "coscienza comune" che lo legittima e costituendo, pertanto, la trasgressione della legge "episodio" particolare, incoerente e perciò ingiustificato (attuato da chi, conoscendo e contribuendo a realizzare i valori essenziali che sono alla base dello stesso ordinamento, appunto arbitrariamente ed incoerentemente si pone in contrasto con uno dei predetti valori) non può lo stesso ordinamento condizionare l'effettiva applicazione della sanzione penale alla prova della conoscenza, da parte dell'agente, per ogni illecito, del particolare precetto violato. La terza impostazione ideologica, comunemente ritenuta soltanto politica, attiene all'illuministica "maestà" della legge, la cui obbligatorietà, si sostiene, non va condizionata dalle mutevoli "psicologie" individuali nonché dall'alea della prova, in giudizio, della conoscenza della stessa legge.
Senonché, contro la prima tesi, va osservato che, supposta l'esistenza di leggi giuridiche statali, nessun dubbio può fondatamente sorgere in ordine al principio che spetta all'ordinamento dello Stato stabilire le condizioni in presenza delle quali esso entra in funzione (e, tra queste, ben può essere prevista la conoscenza della legge che si viola). Alla seconda tesi va obiettato che, in tempi in cui le norme penali erano circoscritte a ben precisi illeciti, ridotti nel numero e, per lo più, costituenti violazione anche di norme sociali universalmente riconosciute, era dato sostenere la regolare conoscenza, da parte dei cittadini, dell'illiceità dei fatti violatori delle leggi penali; ma, oggi, tenuto conto del notevole aumento delle sanzioni penali, sarebbe quasi impossibile dimostrare che lo Stato sia effettivamente sorretto da una "coscienza comune" tutte le volte che "aggiunge" sanzioni a violazioni di particolari, spesso "imprevedibili", valori relativi a campi, come quelli previdenziale, edilizio, fiscale ecc., che nulla hanno a che vedere con i delitti, c.d. naturali, di comune "riconoscimento" sociale. Alla terza impostazione ideologico-politica va obiettato che, certamente, è pericoloso, per la tutela dei valori fondamentali sui quali si fonda lo Stato, condizionare, di volta in volta, alla prova in giudizio della conoscenza della legge penale, da parte dell'agente, l'effettiva applicabilità delle sanzioni penali ma che, tuttavia, il principio dell'irrilevanza assoluta dell'ignoranza della legge penale non discende dall'obbligatorietà della stessa legge; tant'è vero che, come è stato sottolineato di recente dalla dottrina, nei sistemi nei quali si attribuisce rilevanza all'ignoranza della legge penale non per questo la legge diviene "meno obbligatoria".
Vero è che gli opposti principi dell'assoluta irrilevanza o dell'assoluta rilevanza dell'ignoranza della legge penale non trovano valido fondamento: ove, infatti, s'accettasse il principio dell'assoluta irrilevanza dell'ignoranza della legge penale si darebbe incondizionata prevalenza alla tutela dei beni giuridici a scapito della libertà e dignità della persona umana, costretta a subire la pena (la più grave delle sanzioni giuridiche) anche per comportamenti (allorché l'ignoranza della legge sia inevitabile) non implicanti consapevole ribellione o trascuratezza nei confronti dell'ordinamento; ove, invece, si sostenesse l'opposto principio dell'assoluta scusabilità della predetta ignoranza, l'indubbio rispetto della persona umana condurrebbe purtroppo (a parte la questione della possibilità che esistano soggetti che volutamente si tengano all'oscuro dei doveri giuridici) a rimettere alla variabile "psicologia" dei singoli la tutela di beni che, per essere tutelati penalmente, si suppone siano fondamentali per la società e per l'ordinamento giuridico statale.
4. - Sul piano metodologico va osservato che non è prospettiva producente ed esaustiva quella che esamini il tema dell'ignoranza della legge penale considerando il solo "istante" nel quale il soggetto oggettivamente viola la legge penale nell'ignoranza della medesima. È indispensabile, infatti, non trascurare le "cause", remote e prossime, della predetta ignoranza e, pertanto, estendere l'indagine al preliminare stato delle relazioni tra ordinamento giuridico e soggetti ed in particolare ai rapporti tra l'ordinamento, quale soggetto attivo dei processi di socializzazione di cui all'art. 3, secondo comma, Cost. ed autore del fatto illecito. Se non si mancherà d'accennare a tale indagine, va, peraltro, sottolineato che la medesima non potrà, ovviamente, esser sufficientemente approfondita in questa sede.
5. - Dal punto di vista storico e di diritto comparato va sottolineato che il principio dell'irrilevanza dell'ignoranza di diritto non è mai stato positivamente affermato nella sua assolutezza. Si può, anzi, affermare che la storia del principio in esame coincida con la storia delle sue eccezioni: dal diritto romano-classico, per il quale era consentito alle donne ed ai minori di 25 anni "ignorare il diritto", attraverso i "glossatori" ed il diritto canonico, fino alle attuali normative di diritto comparato (codici penali tedesco-occidentale, austriaco, svizzero, greco, polacco, iugoslavo, giapponese ecc.) si evidenziano tali e tante "eccezioni" all'assolutezza del principio in discussione che il codice Rocco si può sostenere sia rimasto, in materia, isolato, neppure più seguito dal codice penale portoghese. Quest'ultimo, infatti, mutando recentemente la precedente normativa, ha previsto il c.d. "errore intellettuale", nel quale rientra l'errore sul divieto la cui conoscenza appare ragionevolmente indispensabile perché possa aversi coscienza dell'illiceità del fatto.
6. - Va, infine, ricordato che, come rilevato da recente dottrina, il principio dell'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale, concepito nella sua assolutezza, non trova neppure convincente sistemazione dommatica. Escluso che possa prospettarsi l'esistenza d'un "dovere autonomo di conoscenza" della legge penale (ne mancherebbe, fra l'altro, la relativa sanzione) anche le tesi della presunzione iuris et de iure e della "finzione" di conoscenza della legge penale (a parte la considerazione che le medesime, mentre ritengono essenziale al reato la coscienza dell'antigiuridicità del comportamento criminoso, "presumono", in fatto, ciò che assumono essenziale in teoria) s'inseriscono in un contesto che parte dall'opposto principio dell'essenzialità al reato della coscienza dell'illiceità e, pertanto, della "scusabilità" dell'ignoranza della legge penale.
7. - Prima d'iniziare il confronto tra l'art. 5 c.p. e la Carta fondamentale, va, ancora, ricordato che, a seguito dell'entrata in vigore di quest'ultima, lo stesso articolo è stato oggetto di numerose, pesanti critiche. Partendo da ben note premesse sistematiche (l'imperatività della norma penale); ricordata la strumentalizzazione che lo Stato autoritario aveva operato del principio dell'assoluta irrilevanza dell'ignoranza della legge penale (già nel 1930 tal principio, trasferito dal capitolo dell'imputabilità, nel quale era inserito dal codice del 1879, a quello dell'obbligatorietà della legge penale, era divenuto "cardine" del sistema); ed affermata la necessità, per la punibilità del reato, dell'effettiva coscienza, nell'agente, dell'antigiuridicità del fatto; è stata con forza sottolineata la stridente incompatibilità dell'art. 5 c.p., qualificato come "incivile", con la Costituzione.
È stato, tuttavia, agevole, sul versante delle premesse sistematiche, contrapporre alla tesi dell'effettiva imperatività della norma penale, la formula dell'idoneità della stessa norma a funzionare come comando e, sul versante dell'illegittimità dell'art. 5 c.p., contrapporre alla richiesta di totale abrogazione o di dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'intero articolo l'inesistenza, nella Costituzione, d'un vincolo, per il legislatore ordinario, di non sanzionare penalmente fatti carenti d'effettiva coscienza dell'antigiuridicità. Le risposte, indubbiamente corrette, da una parte hanno, tuttavia, finito col "chiudere" ogni indagine sulla relazione tra ordinamento giuridico e soggetti, viventi in una determinata concretezza storica, in una particolare situazione sociale e d'altra parte hanno precluso, tranne lodevolissime eccezioni, ogni ulteriore esame della Costituzione, allo scopo di verificare se, in mancanza del precitato "vincolo" dell'effettiva presenza della coscienza dell'antigiuridicità, non esistessero altri vincoli, per il legislatore ordinario, mirati ad escludere l'incriminazione di fatti commessi in carenza di altre, anche se meno penetranti, relazioni tra soggetto e legge penale.
Sorge, invero, spontanea la domanda: a che vale richiedere come essenziale requisito subiettivo (minimo) d'imputazione uno specifico rapporto tra soggetto ed evento, tra soggetto e fatto, quando ogni "preliminare" esame delle relazioni tra soggetto e legge e, conseguentemente, tra soggetto e fatto considerato nel suo "integrale" disvalore antigiuridico viene eluso? E come è possibile risolvere i quesiti attinenti alla c.d. costituzionalizzazione (salve le osservazioni che, in proposito, saranno prospettate in seguito) del principio di colpevolezza, intesa quest'ultima come relazione tra soggetto e fatto, quando, non "rimuovendo" il principio d'assoluta irrilevanza dell'ignoranza della legge penale, sancito dall'art. 5 c.p., vengono "stroncate", in radice, le indagini sulle metodiche d'incriminazione dei fatti e quelle sulla chiarezza e riconoscibilità dei contenuti delle norme penali nonché sulle "certezze" che le norme penali dovrebbero assicurare e, pertanto, sulle garanzie che, in materia, di libertà d'azione, il soggetto attende dallo Stato?
8. - Allo scopo d'un attento approccio all'esegesi dell'art. 27, primo comma, Cost, occorre preliminarmente accennare al valore ed alla funzione che il momento subiettivo dell'antigiuridicità penale, il personale contrasto con la norma penale, assume nel sistema della vigente Costituzione. Si noti: una parte della dottrina richiede anche un mutamento terminologico, valido a distinguere la concezione della colpevolezza quale fondamento etico della responsabilità penale dalla concezione che ne accentua la sua funzione di limite al potere coercitivo dello Stato. A parte ogni questione sull'ammissibilità d'un'idea di colpevolezza che limiti senza fondare la potestà punitiva dello Stato, i richiesti mutamenti terminologici appaiono necessari ed anche urgenti; e, tuttavia, in questa sede, è preferibile mantenersi fermi alla tradizionale etichetta "colpevolezza" sia per ovvii motivi di chiarezza sia per sottolineare, pur nel variare, storicamente condizionato, delle nozioni dommatiche, la continuità dell'esigenza costituzionale del rispetto e tutela della persona alla quale viene attribuito il reato.
Va, a questo proposito, sottolineato che non è stato sufficientemente posto l'accento sulla diversità di due accezioni del termine colpevolezza. La prima, tradizionale, fa riferimento ai requisiti subiettivi della fattispecie penalmente rilevante (ed eventualmente anche alla valutazione di tali requisiti ed alla rimproverabilità del soggetto agente); la seconda, fuori dalla sistematica degli elementi del reato, denota il principio costituzionale, garantista (relativo alla personalità dell'illecito penale, ai presupposti della responsabilità penale personale ecc.) in base al quale si pone un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell'incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti subiettivi minimi d'imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto a pena. Qui si userà il termine colpevolezza soprattutto in quest'ultima accezione mentre lo stesso termine, all'infuori della prospettiva costituzionale (nell'impossibilità di ritenere "costituzionalizzata", come si preciserà fra breve, una delle tante concezioni della colpevolezza proposte dalla dottrina) verrà riferito al vigente sistema ordinario di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p.: questo sistema verrà, infatti, posto in raffronto con l'art. 27, primo e terzo comma e con i fondamentali principi dell'intera Costituzione, al fine di chiarire come l'art. 5 c.p., incidendo negativamente sul sistema ordinario della colpevolezza (attraverso l'esclusione d'ogni rilievo della conoscenza della legge penale) fa sì che lo stesso sistema non si riveli adeguato alle direttive costituzionali in tema di requisiti subiettivi minimi d'imputazione.
Va, a questo punto, precisato, per quanto, forse, superfluo, che la colpevolezza costituzionalmente richiesta, come avvertito dalla più recente dottrina penalistica, non costituisce elemento tale da poter esser, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato. Limpidamente testimonia ciò la stessa recente, particolare accentuazione della funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) che le moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza. Sia nella concezione che considera quest'ultima "fondamento", titolo giustificativo dell'intervento punitivo dello Stato sia nella concezione che ne accentua particolarmente la sua funzione di limite allo stesso intervento (garanzia del singolo e del funzionamento del sistema) inalterato permane il "valore" della colpevolezza, la sua insostituibilità.
Per precisare ancor meglio l'indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d'attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su "congrui" elementi subiettivi. La strutturale "ambiguità" della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme titolo idoneo d'intervento contro la criminalità e garanzia dei c.d. destinatari della legge penale. Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d'azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella "non colpevole" e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto.
A nulla varrebbe, infatti, in sede penale, garantire la riserva di legge statale, la tassatività delle leggi ecc. quando il soggetto fosse chiamato a rispondere di fatti che non può, comunque, impedire od in relazione ai quali non è in grado, senza la benché minima sua colpa, di ravvisare il dovere d'evitarli nascente dal precetto. Il principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto.
9. - Le premesse precisazioni indicano la "chiave di lettura", il quadro garantistico entro il quale inserire l'esegesi dell'art. 27, primo comma, Cost.
Va, intanto, notato che l'art. 27 Cost. non può esser adeguatamente compreso ove lo si legga in maniera, per così dire, spezzettata, senza collegamenti "interni". I commi primo e terzo vanno letti in stretto collegamento: essi, infatti, pur enunciando distinti principi, costituiscono un'unitaria presa di posizione in relazione ai requisiti subiettivi minimi che il reato deve possedere perché abbiano significato gli scopi di politica criminale enunciati, particolarmente, nel terzo comma. Delle due l'una: o il primo è in palese contraddizione con il terzo comma dell'art. 27 Cost. oppure è, appunto, quest'ultimo comma che svela, ove ve ne fosse bisogno, l'esatto significato e la precisa portata che il principio della responsabilità penale personale assume nella Costituzione. Sicché, quand'anche la lettera del primo comma dell'art. 27 desse luogo a dubbi interpretativi, essi sarebbero certamente fugati da un'attenta considerazione delle finalità della pena, di cui al terzo comma dello stesso articolo.
10. - Nell'esame del merito dell'interpretazione dell'art. 27, primo comma, Cost., vanno approfonditi i dibattiti svoltisi durante i lavori preparatori.
È anzitutto da sottolineare che la motivazione politica della norma in esame non risulta essere stata l'unico argomento dei dibattiti svoltisi, nella seduta del 18 settembre 1946, presso la I sottocommissione (della "Commissione per la Costituzione") anzi, tale motivazione venne introdotta, come opinione personale del presidente della stessa sottocommissione, quasi alla fine della seduta ed allo scopo di "mantenere" la norma (che costituiva il capoverso dell'art. 5 del Progetto di Costituzione) contro le richieste della sua soppressione. Gli argomenti trattati in precedenza risultano essere stati vari, tutti, comunque, tendenti ad escludere che da una, sia pur erronea, interpretazione della formula normativa potesse desumersi la legittimità di responsabilità penali senza partecipazione subiettiva.
Alcuni Costituenti mostrarono, con felice intuizione, davvero premonitrice, forti preoccupazioni sulla possibilità di equivoci nell'interpretazione della formula "La responsabilità penale è personale" e ne chiesero la soppressione, temendo si potesse ritenere "configurabile" una responsabilità penale senza elemento subiettivo. La terminologia è spesso imprecisa ma la volontà certa.
Si iniziò, da parte di alcuni Costituenti, rilevando che vi sono casi in cui è "discutibile se si tratti di responsabilità personale o non si tratti di responsabilità penale anche per fatto altrui". Si proseguì sottolineando che non si devono creare equivoci, anche "avuto riguardo agli artt. 1151, 1152 e 1153 del vecchio Codice civile, articoli che non trovano la loro corrispondenza nel codice fascista".
Si sostenne, da altro Costituente, che la formula "La responsabilità penale è personale" fosse da mantenersi, essendo essa affermazione di libertà e civiltà, limpidamente aggiungendo: "Si risponde per fatto proprio e si risponde attraverso ogni partecipazione personale al fatto proprio. Questo è il principio del diritto moderno, che trova la sua espressione nel principio della consapevolezza che deve accompagnare il fatto materiale. Parlare di responsabilità personale significa richiamarsi ad un principio che domina nell'odierno pensiero della scienza giuridica".
Intorno ai "dubbi" (ripetiamo, non sulla necessità dell'elemento subiettivo per la responsabilità penale ma sulla possibilità che, interpretando erroneamente la formula, si potesse ritenere ammissibile una responsabilità senza elemento subiettivo) si chiesero "chiarimenti" sui "fatti penali commessi per ordine altrui" e, dando all'espressione "fatto altrui" un significato che includeva nel termine "fatto" anche l'elemento subiettivo, si osservò che quest'ultimo manca, talvolta, in chi pur consuma materialmente il reato e che, appunto per tale mancanza, non può esser chiamato a rispondere penalmente. Se chi opera materialmente, s'affermò esplicitamente, agisce per fatto altrui, per esempio per l'esecuzione d'un ordine, la responsabilità non è più dell'esecutore dell'ordine, il quale ha consumato il reato ma di chi ha dato l'ordine. Non è, dunque, responsabile "chi ha eseguito un ordine legittimo dell'autorità" perché manca di elemento subiettivo ed è responsabile chi ha commesso il fatto (altrui rispetto all'esecutore) perché nel fatto è incluso il predetto elemento.
Si replicò, puntualmente, da parte di autorevoli Costituenti, affermando che "Colui che ha commesso un atto delittuoso risponde di persona propria se si trovava nella condizione di poter disobbedire": "altrimenti risponderà colui che ha dato l'ordine e risponderà in persona propria per aver prodotto il fatto delittuoso stesso". E si aggiunse che colui che esegue l'ordine "non risponde penalmente perché da lui non si poteva pretendere che agisse diversamente".
Vi fu, poi, chi osservò che la responsabilità personale non è un principio moderno ma un principio che, già nel 1500 o 1600, il diritto canonico, riportando il delitto ad un peccato dell'anima, aveva reso effettivo; e chiese la soppressione della formula in esame da un canto perché scontata e dall'altro perché, ritornando sul principio, si potevano provocare confusioni in tema di soggetti che sono in colpa (e per questo devono penalmente rispondere) ma le cui azioni non sono causa diretta o prossima dell'evento ("non sono direttamente colpevoli").
Tutti i Costituenti, dunque, almeno fino a questo momento del dibattito, sostennero che la responsabilità penale personale implicava necessariamente, oltre all'elemento materiale, un requisito subiettivo e, per alcuni Costituenti, l'esistenza, in particolare, della possibilità di muovere rimprovero all'agente, potendo da lui pretendersi un comportamento diverso.
Esaminando gli ulteriori interventi ci s'accorge che, soltanto quasi alla fine della discussione, mirandosi a respingere le richieste di soppressione della norma in esame, si spostò il dibattito sulle motivazioni politiche della stessa norma sostenendo che non si doveva dimenticare che, in occasione di attentati alla vita di Mussolini, si erano perseguiti i familiari dell'attentatore od i componenti dei circoli politici a cui era affiliata la persona che aveva consumato l'attentato e che, pertanto, la norma andava mantenuta.
Da ciò si desume da un canto che il termine fatto (altrui) venne usato, da chi sosteneva la motivazione politica dell'attuale primo comma dell'art. 27 Cost., come comprensivo dell'elemento subiettivo (attentare alla vita di Mussolini è agire colpevolmente) e dall'altro che tale motivazione tendeva (dichiarata per l'avvenire l'illegittimità costituzionale di sanzioni collettive) a non far ricadere su innocenti "colpe" altrui. L'intervento successivo a quello del presidente della prima sottocommissione è oltremodo eloquente in proposito: "...Proprio in questi ultimi tempi si sono viste delle persone pagare con la vita colpe che non avevano assolutamente commesso". La motivazione politica della norma è, dunque, quella d'impedire che "colpe altrui" ricadano su chi è estraneo alle medesime.
Né va dimenticato che, nella seduta successiva (19 settembre 1946) della stessa prima sottocommissione, allorché si trattò di sostituire il termine "colpevole" con quello di "reo", dapprima si suggerì d'usare la parola "condannato" ma, successivamente, di fronte alla contestazione sull'inusualità del termine "condannato" fuori dalla sede processuale, si tornò, per un momento, alla parola "colpevole", dichiarandosi espressamente: "Questa parola è più chiara, specialmente quando si parla di rieducazione del colpevole, perché il termine di rieducazione presuppone una colpa".
Ma la conferma definitiva per la quale i Costituenti mirarono, con la norma di cui al primo comma dell'art. 27 Cost., ad escludere la responsabilità penale senza elemento subiettivo si ha ricordando che alcuni Costituenti presentarono, questa volta in Assemblea (seduta antimeridiana del 15 aprile 1947) un emendamento alla norma in esame, sostitutivo della parola "personale" con l'espressione "solo per fatto personale" e che, nella seduta del 26 marzo 1947 dell'Assemblea costituente, si motivò l'emendamento, fra l'altro, affermando che si doveva armonizzare la responsabilità penale per fatto proprio con la responsabilità del direttore di giornali per reati di stampa, "così che la presunzione assoluta di colpa iuris et de iure si trasformi in presunzione iuris tantum". E nella seduta pomeridiana del 27 marzo 1947 della stessa Assemblea, si motivò ancora una volta, da parte d'altro autorevole presentatore, il citato emendamento, dichiarandosi: "... E qui conviene stabilire che la responsabilità penale è sempre per fatto proprio mai per fatto altrui; così delimitandosi quell'arbitraria inaccettabile configurazione di responsabilità presuntiva in materia giornalistica". La responsabilità penale sorge, dunque, solo nell'effettiva presenza dell'elemento subiettivo: non si può mai dare per presunta la colpa.
Se si tien presente che il caso della responsabilità penale del direttore di giornali per reati commessi a mezzo stampa era considerato, nel 1946-47, dall'assoluta maggioranza della dottrina, classico caso di responsabilità penale senza elemento subiettivo di collegamento con l'evento, non si può non dare il giusto rilievo all'"assicurazione" che il Presidente della prima sottocommissione, nella seduta antimeridiana del 15 aprile 1947 dell'Assemblea, diede ai presentatori del citato emendamento, nel pregarli di ritirarlo, sull'inesistenza delle preoccupazioni affacciate, data la formulazione proposta dalla Commissione.
In conclusione, va confermato che, per quanto si usino le espressioni fatto proprio e fatto altrui, che possono indurre in errore, in realtà, in tutti i lavori preparatori relativi al primo comma dell'art. 27 Cost., i Costituenti mirarono, sul piano dei requisiti d'imputazione del reato, ad escludere che si considerassero costituzionalmente legittime ipotesi carenti di elementi subiettivi di collegamento con l'evento e, sul piano politico, a non far ricadere su "estranei" "colpe altrui". E mai, in ogni caso, venne usato il termine fatto come comprensivo del solo elemento materiale, dell'azione cosciente e volontaria seguita dal solo nesso oggettivo di causalità: anzi, sempre venne usato lo stesso termine come comprensivo anche d'un minimo di requisiti subiettivi, oltre a quelli relativi alla coscienza e volontà dell'azione.
11. - Ma il significato del primo comma dell'art. 27 Cost. va chiarito, anche a parte i citati lavori preparatori, nei suoi particolari rapporti con il terzo comma dello stesso articolo e con gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma, Cost.
Anzitutto, è significativa la "lettera" del primo comma dell'art. 27 Cost. Non si legge, infatti, in esso: la responsabilità penale è "per fatto proprio" ma la responsabilità penale è "personale". Sicché, chi tendesse ad esaminare lo stesso comma sotto il profilo, per quanto, in sede penale, superato, della distinzione tra fatto proprio ed altrui (salvo a precisare l'esatta accezione, in materia, del termine "fatto") dovrebbe almeno leggere la norma in esame come equivalente a: "La responsabilità penale è per personale fatto proprio".
Ma è l'interpretazione sistematica del primo comma dell'art. 27 Cost. che ne svela l'ampia portata.
Collegando il primo al terzo comma dell'art. 27 Cost. agevolmente si scorge che, comunque s'intenda la funzione rieducativa di quest'ultima, essa postula almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la "rieducazione" di chi, non essendo almeno "in colpa" (rispetto al fatto) non ha, certo, "bisogno" di essere "rieducato".
Soltanto quando alla pena venisse assegnata esclusivamente una funzione deterrente (ma ciò è sicuramente da escludersi, nel nostro sistema costituzionale, data la grave strumentalizzazione che subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come legittima una responsabilità penale per fatti non riconducibili (oltre a quanto si dirà in tema d'ignoranza inevitabile della legge penale) alla predetta colpa dell'agente, nella prevedibilità ed evitabilità dell'evento.
12. - Non è dato qui scendere ad ulteriori precisazioni: va soltanto chiarito che quanto sostenuto è in pieno accordo con la tendenza mostrata dalle decisioni assunte da questa Corte allorché è stata chiamata a decidere sulla costituzionalità di ipotesi criminose che si assumeva non contenessero requisiti subiettivi sufficienti a realizzare il dettato dell'art. 27 Cost. Qui quella tendenza si completa e conclude.
A parte un momento le affermazioni "di principio" contenute nelle citate decisioni, nessuno può disconoscere che, sempre, le sentenze, in materia, hanno cercato di ravvisare, nelle ipotesi concrete sottoposte all'esame della Corte, un qualche "requisito psichico" idoneo a renderle immuni da censure d'illegittimità costituzionale ex art. 27 Cost. Le stesse decisioni, pur muovendosi nell'ambito dell'alternativa tra fatto proprio ed altrui, non hanno mancato di ricercare spesso un qualche coefficiente soggettivo (anche se limitato) sul presupposto che il "fatto proprio" debba includere anche simile coefficiente per divenire "compiutamente proprio" dell'agente: così, ad esempio, nella sentenza n. 54 del 1964, nella quale si afferma che il reato in esame "presuppone nell'agente la volontà di svolgere quell'attività che va sotto il nome di ricerca archeologica e che la legge interdice ai soggetti non legittimati dal necessario provvedimento amministrativo. Il fatto punito è perciò sicuramente un fatto proprio del soggetto cui la sanzione penale viene comminata": si noti che l'attività indicata, in mancanza d'evento naturalistico, integra l'intero fatto, oggettivo che, in conseguenza del riferimento ad esso della volontà dell'autore, "perciò sicuramente" costituisce "fatto proprio" dell'agente; così nella sentenza 17 febbraio 1971, n. 20 ove, a proposito dell'art. 539 c.p., si rileva come, pur in presenza dell'errore sull'età dell'offeso, "la condotta del delitto di violenza carnale, essendo posta in essere volontariamente (e si badi: non esistendo, nell'ipotesi esaminata, evento naturalistico, tal condotta esaurisce il fatto, oggettivamente considerato, al quale va riferita la volontarietà) è con certezza riferibile all'autore come "fatto suo proprio"; e così ancora, a tacere di altre decisioni, in quella del 17 febbraio 1971, n. 21.
Ed anche a proposito delle dichiarazioni "di principio" contenute nelle citate sentenze va sottolineato che, se si deve qui confermare che il primo comma dell'art. 27 Cost. contiene un tassativo divieto della responsabilità "per fatto altrui", va comunque precisato che ciò deriva dall'altro, ben più "civile" principio, di non far ricadere su di un soggetto, appunto estraneo al "fatto altrui", conseguenze penali di "colpe" a lui non ascrivibili. Come è da confermare che si risponde penalmente soltanto per il fatto proprio, purché si precisi che per "fatto proprio" non s'intende il fatto collegato al soggetto, all'azione dell'autore, dal mero nesso di causalità materiale ( da notare che, anzi, nella fattispecie plurisoggettiva il fatto comune diviene anche "proprio" del singolo compartecipe in base al solo "favorire" l'impresa comune) ma anche, e soprattutto, dal momento subiettivo, costituito, in presenza della prevedibilità ed evitabilità del risultato vietato, almeno dalla "colpa" in senso stretto.
Ed anche a proposito dell'esclusione, nel primo comma dell'art. 27 Cost., del tassativo divieto di responsabilità oggettiva va precisato che (ricordata l'incertezza dottrinale in ordine alle accezioni da attribuire alla predetta espressione) se nelle ipotesi di responsabilità oggettiva vengono comprese tutte quelle nelle quali anche un solo, magari accidentale, elemento del fatto, a differenza di altri elementi, non è coperto dal dolo o dalla colpa dell'agente (c.d. responsabilità oggettiva spuria od impropria) si deve anche qui ribadire che il primo comma dell'art. 27 Cost. non contiene un tassativo divieto di "responsabilità oggettiva". Diversamente va posto il problema, a seguito di quanto ora sostenuto, per la c.d. responsabilità oggettiva pura o propria. Si noti che, quasi sempre è in relazione al complessivo, ultimo risultato vietato che va posto il problema della violazione delle regole "preventive" che, appunto in quanto collegate al medesimo, consentono di riscontrare nell'agente la colpa per il fatto realizzato.
Ma, ove non si ritenga di restringere la c.d. responsabilità oggettiva "pura" alle sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal legislatore non è sorretto da alcun coefficiente subiettivo, va, di volta in volta, a proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere "coperti" almeno dalla colpa dell'agente perché sia rispettato da parte del disposto di cui all'art. 27, primo comma, Cost. relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto.
E non va, infine, dimenticata la sentenza n. 3 del 1956, nella quale limpidamente si afferma: "Ma appunto il direttore del periodico risponde per fatto proprio, per lo meno perché tra la sua omissione e l'evento c'è un nesso di causalità materiale, al quale s'accompagna sempre un certo nesso psichico (art. 40 c.p.) sufficiente, come è opinione non contrastata, a conferire alla responsabilità il connotato della personalità". A parte ogni rilievo, peraltro già sottolineato, in ordine all'alternativa tra fatto proprio ed altrui, è altamente indicativa l'affermazione per la quale al nesso di causalità materiale s'accompagna "sempre" un certo nesso psichico.
13. - La verità è che non va "continuata" la polemica sulla costituzionalizzazione, o meno, del principio di colpevolezza, di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p., quasi che, malgrado l'evidente inversione metodologica, sia consentito interpretare le norme costituzionali alla luce delle norme ordinarie (qual è, peraltro, tra le tante concettualizzazioni scientifiche, la nozione di colpevolezza che dovrebbe essere costituzionalizzata?) ma, chiariti i contenuti delle norme costituzionali che determinano i requisiti subiettivi "minimi" d'imputazione, a prescindere un momento dal sistema ordinario, desunto dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p., occorre verificare, di volta in volta, se le singole ipotesi criminose di parte speciale (collegate con le disposizioni di parte generale) siano o meno conformi, quanto ad elementi subiettivi, ai requisiti minimi richiesti dalle autonomamente interpretate norme costituzionali.
La stessa possibilità (che si chiarirà, fra poco, essere essenziale per il giudizio di responsabilità penale) di muovere all'autore un "rimprovero" per la commissione dell'illecito non equivale ad accoglimento da parte della Costituzione (a costituzionalizzazione) d'una delle molteplici concezioni "normative" della colpevolezza prospettate in dottrina bensì costituisce autonomo risultato, svincolato da ogni premessa concettualistica, dell'interpretazione dei commi primo e terzo dell'art. 27 Cost., anche se, per accidens, tale "rimprovero" venga a coincidere con una delle nozioni di colpevolezza (normativa) prospettate in dottrina o desunte da un determinato sistema ordinario.
A conclusione del primo approccio interpretativo del disposto di cui al primo comma dell'art. 27 Cost., deve, pertanto, affermarsi che il fatto imputato, perché sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Il fatto (punibile, "proprio" dell'agente) va, dunque, nella materia che si sta trattando, costituzionalmente inteso in una larga, anche subiettivamente caratterizzata accezione e non in quella, riduttiva, d'insieme di elementi oggettivi. La "tipicità" (oggettiva e soggettiva) del fatto (ovviamente, di regola, vengono richiesti nelle diverse ipotesi criminose, ulteriori elementi subiettivi, come il dolo ecc.) costituisce, così, primo, necessario "presupposto" della punibilità ed è distinta dalla valutazione e rimproverabilità del fatto stesso.
14. - Dal collegamento tra il primo e terzo comma dell'art. 27 Cost. risulta, altresì, insieme con la necessaria "rimproverabilità" della personale violazione normativa, l'illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza, espressi dalle norme penali. La piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi che, appunto personalmente, esprimano il predetto, riprovevole contrasto od indifferenza. Il ristabilimento dei valori sociali "dispregiati" e l'opera rieducatrice ed ammonitrice sul reo hanno senso soltanto sulla base della dimostrata "soggettiva antigiuridicità" del fatto.
Discende che, anche quando non si ritenesse la "possibilità di conoscenza della legge penale" requisito autonomo d'imputazione costituzionalmente richiesto, ugualmente si dovrebbe giungere alla conclusione che, tutte le volte in cui entra in gioco il dovere d'osservare le leggi penali (che, per i cittadini, è specificazione di quello d'osservare le leggi della Repubblica, sancito dal primo comma dell'art. 54 Cost.) la violazione di tal dovere, implicita nella commissione del fatto di reato, non può certamente divenire rilevante, e dar luogo alla pena, in una pura dimensione obiettiva od in una "subiettiva", limitata alla colpa del fatto. Trattandosi, appunto, dell'applicazione d'una pena, da qualunque teoria s'intenda muovere (eccezion fatta per quella della prevenzione generale in chiave di pura deterrenza, che, peraltro, come s'è già avvertito, non può considerarsi legittimamente utilizzabile per ascrivere una responsabilità penale) e dovendo la violazione del precitato dovere essere "rimproverabile", l'impossibilità di conoscenza del precetto (e, pertanto, dell'illiceità del fatto) non ascrivibile alla volontà dell'interessato deve necessariamente escludere la punibilità. Il vigente sistema costituzionale non consente che l'obbligo di non ledere i valori penalmente garantiti sorga e si violi (attraverso la commissione del fatto di reato) senza alcun riferimento, se non all'effettiva conoscenza del contenuto dell'obbligo stesso, almeno alla "possibilità" della sua conoscenza. Se l'obbligo giuridico si distingue dalla "soggezione" perché, a differenza di quest'ultima, richiama la partecipazione volitiva del singolo alla sua realizzazione, far sorgere l'obbligo d'osservanza delle leggi (delle "singole", particolari leggi) penali, in testa ad un determinato soggetto, senza la benché minima possibilità, da parte del soggetto stesso, di conoscerne il contenuto e subordinare la sua violazione soltanto ai requisiti "subiettivi" attinenti al fatto di reato, equivale da una parte a ridurre notevolmente valore e significato di questi ultimi e, d'altra parte, a strumentalizzare la persona umana a fini di pura deterrenza.
Quanto ora precisato già basterebbe a far ritenere l'art. 5 c.p. incostituzionale nella parte in cui impedisce ogni esame della rimproverabilità e, pertanto, scusabilità dell'ignoranza della (od errore sulla) legge penale. Anche quando non si sia dell'avviso che l'art. 5 c.p. operi nell'ambito della colpevolezza e lo si agganci, come nel codice Rocco, all'obbligatorietà della legge penale, ugualmente lo stesso articolo, per le ragioni innanzi indicate, si dovrebbe ritenere contrastante con l'art. 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui esclude ogni rilevanza all'ignoranza od errore sul precetto dovute all'impossibilità (non rimproverabile) di conoscerlo.
15. - Ma il modo più appagante per convalidare tutto ciò è quello intrapreso, in tempi recenti, dalla dottrina che ritiene la "possibilità di conoscere la norma penale" autonomo presupposto necessario d'ogni forma d'imputazione e che estende la sfera d'operatività di tale "presupposto" a tutte le fattispecie penalmente rilevanti, comprese le dolose. Considerando il combinato disposto del primo e terzo comma dell'art. 27 Cost. nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto dagli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma Cost. ecc., alla "possibilità di conoscere la norma penale" va, infatti, attribuito un autonomo ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi d'imputazione costituzionalmente richiesti: tale "possibilità" è, infatti, presupposto della rimproverabilità del fatto, inteso quest'ultimo come comprensivo anche degli elementi subiettivi attinenti al fatto di reato.
16. - Basilari norme costituzionali relative alla materia penale, mentre tendono a garantire al cittadino, ed in genere ai c.d. destinatari delle norme penali, la sicurezza giuridica di non esser puniti ove vengano realizzati comportamenti penalmente irrilevanti, svelano la funzione d'orientamento culturale e di determinazione psicologica operata dalle leggi penali. Non è, infatti, senza significato che il principio di legalità, inteso come "riserva di legge statale" sia espressamente costituzionalizzato, in sede penale, dall'art. 25, secondo comma, Cost.: trattandosi dell'applicazione delle più gravi sanzioni giuridiche, la Costituzione intende particolarmente garantire i soggetti attraverso la praevia lex scripta. I principi di tassatività e d'irretroattività delle norme penali incriminatrici, nell'aggiungere altri contenuti al sistema delle fonti delle norme penali, evidenziano che il legislatore costituzionale intende garantire i cittadini, attraverso la "possibilità" di conoscenza delle stesse norme, la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d'azione.
E tutto ciò si chiarisce ancor più (come è stato sottolineato in dottrina) ove si ricordi che, nel quadro dello "Stato di diritto", anche il principio di riserva di legge penale e gli altri precedentemente indicati, sono espressione della contropartita (d'origine contrattualistica) che lo Stato offre in cambio, appunto, dell'obbligatorietà della legge penale: lo Stato assicura i cittadini che non li punirà senza preventivamente informarli su ciò che è vietato o comandato ma richiede dai singoli l'adempimento di particolari doveri (sui quali ci si soffermerà fra breve) mirati alla realizzazione dei precetti "principali" relativi ai fatti penalmente rilevanti.
17. - Va qui, subito, precisato che le garanzie di cui agli artt.73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., per loro natura formali, vanno svelate nelle loro implicazioni: queste comportano il contemporaneo adempimento da parte dello Stato di altri doveri costituzionali: ed in prima, di quelli attinenti alla formulazione, struttura e contenuti delle norme penali. Queste ultime possono essere conosciute solo allorché si rendano "riconoscibili". Il principio di "riconoscibilità" dei contenuti delle norme penali, implicato dagli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., rinvia, ad es., alla necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di "rilievo costituzionale" e tali da esser percepite anche in funzione di norme "extrapenali", di civiltà, effettivamente vigenti nell'ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare. L'osservazione dell'"istante" in cui si viola la legge penale nell'ignoranza della medesima non può far dimenticare, come s'è avvertito all'inizio, che, "prima" del rapporto tra soggetto e "singola" legge penale, esiste un ben definito rapporto tra ordinamento e soggetto "obbligato" a non violare le norme, dal quale ultimo rapporto il primo è necessariamente condizionato. È stato osservato e ribadito, esattamente, che un precetto penale ha valore, come regolatore della condotta, non per quello che è ma per quel che appare ai consociati. E la conformità dell'apparenza all'effettivo contenuto della norma penale dev'essere assicurata dallo Stato che è tenuto a favorire, al massimo, la riconoscibilità sociale dell'effettivo contenuto precettivo delle norme.
Oltre alle condizioni relative al rapporto soggetto-fatto, esiste, pertanto, un altro "presupposto" della responsabilità penale, costituito, appunto, dalla "riconoscibilità" dell'effettivo contenuto precettivo della norma. L'oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto, nella quale venga a trovarsi "chiunque" (non soltanto il singolo soggetto, particolarmente considerato) non può gravare sul cittadino e costituisce, dunque, un altro limite della personale responsabilità penale.
18. - Ma il problema centrale, per il nostro tema, attiene ai doveri "strumentali" di conoscenza delle leggi, incombenti sui c.d. destinatari dei precetti penali e, conseguentemente, ai limiti dei predetti doveri.
Il passaggio dall'oggettiva possibilità di conoscenza delle leggi penali, assicurata dallo Stato all'effettiva, concreta conoscenza delle leggi stesse avviene attraverso la "mediazione", ovviamente insostituibile, dell'attività conoscitiva dei singoli soggetti.
Supposta esistente, in fatto, l'oggettiva possibilità di conoscenza d'una particolare legge penale, i soggetti privati, divenendo diretti destinatari dell'obbligo (principale) d'adempimento del precetto oggettivamente conoscibile, devono operare la predetta, insostituibile mediazione. A questo fine incombono sul privato, preliminarmente, strumentali, specifici doveri d'informazione e conoscenza: ed è a causa del non adempimento di tali doveri che è costituzionalmente consentito chiamare a rispondere anche chi ignora la legge penale. Gli indicati doveri d'informazione, di conoscenza ecc. costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale, di cui all'art. 2 Cost. La Costituzione richiede dai singoli soggetti la massima, costante tensione ai fini del rispetto degli interessi dell'"altrui" persona umana: ed è per la violazione di questo impegno di solidarietà sociale che la stessa Costituzione chiama a rispondere penalmente anche chi lede tali interessi non conoscendone positivamente la tutela giuridica.
Posto, dunque, che lo Stato adempia ai suoi doveri, che esista, cioè, per l'agente l'oggettiva "possibilità" di conoscere le leggi penali, residuano, tuttavia, ulteriori problemi. L'assoluta, "illuministica" certezza della legge sempre più si dimostra assai vicina al mito: la più certa delle leggi ha bisogno di "letture" ed interpretazioni sistematiche che (dato il rapidissimo succedersi di "entrate in vigore" di nuove leggi e di abrogazioni, espresse o tacite, di antiche disposizioni) rinviano, attraverso la mediazione dei c.d. destinatari della legge, ad ulteriori "seconde" mediazioni. La completa, in tutte le sue forme, sicura interpretazione delle leggi penali ha, oggi, spesso bisogno di seconde, ulteriori mediazioni: quelle ad es. di tecnici, quanto più possibile qualificati, di organi dello Stato (soprattutto di quelli istituzionalmente destinati ad applicare le sanzioni per le violazioni delle norme, ecc.). Specifici, particolari doveri, nei destinatari delle leggi penali (di richiesta e controllo delle informazioni ricevute, ecc.) discendono da un sistema di norme "strumentali", la violazione delle quali già denota quanto meno una "trascuratezza" nei confronti dei diritti altrui, delle persone umane e, conclusivamente, dell'ordinamento tutto.
D'altra parte, chi, invece, attenendosi scrupolosamente alle "richieste" preventive dell'ordinamento, agli obblighi di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., adempia a tutti i predetti doveri, strumentali, nella specie prevedi bili e ciò non ostante venga a trovarsi in stato d'ignoranza della legge penale, non può esser trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri. Come è stato rilevato, discende dall'ideologia contrattualistica l'assunzione da parte dello Stato dell'obbligo di non punire senza preventivamente informare i cittadini su che cosa è vietato o comandato ma da tale ideologia discende anche la richiesta, in contropartita, che i singoli s'informino sulle leggi, si rendano attivi per conoscerle, prima d'agire. La violazione del divieto di commettere reati, avvenuta nell'ignoranza della legge penale, può, pertanto, dimostrare che l'agente non ha prestato alle leggi dello Stato tutta l'attenzione "dovuta". Ma se non v'è stata alcuna violazione di quest'ultima, se il cittadino, nei limiti possibili, si è dimostrato ligio al dovere ( ex art. 54, primo comma Cost.) e, ciò malgrado, continua ad ignorare la legge, deve concludersi che la sua ignoranza è "inevitabile" e, pertanto, scusabile.
Non esiste, è vero, un "autonomo" obbligo di conoscenza delle singole leggi penali; non può disconoscersi, tuttavia, l'esistenza in testa ai c.d. destinatari dei precetti "principali", nei confronti di tutto l'ordinamento, di doveri "strumentali", d'attenzione, prudenza ecc. (simili a quelli che caratterizzano le fattispecie colpose) nel muoversi in campi prevedibilmente lesivi di "interessi altrui"; doveri già incombenti prima della violazione delle singole norme penali, mirati, attraverso il loro adempimento e, conseguentemente, attraverso la raggiunta conoscenza delle leggi, a prevenire (appunto inconsapevoli) violazioni delle medesime. Inadempiuti tali doveri, l'ignoranza della legge risulta inescusabile, evitabile. Adempiuti ai medesimi la stessa ignoranza, divenuta inevitabile e, pertanto, scusabile, esclude, la rimproverabilità e, pertanto, la responsabilità penale.
19. - L'effettiva possibilità di conoscere la legge penale è, dunque, ulteriore requisito subiettivo minimo d'imputazione, che si ricava dall'intero sistema costituzionale ed in particolare dagli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost. Tale requisito viene ad integrare e completare quelli attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto e consente la valutazione e, pertanto, la rimproverabilità del fatto complessivamente considerato.
Non si creda, peraltro, che, ricavandosi il requisito della "possibilità" di conoscere la legge penale dall'intero sistema costituzionale (ed in particolare dai precitati articoli) esso sia estraneo all'art. 27, primo comma, Cost., quasi che quest'ultimo comma si riferisca soltanto alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto, e, in particolare, alla violazione, nelle ipotesi di colpa in senso stretto, delle norme preventive che caratterizzano la colpa oltre, se mai, alla "rimproverabilità" dell'autore del reato. Vero è che l'art. 27, primo comma, Cost., dichiarando che la responsabilità penale è personale, non soltanto presuppone la "personalità" dell'illecito penale (la pena, appunto "in virtù" della "personalità" della responsabilità penale, va subita dallo stesso soggetto al quale è personalmente imputato il reato) ma compendia tutti i requisiti subiettivi minimi d'imputazione.
Il comma in discussione, interpretato in relazione al terzo comma dello stesso articolo ed in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., svela non soltanto l'essenzialità della colpa dell'agente rispetto agli elementi più significativi della fattispecie tipica ma anche l'indispensabilità del requisito minimo d'imputazione costituito dall'effettiva "possibilità di conoscere la legge penale", essendo anch'esso necessario presupposto della "rimproverabilità" dell'agente. Il principio della "personalità dell'illecito penale" è "totalmente" implicato dal principio della "responsabilità penale personale" espresso, appunto, dal primo comma dell'art. 27 Cost.: che l'integrale contenuto di questo comma debba esser svelato anche in base alla sua interpretazione sistematica nulla toglie od aggiunge al contenuto stesso.
20. - A questo punto va precisata l'interpretazione da dare all'art. 5 c.p. nel momento in cui lo si "confronta" con gli articoli della Costituzione innanzi richiamati e con l'intero sistema, in materia penale, della Carta fondamentale. Per quanto occorra allontanare le tentazioni di sopravvalutazione dell'art. 5 c.p. (è quasi impensabile, infatti, che un soggetto "imputabile" commetta i c.d. delitti naturali nell'ignoranza della loro "illiceità" mentre l'ignoranza delle norme incriminatrici dei c.d. reati di pura creazione legislativa, tenuto conto del loro sempre crescente numero e del relativo "più intenso" dovere di conoscenza da parte dei soggetti che operano nei settori ai quali tali norme appartengono, si rivela, di regola, inescusabile) lo stesso articolo costituisce, tuttavia, norma fondamentale nel vigente sistema delle leggi penali ordinarie. Le interpretazioni che dottrina e giurisprudenza offrono dell'art. 5 c.p., soprattutto allo scopo di distinguere l'irrilevante errore sul precetto dal rilevante errore sulla legge extrapenale di cui all'art. 47, terzo comma, c.p., sono tanto varie e così diverse tra loro che è impossibile tentarne una sia pur sommaria esposizione.
Qui occorre prendere le mosse dalla "rigorosa" interpretazione che dello stesso articolo danno una parte della dottrina e la giurisprudenza di legittimità (esclusa la "parentesi" della rilevanza della buona fede nelle contravvenzioni).
Non è questa, infatti, la sede per procedere ad un'interpretazione "esaustiva" della norma impugnata: non, essendo invero, possibile qui chiarire, con precisione, neppure l'oggetto sul quale cade il "vizio", che l'art.5 c.p. sottende ed in base al quale, ove lo stesso articolo non esistesse, l'agente sarebbe scusato, vale qui riportarsi, in materia, alle dottrine che risultano in accordo con la citata "rigorosa" interpretazione dell'articolo in discussione: tali dottrine sottolineano che, incidendo l'art. 5 c.p. sul momento subiettivo dell'antigiuridicità, l'errore che, ai sensi dello stesso articolo, non scusa è quello che cade sul precetto, sull'aspetto determinativo del precetto, tenuto conto, peraltro, che valutazione e determinazione sono inscindibili nella norma penale.
Per nessuno degli aspetti dai quali viene considerato l'art. 5 c.p. si può, infatti, qui partire dalle riduttive interpretazioni che dello stesso articolo alcuni Autori offrono, pur nel lodevole tentativo di "mitigarne" il rigore: non foss'altro perché tali interpretazioni non sono condivise dal diritto vivente.
Vero è che il problema dei rapporti tra soggetto e legge penale, tra soggetto e norma penale, vanno impostati, come impone la Costituzione, nell'ambito dell'autonomo requisito "possibilità di conoscenza della legge penale" sulla quale ci si è soffermati innanzi: allorché s'ignori la legge penale e l'ignoranza sia inevitabile la mancata relazione tra soggetto e legge, tra soggetto e norma penale, diviene, ai sensi dell'art. 27, primo comma, Cost., rilevante (risultando esclusa la personalità dell'illecito e non essendo legittima la punizione in carenza del requisito della colpevolezza costituzionalmente richiesta) mentre, ove l'ignoranza della legge penale sia evitabile, rimproverabile, la stessa mancata relazione tra soggetto e legge, tra soggetto e norma penale, non esclude la punizione dell'agente che versa in errore di diritto (sempre che si realizzino tutti gli altri requisiti subiettivi ed obiettivi d'imputazione) giacché, in quest'ultima ipotesi, tale mancata relazione già rivela quanto meno un'"indifferenza" dell'agente nei confronti delle norme, dei valori tutelati e dell'ordinamento tutto.
Richiamato l'art. 5 c.p. alla logica dell'elemento subiettivo, della colpevolezza, che lo stesso articolo arbitrariamente mutila; rilevato il contrasto tra l'articolo in discussione e l'art. 27, primo comma, Cost. (espressivo quest'ultimo, come s'è innanzi chiarito, dell'intero sistema costituzionale in materia di elemento subiettivo del reato); la dichiarazione di parziale incostituzionalità dell'art. 5 c.p. esclude, in ogni caso, che siano chiamati a rispondere penalmente coloro che versano in stato d'inevitabile (scusabile) ignoranza della legge penale.
21. - Allo stesso modo non è, in questa sede, consentito riferirsi all'interpretazione dell'art. 5 c.p., secondo la quale quest'ultimo, mentre dichiarerebbe irrilevante la conoscenza effettiva della legge penale, nulla disporrebbe in ordine alla possibilità di tale conoscenza. Questa tesi è degna di particolare considerazione in quanto riconosce rilievo autonomo alla possibilità di conoscere la legge penale e fa derivare tale rilievo dall'art. 27, primo e terzo comma, c.p.: questo articolo, statuendo la necessità di considerazione d'una qualche relazione psicologica del soggetto con il disvalore giuridico del fatto, si riconnette, infatti, ai principi di fondo della convivenza democratica a termini dei quali, si ribadisce, così come il cittadino è tenuto a rispettare l'ordinamento democratico, quest'ultimo è tale in quanto sappia porre i privati in grado di comprenderlo senza comprimere la loro sfera giuridica con divieti non riconoscibili ed interventi sanzionatori non prevedibili.
Senonché, alla predetta interpretazione riduttiva dell'art. 5 c.p. è stato esattamente osservato che quest'ultimo, escludendo ogni efficacia scusante dell'ignoranza della legge penale, non consente alcuna distinzione attinente alla causa dell'ignoranza, in modo da ritenere l'ignoranza scusabile, a differenza di quella inescusabile, suscettibile di diverso trattamento.
D'altra parte, la proposta interpretazione "adeguatrice", ex art. 27, primo e terzo comma, Cost., sarebbe in stridente contrasto con l'interpretazione che il diritto vivente dà all'art. 5 c.p.: non solo non s'interpreta questo articolo, soprattutto da parte della giurisprudenza di legittimità (tranne l'"eccezione" della buona fede nelle contravvenzioni) in maniera rigida ma, nel dare all'art. 5 c.p. la massima "espansione", si è, da parte della stessa giurisprudenza, finito, praticamente, con l'addivenire ad una interpretatio abrogans dell'art. 47, terzo comma, c.p.
22. - E poiché anche il rilievo attribuito dalla giurisprudenza alla "positiva" buona fede nelle contravvenzioni non trova fondamento nell'attuale sistema del Codice Rocco (l'art. 5 c.p., statuendo, in ogni caso, l'irrilevanza dell'ignoranza della legge penale, non consente di distinguere la disciplina giuridica delle ipotesi che danno luogo all'ignoranza "inqualificata" da quelle che la "qualificano" per esser fondate sulla "positiva" buona fede del soggetto; e poiché anche le diverse interpretazioni "evolutive" dell'art. 5 c.p., secondo le quali lo stesso articolo statuirebbe soltanto una presunzione iuris tantum e non iuris et de iure d'irrilevanza dell'ignoranza della legge penale (tutte, peraltro, degne di considerazione, in quanto mirate ad attenuare l'incostituzionale rigore della statuizione in esame) contrastano con l'interpretazione che dell'articolo in discussione dà il diritto vivente; non resta, dunque, che partire qui da quest'ultima interpretazione.
23. - Non può tacersi, a questo punto, che l'art. 5 c.p. ha natura "bifronte": da un canto nega efficacia scusante all'ignoranza della legge penale e dall'altro esclude ogni rilevanza all'errore sull'illiceità del fatto e, pertanto, alla consapevolezza della stessa illiceità. È stato, invero, in dottrina, precisato che l'art. 5 c.p. non disciplina l'ignoranza della legge penale in astratto ma l'ignoranza (od errore) "essenziale", anche incolpevole, sull'illiceità d'un concreto comportamento.
Si possono, è vero, attenuare gli inconvenienti che si producono a seguito del disposto di cui all'art. 5 c.p., in sede di dolo, sostenendo essenziale al medesimo, ex art. 43 c.p., la coscienza della violazione dell'interesse tutelato ed assumendo che l'art. 5 c.p. renda irrilevante soltanto la coscienza dell'illiceità penale (= punibilità) del fatto. Ma per le ipotesi colpose il soggetto agente verrebbe ad esser punito senza nemmeno la più lontana possibilità (carenza incolpevole) di conoscere la "giuridicità" delle regole di diligenza, prudenza ecc. in base alla violazione delle quali lo stesso soggetto vien punito.
Va aggiunto che l'esistenza d'una norma, quale quella dell'art. 5 c.p., diretta ad escludere ogni giuridico rilievo all'ignoranza (od errore) sulla legge penale, presuppone la contrapposta possibilità, almeno teorica, che il reo, in assenza di tale norma, pretenda scusarsi: ed il reo, in tal caso, si scuserebbe adducendo il "turbamento", prodotto dall'ignoranza della legge penale sul processo formativo della volontà del fatto. Nell'ipotesi prospettata, tuttavia, da un canto si dimostrerebbe assurda una "pretesa" d'essere scusati (nell'inesistenza dell'art. 5 c.p.) sol in base all'ignoranza, anche inescusabile, della sola punibilità del fatto (pur essendo coscienti di ledere il bene tutelato) e d'altro canto sarebbe sempre l'errore nella formazione della concreta volontà dell'illecito, al quale consegue la carenza di coscienza dell'illiceità penale del fatto, anche se dovuta all'ignoranza (od errore) sulla legge penale, a costituire la ragione della "scusa", che appunto, lo stesso articolo esclude.
Senonché, a seguito della predetta osservazione, si ha la riprova che l'art. 5 c.p., nell'attuale vigore, non soltanto determina un uguale trattamento di chi agisce con la coscienza dell'illiceità (totale o soltanto penale) del fatto e di chi opera senza tale coscienza ma esclude ogni possibilità di valutazione della "causa" della mancata coscienza (della sola punibilità o dell'"intera" antiprecettività del fatto) trattando allo stesso modo errore scusabile, inevitabile ed errore inescusabile, evitabile, sull'illiceità. Punendo, in ogni caso, l'agente che versa in errore di diritto l'art. 5 c.p. presume, iuris et de iure, comunque si delimiti l'oggetto di tale errore, la "rimproverabilità" del medesimo. Vero è che l'art. 5 c.p. rende incostituzionale tutto il sistema ordinario in materia di colpevolezza, in quanto sottrae a questa l'importantissima materia del rapporto tra soggetto e legge penale e, conseguentemente, tra soggetto e coscienza del significato illecito del fatto.
Ma l'art. 5 c.p. "snatura", togliendone fondamento, anche la residua materia che non sottrae alla colpevolezza (dolo, colpa del fatto ecc.). Allorché l'agente ignora, del tutto incolpevolmente, la legge penale e, pertanto, incolpevolmente ignora l'illiceità del fatto, non mostra alcuna opposizione ai valori tutelati dall'ordinamento: può il suo dolo costituire oggetto di rimprovero ex art. 27, primo e terzo comma, Cost.? Certo, includendo nel dolo la coscienza dell'offesa (a parte ogni discussione sulla conseguente riduttiva interpretazione dell'art. 5 c.p.) si attenuano gli effetti che, invece, discendono dalla rigorosa interpretazione dello stesso articolo. Senonché, pur ammettendo che l'art. 5 c.p. sottragga alla colpevolezza soltanto il rapporto tra soggetto e coscienza del significato illecito "penale" del fatto e non dell'intero disvalore antiprecettivo del fatto stesso (e sempre a prescindere dalla pratica "inoperatività", in tal caso, dell'art. 5 c.p.) rimarrebbero del tutto "scoperte" le ipotesi colpose (contravvenzionali ad es.). Per assumere il soggetto agente "in colpa" dovrebbe, invece, almeno essergli offerta la "possibilità" di conoscere le norme penali che "trasformano" in doverose le regole di diligenza, prudenza ecc. in base alla violazione delle quali, nella prevedibilità ed evitabilità concreta dell'evento, si viene chiamati a rispondere: se l'agente, del tutto incolpevolmente, ignorasse le predette norme penali, la sua "colpa" (del fatto) non dovrebbe potersi ritenere rimproverabile ex art. 27, primo e terzo comma, Cost.
La colpevolezza prevista dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p. va, pertanto, arricchita, in attuazione dell'art. 27, primo e terzo comma, Cost., fino ad investire, prima ancora del momento della violazione della legge penale nell'ignoranza di quest'ultima, l'atteggiamento psicologico del reo di fronte ai doveri d'informazione o d'attenzione sulle norme penali, doveri che sono alla base della convivenza civile.
Né si tema che le conclusioni qui raggiunte delineino una forma di "colpa per la condotta della vita": risalire alle "cause" dell'ignoranza della legge penale, per verificarne l'evitabilità, costituisce verifica dell'esistenza, in concreto, almeno d'un atteggiamento d'indifferenza, da parte dell'agente, nei confronti della doverosa informazione giuridica. Tale verifica non solo non viola il principio della responsabilità penale "per il singolo fatto" ma mira a cogliere il completo disvalore soggettivo del particolare episodio criminoso e può, condurre, come più volte ribadito, all'esclusione della colpevolezza per il singolo fatto, nell'ipotesi d'inevitabilità dell'ignoranza.
24. - L'art. 5 c.p. viola, infine, anche l'art. 3, primo e secondo comma, Cost.
In ordine alla violazione del primo comma dell'art. 3 Cost. va anzitutto ricordato (a conferma di quanto innanzi osservato in ordine all'uguale trattamento che, ai sensi dell'art. 5 c.p., riceve chi agisce con la coscienza dell'illiceità del fatto e chi invece con tale coscienza non opera) che, come ha avuto modo di rilevare recente, attenta dottrina, colui che commette un reato nell'ignoranza della legge penale dovuta ad impossibilità di prenderne conoscenza vien punito con una pena che, rispetto a quella cui soggiace chi commette lo stesso reato conoscendone l'illiceità, può esser diminuita soltanto entro i limiti edittali ex art. 133 c.p. o, se mai, ex art. 62- bis c.p. La diversità tra le predette situazioni (conoscenza effettiva ed impossibilità incolpevole di conoscenza della legge penale) è, invece, notevole sia sotto il profilo del disvalore sia sotto quello della "sintomaticità". L'art. 5 c.p. viola, dunque, anche il primo comma dell'art. 3 Cost.
Per quanto attiene alla violazione del secondo comma dell'articolo ora citato va ribadito che il non poter addurre a scusa dell'ignoranza della legge penale l'obiettiva o la subiettiva (nei limiti anzidetti) impossibilità di conoscere la stessa legge equivale a far ricadere sul singolo tutte le colpe della predetta ignoranza. Ben è, invece, almeno possibile, come s'è già sottolineato, che lo Stato non abbia reso obiettivamente riconoscibili (o "prevedibili") alcune leggi; oppure che, malgrado ogni positiva predisposizione di determinanti soggetti all'adempimento dei predetti doveri strumentali d'informazione ecc., l'ignoranza della legge penale sia dovuta alla mancata rimozione degli "ostacoli" di cui al secondo comma dell'art. 3 Cost.
25. - In conclusione: oltre agli specifici articoli della Costituzione indicati in precedenza, l'art. 5 c.p., nell'interpretazione che del medesimo danno una parte della dottrina e soprattutto la giurisprudenza, viola, come s'è sottolineato più volte, lo spirito stesso dell'intera Carta fondamentale ed i suoi essenziali princi'pi ispiratori. Far sorgere l'obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell'agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell'illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza all'ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati.
26. - Non resta che accennare ai criteri, ai parametri in base ai quali va stabilita l'inevitabilità dell'ignoranza della legge penale. È, invero, di gran rilievo impedire che, in fase applicativa, vengano a prodursi, insieme alla "vanificazione" delle risultanze qui acquisite, altre violazioni della Carta fondamentale.
È doveroso, per prima, chiarire che, ove una particolare conoscenza, da parte del soggetto agente, consenta al medesimo la possibilità di conoscere la legge penale, non è legittimo che lo stesso soggetto si giovi d'un (eventuale) errore generale, comune, sul divieto. Ciò va rilevato non perché si disconoscano i tentativi, per tanti aspetti meritevoli di considerazione, della dottrina mirati, attraverso l'oggettivazione, per quanto possibile, dei criteri di misura della colpevolezza, a sottolinearne l'aspetto, peraltro fondamentale, di garanzia delle libere scelte d'azione ma perché non è desumibile dalla Costituzione la legittimità d'una concezione della colpevolezza che consenta di non rimproverare il soggetto per il fatto commesso (ovviamente, in presenza dei prescritti elementi subiettivi) quando esista, in concreto, la possibilità, sia pur eccezionale (di fronte ad un generale, comune errore sul divieto) per il singolo agente di conoscere la legge penale e, pertanto, l'illiceità del fatto. Ammettere, allo stato attuale della normativa costituzionale ed ordinaria, il soggetto agente (che è in errore sull'illiceità del fatto per ignoranza della legge penale, pur essendo in grado di conoscere quest'ultima e di non errare sulla predetta illiceità) a giovarsi del comune errore sul divieto, determinato dall'altrui, generale, inevitabile ignoranza della legge penale, val quanto riconoscere all'errore comune sul divieto penale il valore di consuetudine abrogatrice di incriminazioni penali.
27. - Da quanto innanzi osservato discende, in via generale, che l'inevitabilità dell'errore sul divieto (e, conseguentemente, l'esclusione della colpevolezza) non va misurata alla stregua di criteri c.d. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i dati influenti sulla conoscenza del precetto esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche personali dell'agente) bensì secondo criteri oggettivi: ed anzitutto in base a criteri (c.d. oggettivi puri) secondo i quali l'errore sul precetto è inevitabile nei casi d'impossibilità di conoscenza della legge penale da parte d'ogni consociato. Tali casi attengono, per lo più, alla (oggettiva) mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo legislativo) oppure ad un gravemente caotico (la misura di tale gravità va apprezzata anche in relazione ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari ecc. La spersonalizzazione che un giudizio formulato alla stregua di criteri oggettivi puri necessariamente comporta va, tuttavia, compensata, secondo quanto innanzi avvertito, dall'esame di eventuali, particolari conoscenze ed "abilità" possedute dal singolo agente: queste ultime, consentendo all'autore del reato di cogliere i contenuti ed il significato determinativo della legge penale escludono che l'ignoranza della legge penale vada qualificata come inevitabile.
Ed anche quando, sempre allo scopo di stabilire l'inevitabilità dell'errore sul divieto, ci si valga di "altri" criteri (c.d. "misti") secondo i quali la predetta inevitabilità può esser determinata, fra l'altro, da particolari, positive, circostanze di fatto in cui s'è formata la deliberazione criminosa (es. "assicurazioni erronee" di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare; precedenti, varie assoluzioni dell'agente per lo stesso fatto ecc.) occorre tener conto della "generalizzazione" dell'errore nel senso che qualunque consociato, in via di massima (salvo quanto aggiungiamo subito) sarebbe caduto nell'errore sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari condizioni dell'agente; ma, ancora una volta, la spersonalizzazione del giudizio va compensata dall'indagine attinente alla particolare posizione del singolo agente che, in generale, ma soprattutto quando eventualmente possegga specifiche "cognizioni" (ad es. conosca o sia in grado di conoscere l'origine lassistica o compiacente di assicurazioni di organi anche ufficiali ecc.) è tenuto a "controllare" le informazioni ricevute. Il fondamento costituzionale della "scusa" dell'inevitabile ignoranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d'inferiorità e non può certo esser strumentalizzata per coprire omissioni di controllo, indifferenze, ecc., di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali.
28. - La casistica relativa all'"inevitabilità" dell'errore sul divieto va conclusa con alcune precisazioni.
È stato, in dottrina, osservato che, realisticamente, l'ipotesi d'un soggetto, sano e maturo di mente, che commetta un fatto criminoso ignorandone l'antigiuridicità è concepibile soltanto quando si tratti di reati che, pur presentando un generico disvalore sociale, non sono sempre e dovunque previsti come illeciti penali ovvero di reati che non presentino neppure un generico disvalore sociale (es. violazione di alcune norme fiscali ecc.). E, in relazione a queste categorie di reati, sono state opportunamente prospettate due ipotesi: quella in cui il soggetto effettivamente si rappresenti la possibilità che il suo fatto sia antigiuridico e quella in cui l'agente neppure si rappresenti tale possibilità.
Or qui occorre precisare che, mentre nella prima ipotesi, esistendo, in concreto (ben più della possibilità di conoscenza dell'illiceità del fatto) l'effettiva previsione di tale possibilità, non può ravvisarsi ignoranza inevitabile della legge penale (essendo il soggetto obbligato a risolvere l'eventuale dubbio attraverso l'esatta e completa conoscenza della (singola) legge penale o, nel caso di soggettiva invincibilità del dubbio, ad astenersi dall'azione (il dubbio oggettivamente irrisolvibile, che esclude la rimproverabilità sia dell'azione sia dell'astensione è soltanto quello in cui, agendo o non agendo, s'incorre, ugualmente, nella sanzione penale); la seconda ipotesi comporta, da parte del giudice, un'attenta valutazione delle ragioni per le quali l'agente, che ignora la legge penale, non s'è neppure prospettato un dubbio sull'illiceità del fatto. Or se l'assenza di tale dubbio discende, principalmente, dalla personale non colpevole carenza di socializzazione dell'agente, l'ignoranza della legge penale va, di regola, ritenuta inevitabile.
Inevitabile si palesa anche l'errore sul divieto nell'ipotesi in cui, in relazione a reati sforniti di disvalore sociale è, per l'agente, socializzato oppur no, oggettivamente imprevedibile l'illiceità del fatto. Tuttavia, ove (a parte i casi di carente socializzazione dell'agente) la mancata previsione dell'illiceità del fatto derivi dalla violazione degli obblighi d'informazione giuridica, che sono, come s'è avvertito, alla base d'ogni convivenza civile deve ritenersi che l'agente versi in evitabile e, pertanto, rimproverabile ignoranza della legge penale.
Come in evitabile, rimproverabile ignoranza della legge penale versa chi, professionalmente inserito in un determinato campo d'attività, non s'informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso campo.
La casistica non può esser qui approfondita: basta aver indicato che (alla luce del fondamento costituzionale della scusa dell'inevitabile ignoranza della legge penale) allo scopo di verificare, in concreto, tale inevitabilità, da un canto è necessario (per garantire la certezza della libertà d'azione del cittadino) far riferimento a criteri oggettivi c.d. "puri" e "misti" e dall'altro canto è doveroso recuperare la spersonalizzazione, causata dall'uso preponderante di tali criteri, con l'esame delle particolari situazioni in cui eventualmente versi il singolo soggetto agente. La giurisprudenza va, infine, rinviata, nell'interpretazione ed applicazione del nuovo testo dell'art. 5 c.p. ai criteri generali che, in tema di responsabilità a titolo di colpa e di buona fede nelle contravvenzioni, la stessa giurisprudenza è andata via via adottando.
Il nuovo testo dell'art. 5 c.p., derivante dalla parziale incostituzionalità dello stesso articolo che qui si va a dichiarare, risulta così formulato: "L'ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile".
29. - Non resta che sottolineare che spetta al legislatore (oltre all'eventuale emanazione di norme "di raccordo") stabilire se l'ignoranza evitabile della legge penale meriti un'attenuazione di pena, come per gli ordinamenti tedesco occidentale ed austriaco, oppure se il sistema dell'ignoranza della legge penale debba restare quello risultante a seguito della qui dichiarata parziale illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p.
Ogni altra questione sollevata dalle ordinanze di rimessione rimane assorbita dalla predetta illegittimità costituzionale;
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 1988.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: DELL'ANDRO
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 24 marzo 1988
Il direttore della cancelleria: MINELLI