SENTENZA N. 23
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA
”
- Daria de PRETIS
”
- Nicolò ZANON
”
- Franco MODUGNO
”
- Augusto
Antonio BARBERA
”
- Giulio PROSPERETTI
”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 73, comma 5, del
decreto
del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi
in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), come
sostituito dall’art. 1, comma 24-ter,
lettera a), del decreto-legge
20 marzo 2014, n. 36 (Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei
relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego di medicinali),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 16 maggio
2014, n. 79, promosso dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria
nel procedimento penale a carico di A. F. con ordinanza
del 5 febbraio 2015, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2015 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie
speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 13 gennaio 2016
il Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 5 febbraio 2015 (reg. ord. n. 113
del 2015), notificata il successivo 16 febbraio, il Tribunale per i minorenni
di Reggio Calabria ha sollevato – in riferimento agli
artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione alla decisione
quadro del Consiglio dell’Unione europea del 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI
riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi
dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di
stupefacenti e all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007 – questione di legittimità costituzionale
dell’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre
1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), come sostituito
dall’art. 1, comma 24-ter, lettera a), del decreto-legge 20 marzo 2014, n.
36 (Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre
1990, n. 309, nonché di impiego di medicinali), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 16 maggio 2014, n. 79.
In particolare, il rimettente ha
precisato che pende dinanzi a sé il giudizio penale a carico di A.F., minore
d’età al momento del fatto, imputato di concorso nella coltivazione di 15
piante di marijuana, nonché nell’illecita detenzione di grammi 358,900 della stessa
sostanza, contestato come accertato il 7 luglio 2010. Il Tribunale ha, quindi,
premesso che sia il pubblico ministero, sia il difensore dell’imputato hanno
eccepito l’illegittimità costituzionale del citato art. 73, comma 5, del d.P.R.
n. 309 del 1990, nella parte in cui non prevede un trattamento sanzionatorio
differenziato per le diverse sostanze previste, rispettivamente, nelle Tabelle
I e II del medesimo decreto.
1.1.– In punto di rilevanza ha osservato che
il testo normativo censurato deve ritenersi applicabile alla specie in quanto
complessivamente più favorevole all’imputato ai sensi dell’art. 2 del codice
penale.
Più precisamente ha osservato che, con
la sentenza
della Corte costituzionale n. 32 del 2014, è stata dichiarata
l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure
urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi
invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno.
Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche
al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e
sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre
1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge
21 febbraio 2006, n. 49, per violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.
La predetta dichiarazione di illegittimità
costituzionale avrebbe determinato la ripresa di vigore dell’art. 73 del d.P.R.
n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalle
disposizioni dichiarate illegittime, dunque nel testo risultante dal d.P.R. 5
giugno 1993, n. 171 (Abrogazione parziale, a seguito
di referendum popolare, del testo unico delle leggi in materia di disciplina
degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione
dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), che distingue il trattamento
sanzionatorio a seconda che si tratti di sostanze incluse nella Tabella I o II
del decreto. Tuttavia, il comma 5 del medesimo art. 73, era stato
successivamente modificato: dapprima dal decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146
(Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di
riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n. 10, e,
poi, dal citato d.l. n. 36 del 2014, come convertito dalla l. n. 79 del 2014,
che prevedono un trattamento sanzionatorio indifferenziato rispetto alla natura
della sostanza stupefacente.
Ad avviso del rimettente, avuto riguardo al tempo in
cui fu commesso il delitto e tenuto conto del fatto che in concreto il
trattamento sanzionatorio risultante dalla l. n. 79 del 2014 è più favorevole –
visto che detta legge ha altresì mantenuto la diminuente per la minore età e
limiti edittali tali da non consentire l’applicazione della custodia cautelare
in carcere – il testo dell’art. 73, comma 5, risultante dalle modifiche
stabilite da quest’ultima legge, doveva ritenersi applicabile ai sensi
dell’art. 2 cod. pen.
Da qui il rimettente ha dedotto la rilevanza della
questione, ritenendo che, nella specie, fosse configurabile la lieve entità del
fatto e che la decisione non potesse, perciò, prescindere dalla soluzione della
questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata, che
doveva essere applicata al caso in esame.
1.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il
rimettente ha rilevato che la disciplina oggetto di censura violerebbe, in
primo luogo, il principio di ragionevolezza: vigerebbe, infatti, un trattamento
sanzionatorio differenziato a seconda delle sostanze per le ipotesi di non
lieve entità, mentre analoga proporzione non sarebbe rispettata nell’ipotesi di
lieve entità del fatto, così determinando una irragionevole asimmetria punitiva.
Alla predetta «irragionevolezza estrinseca» si
aggiungerebbe la «disomogeneità intrinseca» del disvalore del reato, non
potendosi ritenere che il fatto di lieve entità commesso con cosiddette “droghe
pesanti” sia parificabile a quello commesso con cosiddette “droghe leggere”,
stante il «diverso spessore dell’interesse tutelato». Ciò determinerebbe,
secondo il Tribunale, anche una violazione del principio di uguaglianza formale
e sostanziale, ex art. 3 Cost.
Inoltre, il rimettente non ritiene condivisibile
l’orientamento giurisprudenziale – espresso, ad esempio, dalla Corte di
cassazione, sezione quarta penale, nella sentenza 5 marzo 2014, n. 10514 –
secondo cui la scelta legislativa sarebbe ragionevole, in quanto, di fronte a
specifiche modalità del fatto (tali da connotarlo come di lieve entità), il
dato della diversa natura della sostanza stupefacente oggetto delle condotte
sarebbe comunque suscettibile di valutazione da parte del giudice nella
determinazione discrezionale della pena da infliggere. Ad avviso del giudice a quo, infatti, la risoluzione del
problema della coerenza intrinseca di una norma complessa, qual è l’art. 73
citato, non può essere affidata soltanto alla discrezionalità del giudice.
1.3.– Secondo il Tribunale, inoltre, sarebbe violato l’art.
27, terzo comma, Cost., in quanto la previsione di una sanzione unica per
condotte diverse non garantirebbe la finalità rieducativa della pena, né
sarebbe conforme al principio di proporzionalità codificato all’art. 49, comma
3 (rectius:
paragrafo 3), della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tale
violazione si appalesa in modo più grave nel caso dei minorenni, per i quali le
sanzioni previste potrebbero oggettivamente precludere benefici – quali la
sospensione condizionale della pena, il perdono giudiziale o l’applicazione di
sanzioni sostitutive ex art. 30 del
d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle
disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) – finalizzati
a non interrompere i processi educativi in corso e a favorire la rapida uscita
dal circuito criminale.
1.4.– Ad avviso del rimettente, infine, si
prospetterebbe anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per
mancata attuazione della citata decisione
quadro del Consiglio dell’Unione europea del 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI,
anche in riferimento all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea.
In particolare, il Tribunale ha osservato che l’art.
4 della citata decisione quadro richiede la previsione, in materia di illeciti
concernenti gli stupefacenti, di pene detentive effettive, proporzionate e
dissuasive, rimarcando il canone della proporzionalità sin dal «considerando»
n. 5 premesso al testo normativo e stabilendo che, per i reati minori, siano previste
«pene detentive della durata massima compresa tra almeno 1 e 3 anni».
Posto che l’art. 73, comma 5, nel testo impugnato,
indica un intervallo edittale di pena compreso tra i sei mesi e i quattro anni
di reclusione, esso violerebbe il citato art. 4 della citata decisione quadro,
sia nei limiti massimi (quattro anni, anziché tre), sia nei minimi (sei mesi
anziché un anno), «qualora l’avverbio “almeno” dovesse ritenersi applicabile
solo al primo termine edittale».
Le disposizioni comunitarie in parola, in quanto non
dotate di diretta efficacia, costituirebbero perciò norme interposte rispetto
al parametro costituzionale rappresentato dall’art. 117, primo comma, Cost., così che la violazione delle medesime si tradurrebbe
in violazione di quest’ultimo.
Rispetto al medesimo parametro costituzionale si
porrebbe anche la violazione del canone di proporzionalità indicato nell’art.
49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
atteso anche il riferimento, nella decisione quadro, ad una differenziazione
delle sanzioni in relazione al diverso grado di pericolosità per la salute
delle varie sostanze stupefacenti.
La circostanza che lo Stato sia inadempiente
rispetto alla citata normativa comunitaria, si ricaverebbe anche dalla
relazione della Commissione delle Comunità europee COM(2009)669 del 10 dicembre
2009, in cui si stigmatizza il mancato invio da parte dell’Italia delle
informazioni obbligatorie sull’attuazione della decisione quadro.
Ad avviso del rimettente, occorrerebbe perciò che l’impugnato
art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 venga dichiarato illegittimo
«nella parte in cui non prevede un regime sanzionatorio differenziato in
relazione alla tipologia e classificazione tabellare della sostanza
stupefacente, conformemente ai parametri anche edittali di cui all’art. 4 della
decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio dell’Unione Europea del 25 ottobre
2004».
1.5.– In conclusione, il rimettente ritiene che la
normativa censurata di cui all’art. 73, comma 5, sia illegittima per violazione
degli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost. «nella parte in cui
1) non distingue – nel trattamento sanzionatorio – tra fatti di lieve entità
aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I e
fatti di lieve entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope
appartenenti alla differente tabella II dell’art. 14 del D.P.R. 309/90; 2) non
prevede dei limiti di pena differenziati e conformi ai parametri di cui
all’art. 4 della Decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio […] e all’art. 49,
3° paragrafo, Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE».
2.– Con atto depositato il 7 luglio 2015, è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, assistito e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
non fondata.
Il Governo contesta l’asserita
irragionevolezza della normativa che, per i fatti di lieve entità, ha mantenuto
un’unica cornice edittale, indipendentemente dalla natura della sostanza. Ciò
in quanto la differente natura degli stupefacenti può essere valorizzata dal
giudice in sede di determinazione della pena, considerato anche che risulta
ripristinata l’originaria distanza edittale, che l’ordinamento prevedeva
rispetto alle pene previste per i fatti non lievi, prima dell’entrata in vigore
della cosiddetta legge “Fini-Giovanardi” (cioè il d.l. n. 272 del 2005, come convertito
dalla l. n. 49 del 2006).
La ragionevolezza della disciplina –
riconosciuta anche dalla Corte di cassazione – escluderebbe di conseguenza
anche la denunciata violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost.
Parimenti infondata sarebbe
la censura relativa all’art. 117, primo comma, Cost., in quanto – come pure
riconosciuto dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, con la sentenza
29 aprile 2013, n. 18804 – la norma interposta (art. 4 della citata decisione quadro n. 2004/757/GAI del Consiglio
dell’Unione europea) non impone affatto che i legislatori nazionali prevedano
un trattamento differenziato in base alla natura delle sostanze stupefacenti,
ma solo che i massimi edittali non scendano sotto determinate soglie di pena.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 5 febbraio 2015 (reg. ord. n. 113
del 2015), notificata il successivo 16 febbraio, il Tribunale per i minorenni
di Reggio Calabria ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 5, del decreto del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo
unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza), come sostituito dall’art. 1, comma 24-ter, lettera a), del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36 (Disposizioni urgenti in
materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di
impiego di medicinali), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 16 maggio 2014, n. 79.
In particolare, il rimettente ritiene che la
disposizione censurata violi gli artt. 3, 27, primo comma e 117, primo comma,
della Costituzione. L’art. 3 Cost. sarebbe violato sotto un duplice profilo: anzitutto
per «irragionevolezza estrinseca», in quanto il
medesimo testo legislativo prevede un trattamento sanzionatorio
differenziato a seconda della natura delle sostanze solo per le ipotesi di non
lieve entità, mentre, per le ipotesi di lieve entità, individua un unico
intervallo edittale, senza distinguere tra droghe leggere e droghe pesanti;
inoltre, la previsione impugnata sarebbe anche viziata da «disomogeneità
intrinseca», a causa della irragionevole parificazione, pur in presenza di un
«diverso spessore dell’interesse tutelato», dei fatti aventi per oggetto le
sostanze di cui alla Tabella I rispetto a quelli aventi per oggetto le sostanze
di cui alla Tabella II di cui al medesimo d.P.R. n. 309 del 1990. Sarebbe poi violato l’art. 27, primo comma, Cost., in quanto la previsione di un trattamento
sanzionatorio irragionevole e sproporzionato comprometterebbe la finalità
rieducativa della pena. Infine, la disposizione impugnata contrasterebbe con
l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto non sarebbero previsti limiti di pena
conformi ai parametri edittali di cui all’art. 4 della decisione quadro del
Consiglio dell’Unione europea del 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI riguardante
la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle
sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti e all’art.
49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre
2007.
Sulla scorta di tali considerazioni il rimettente ha
chiesto che la Corte dichiari l’illegittimità dell’impugnato art. 73, comma 5,
del d.P.R. n. 309 del 1990 «nella parte in cui 1) non distingue – nel
trattamento sanzionatorio – tra fatti di lieve entità aventi ad oggetto
sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I e fatti di lieve
entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope appartenenti alla
differente tabella II dell’art. 14 del D.P.R. 309/90; 2) non prevede dei limiti
di pena differenziati e conformi ai parametri di cui all’art. 4 della Decisione
quadro 2004/757/GAI del Consiglio […] e all’art. 49, 3° paragrafo, Carta dei
Diritti Fondamentali dell’UE».
2.– La questione sollevata deve essere dichiarata
inammissibile, in quanto si chiede alla Corte un intervento additivo in materia
penale, in assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate.
2.1.– La
giurisprudenza di questa Corte, infatti, è costante nel ritenere inammissibili
questioni formulate con un petitum che «[…] per la ampiezza della sua portata additiva
[…] non si configura come unica soluzione
costituzionalmente obbligata (sentenze, n. 81 e n. 30 del 2014)
», (sentenza n.
241 del 2014), in particolare quando «il petitum formulato si connota per un cospicuo tasso di
manipolatività, derivante anche dalla “natura creativa” e “non costituzionalmente
obbligata” della soluzione evocata (sentenze
n. 241,
n. 81 e n. 30 del 2014;
ordinanza n. 190
del 2013)», (sentenza
n. 241 del 2014), tanto più in materie rispetto alle quali è stata
riconosciuta ampia discrezionalità del legislatore (sentenza n. 277 del
2014).
2.2.– Nella specie è fuor di dubbio che si rientri
in una materia rispetto alla quale deve riconoscersi un ampio margine di libera
determinazione al legislatore, posto che si chiede alla Corte di intervenire
sulla configurazione del trattamento sanzionatorio di condotte individuate come
punibili (ex plurimis,
sentenze n. 185
del 2015; n. 68 del 2012,
n. 47 del 2010,
n. 161 del 2009,
n. 22 del 2007
e n. 394 del
2006).
2.3.– Tale conclusione è altresì
avvalorata dalla considerazione che, a seguito delle recenti modifiche
normative e in base al «diritto vivente» consolidatosi su di esse (sentenze della Corte di cassazione, sezione sesta penale,
27 gennaio 2015, n. 15642, sezione quarta penale, 24 ottobre 2014, n. 49754,
sezione sesta penale, 8 gennaio 2014, n. 14288, sezione quarta penale, 9
gennaio 2014, n. 7363, sezione quarta penale, 28 febbraio 2014, n. 10514,
sezione quarta penale, 28 febbraio 2014, n. 13903), il fatto di lieve
entità di cui al testo censurato dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del
1990 costituisce una fattispecie autonoma di reato, e non più una circostanza
attenuante del fatto non lieve, come si riteneva nel vigore del testo
previgente alle modifiche introdotte dapprima
dall’art. 2, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei
diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione
carceraria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge
21 febbraio 2014, n. 10, e, poi, dal citato art. 1, comma 24-ter, lettera a), del d.l. n. 36 del 2014, come convertito dalla l. n. 79 del
2014.
Pertanto, in considerazione della autonomia
della fattispecie qui in esame affermatasi nell’evoluzione legislativa e
giurisprudenziale, non sussiste più alcuna esigenza di mantenere una simmetria
sanzionatoria tra fatti di lieve entità e quelli non lievi. Anche sotto questo
profilo, dunque, non vi è ragione di ritenere che il legislatore sia vincolato
a configurare intervalli edittali differenziati a seconda della natura della
sostanza, nel caso di reati di lieve entità.
2.4.– Quanto alla misura della pena, il rimettente si limita ad affermare la
necessità di una differenziazione dell’intervallo edittale, senza però indicare
quale sarebbe quella costituzionalmente obbligata.
Nessun elemento può ricavarsi, in proposito,
dall’invocato art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, che si limita a codificare il principio di proporzionalità della pena,
il quale – al pari del principio di ragionevolezza, che nella giurisprudenza
costituzionale è spesso richiamato unitamente ad esso – non permette a questa
Corte di determinare autonomamente la misura della pena, ma semmai di emendare
le scelte del legislatore in riferimento a grandezze già rinvenibili
nell’ordinamento.
Il
sindacato di legittimità costituzionale, infatti, «può investire le pene scelte
dal legislatore solo se si appalesi una evidente violazione del canone della
ragionevolezza, in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato
sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio (ex plurimis, tra le pronunce
più recenti, sentenze n. 325 del 2005,
n. 364 del 2004;
ordinanza n. 158
del 2004). Se non si riscontra una sostanziale identità tra le fattispecie
prese in considerazione, e si rileva invece […] una sproporzione sanzionatoria
rispetto a condotte più gravi, un eventuale intervento di riequilibrio di
questa Corte non potrebbe in alcun modo rimodulare le sanzioni previste dalla
legge, senza sostituire la propria valutazione a quella che spetta al
legislatore» (sentenza
n. 22 del 2007). Infatti, in materia di pene, anche nel giudizio di
“ragionevolezza intrinseca”, focalizzato sul principio di proporzionalità, è
fondamentale l’individuazione di un parametro che consenta di rinvenire la
soluzione costituzionalmente obbligata (come avvenuto, ad esempio, nella sentenza n. 341 del
1994, nella quale la Corte, dichiarando l’illegittimità costituzionale
della pena edittale minima del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale,
prevista dall’art. 341, primo comma, cod. pen., nel
testo all’epoca vigente, si giovò della comparazione con la fattispecie affine
dell’ingiuria).
A maggior ragione, poi, questa Corte non potrebbe
sostituirsi al legislatore, in nome del principio di ragionevolezza e proporzionalità
della pena, a fronte di disposizioni che – come quella in giudizio – lasciano
al giudice un margine di valutazione sufficientemente ampio da permettergli di
graduare proporzionalmente la pena anche in ragione della natura della
sostanza.
Va ricordato, infatti, che «al legislatore è consentito
includere in uno stesso paradigma punitivo una pluralità di fattispecie diverse
per struttura e disvalore, spettando, in tali casi, al giudice far emergere la
differenza tra le varie condotte tramite la graduazione della pena tra il
minimo e il massimo edittale (ex plurimis, sentenze n. 250 e n. 47 del 2010;
ordinanze n. 213
del 2000 e n.
145 del 1998)» (ordinanza n. 224
del 2011).
2.5.– Né è di maggiore ausilio l’art. 4 della citata
decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea n. 2004/757/GAI, pure
richiamata quale parametro interposto.
Quest’ultima disposizione, infatti, lungi dal
determinare precisi intervalli di pena per le diverse ipotesi di reato in tema
di stupefacenti, si limita ad esigere che il legislatore nazionale fissi i
massimi edittali al di sopra di determinate soglie minime, derogabili solo in pejus,
secondo il cosiddetto «principio del minimo del massimo». Nessuna indicazione
può, dunque, evincersi dalla disposizione europea richiamata, ai fini della
differenziazione – richiesta dal rimettente – del trattamento sanzionatorio dei
fatti di lieve entità, in base al tipo di sostanza implicata.
In assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate
o imposte dal rispetto degli obblighi comunitari, l’intervento creativo
sollecitato a questa Corte interferirebbe indebitamente nella sfera delle
scelte di politica sanzionatoria riservate al legislatore, in spregio al
principio della separazione dei poteri.
2.6.– D’altro canto, è del tutto evidente che il vulnus
costituzionale lamentato dal rimettente non sarebbe rimediabile con una mera
dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 5, del d.P.R.
n. 309 del 1990, il cui unico effetto sarebbe quello di eliminare del tutto
l’ipotesi di lieve entità.
A differenza della questione decisa da questa Corte
con la sentenza n.
32 del 2014, infatti, nel presente giudizio non
viene lamentato un vizio procedurale della legge, sicché deve escludersi, in
questo caso, ogni «reviviscenza» (rectius: «ripresa di applicazione») delle disposizioni
precedenti, che possa colmare il vuoto determinato da una eventuale pronuncia
meramente ablativa della Corte costituzionale.
È appena il caso di aggiungere che una pronuncia
meramente ablativa non è nemmeno oggetto della questione proposta dal rimettente,
posto che una tale decisione accentuerebbe i vizi denunciati, determinando una
irragionevole e sproporzionata parificazione tra fatti lievi e non lievi.
La richiesta rivolta a questa Corte mira, invece, ad
ottenere un intervento additivo e manipolativo, per la riconfigurazione del
sistema sanzionatorio dei fatti di lieve entità; richiesta che, per i motivi
sopra esposti, esorbita dai poteri spettanti al giudice delle leggi, tanto più
che la novella ha lasciato ragionevoli spazi di discrezionalità al giudice per
tradurre in pene minori, nell’ambito di un medesimo intervallo edittale, la
minore gravità del fatto di lieve entità quale risulti anche dalla natura della
sostanza.
F.to:
Alessandro
CRISCUOLO, Presidente
Marta
CARTABIA, Redattore
Gabriella
Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria l'11 febbraio 2016.