Giovanna Del Giudice, Peppe Dell’Acqua e Michela Rondi (a cura di)

OPG – Leggi, norme e pratiche

 

In occasione del sesto Forum nazionale della Salute Mentale Strategie per la chiusura dell’ospedale psichiatrico giudiziario: il ruolo dei dipartimenti di salute mentale che si tiene ad Aversa  il 14 e 15 gennaio 2011, riteniamo utile raccogliere materiali informativi – non certamente esaustivi – con la principale documentazione normativa relativa all’Opg insieme a relazioni ministeriali e ricordare alcuni accadimenti relativi al tema.

La questione dell’Opg, come la questione dell’internamento e delle limitazioni delle libertà personali. sono per le donne e gli uomini aderenti al Forum Salute Mentale  temi prioritari, di grande valore etico e responsabilità civile e professionale, su cui abbiamo concentrato un significativo impegno teorico e pratico. Il numero delle persone internate in Opg da un territorio determinato, come in generale il numero delle persone istituzionalizzate, le porte chiuse dei servizi, il legare e le altre limitazioni delle libertà personale, sono considerati fra i determinanti e gli indicatori fondamentali della qualità dell’assistenza nei servizi di salute mentale e del paradigma fondante le pratiche in un dipartimento.

Nel documento fondativo del Forum dell’ottobre del 2003, tra l’altro, scrivevamo:

 “Riteniamo inutile ribadire in questa sede l’assurdità e la violenza dell’OPG.  Non è possibile un OPG “migliore”,  l’OPG va definitivamente superato.

Esiste un grande margine di azione da parte degli operatori/trici dei Dipartimenti di Salute Mentale sia per una presa in carico dell’utente che ha commesso reato per evitare l’invio in OPG, sia per la dimissione degli attuali internati/e negli OPG attraverso specifici  progetti individuali di deistituzionalizzazione.

Riteniamo oggi di poter dire che gli OPG permangono principalmente per le responsabilità dei DSM. La questione dell’OPG necessita di essere significativamente affrontata da parte dei DSM attraverso la presa in carico dei loro pazienti internati, da primo affrontando le situazioni più immediate e possibili. (già il Ministero di Grazia e Giustizia afferma che il 20% dei ricoverati siano  internati per reati minori e con indice di pericolosità del tutto “evanescente”) e insieme impedendo nuove ammissioni e bloccando il flusso di invio dal carcere.

Una azione importante di erosione dell’OPG, di significativa diminuzione del numero degli/lle internati potrà forse mettere l’attenzione sulla necessità della chiusura dello stesso (come già è avvenuto per l’ospedale psichiatrico) attraverso misure “speciali”, in quanto fortemente individualizzate, per chi rimane.”

I cittadini con disturbo mentale che commettono reato

Se una persona con disturbo mentale è accusata di aver commesso un delitto, è soggetta come tutti gli altri cittadini alle indagini, al processo e alle eventuali sanzioni previste dal Codice Penale. Tuttavia in quasi tutto il mondo si ritiene che gran parte dei reati commessi dalle persone con disturbo mentale sono influenzati da questa condizione e di conseguenza possono determinare particolari percorsi processuali.

In Italia, come quasi dappertutto, chiunque commetta un reato è responsabile e dunque punibile se è in possesso della propria capacità di intendere e di volere. Ma nel caso di disturbo mentale, cioè di infermità di mente, come recita il Codice, questa capacità può risultare parzialmente o totalmente assente. Nel codice Zanardelli del 1860 il malato di mente autore di reato era riconosciuto  non imputabile per vizio totale di mente e quindi prosciolto. I malati di mente venivano ricoverati negli ospedali psichiatrici civili.

I primi Ospedali psichiatrici giudiziari vengono costituiti dalla fine 800, in epoca lombrosiana,  per i detenuti impazziti nel carcere, i rei folli, e per alcuni folli  rei che suscitavano particolare allarme.

Il codice Rocco del 1930 definisce l’imputabilità ed  introduce le  misure di sicurezza.

Molto in breve, in caso di reato, se vi sia sospetto di malattia mentale, il giudice ordina una perizia psichiatrica e avvia un percorso che si può così sintetizzare:

- reato apparentemente incongruo – sospetto di malattia mentale – perizia psichiatrica – infermità di mente – incapacità di intendere e di volere – non imputabilità – proscioglimento[1] – pericolosità sociale – Ospedale Psichiatrico Giudiziario.

Il Codice Penale definisce negli articoli 88 e 89 la questione dell’imputabilità in rapporto all’infermità mentale. Ogni volta che un cittadino affetto da un disturbo mentale è accusato di aver commesso un reato si può procedere a perizia psichiatrica e il perito deve rispondere alle domande del giudice che in genere vengono così formulate:

«Dica il perito se al momento in cui commise i fatti, l’imputato si trovasse in stato di infermità mentale tale da escludere o da scemare grandemente le sue capacità di intendere e di volere; quale sia la sua attuale condizione mentale; se sia persona socialmente pericolosa».

Il perito dovrebbe riferirsi non a principi astratti, ma a quella persona, a quel contesto, esprimendo il proprio parere rispetto a quel disturbo mentale, prescindendo dalle precedenti diagnosi, dalle cure fatte o ancora in corso.

L’esito della perizia può essere:

  • assenza di infermità mentale. In questo caso la persona viene sottoposta a giudizio e il processo avrà il suo normale corso;
  • presenza di infermità mentale. In questo caso si possono verificare due condizioni tra loro alternative:
  1. l’infermità è tale da escludere totalmente la capacità di intendere e di volere (vizio totale di mente/incapacità totale);
  2. l’infermità è tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere (vizio parziale di mente o seminfermità/capacità ridotta).

Nel caso della totale incapacità, il giudice stabilisce che la persona non è imputabile e dunque la proscioglie perché non è possibile riconoscere la responsabilità personale, dunque non c’è stata una colpa soggettiva. E la malattia diventa il vero colpevole. Il Codice dunque stabilisce che il disturbo mentale ha condizionato e sovradeterminato il comportamento della persona e gli atti criminosi conseguenti.

In questo caso, se la perizia riconosce la pericolosità sociale, viene attivata la misura di sicurezza e la persona viene inviata all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) per due, cinque o dieci anni, in rapporto alla gravità e all’efferatezza del reato.

Diverso è il caso della seminfermità mentale: la capacità di intendere e di volere, per quanto ridotta, sussiste. La persona perciò è imputabile e viene sottoposta al processo. In caso di condanna vi sarà la diminuzione di un terzo della pena. Se riconosciuta anche socialmente pericolosa la persona verrà inviata in OPG solo dopo aver scontato la pena detentiva in carcere.

In Italia esistono 6 OPG, comunemente chiamati manicomi criminali. Montelupo Fiorentino che contiene più di 200 persone, mentre la sua capienza massima è di 188. Aversa, in provincia di Caserta, che ne contiene più di 200 sulle 150 previste. Napoli più di 150 su 150. Reggio Emilia più di 200 su una capienza di 190. Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, più di 200 su 194 posti. L’unico ad avere anche un reparto femminile è quello di Castiglione delle Stiviere, Mantova, che contiene circa 200 persone, delle quali meno di 100 sono donne.

In totale, alla fine del 2009, gli OPG avevano circa 1300 internati.

Queste istituzioni sono rimaste sostanzialmente estranee e impermeabili alla cultura psichiatrica riformata, e il meccanismo di internamento non è stato influenzato dalla legge 180. Molti giuristi, psichiatri, politici, opinionisti e cittadini attivi nelle associazioni riconoscono che la persistenza dell’OPG e delle stesse procedure per accedervi sono incostituzionali.

Nel 1982 la sentenza della Corte Costituzionale n. 139 stabilisce che la pericolosità sociale non può essere definita una volta per tutte, come se fosse un attributo naturale di quella persona e di quella malattia. Deve essere invece relativizzata, ovvero messa in relazione ai contesti, alla presenza di opportunità di cure e di emancipazione relative alla disponibilità di risorse e di servizi. Deve dunque essere vista come una condizione transitoria. E di conseguenza anche le misure di sicurezza vanno di volta in volta riviste e aggiornate. Vale a dire che le persone benché prosciolte, se non riconosciute socialmente pericolose, possono venire dimesse prima del tempo o non essere ricoverate affatto in OPG.

Ancora più recentemente altre due sentenze della Corte Costituzionale (n. 253/2003 e n. 367/2004) hanno dichiarato incostituzionale la non applicazione delle misure alternative all’internamento in OPG per “assicurare adeguate cure all’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale”

rilevando che il ricovero in questo istituto costituisce una pesante disuguaglianza di trattamento rispetto a quanto la riforma sanitaria prevede. I giudici rilevano che l’internamento è dannoso per tutti e che le cure psichiatriche devono svolgersi in ambito territoriale. Di conseguenza anche per le persone prosciolte e ritenute socialmente pericolose, bisogna prevedere un programma terapeutico e l’esecuzione della misura di sicurezza in ambito territoriale. Queste sentenze richiamano a un’assunzione di responsabilità dei Dipartimenti di Salute Mentale. Essi devono articolare un programma terapeutico riabilitativo, anche persistendo alcune limitazioni della libertà dovute alla misura di sicurezza. Questo significa che, già da oggi, un oculato uso di risorse e opportunità legislative può evitare il ricorso all’internamento in OPG.

In ogni caso bisogna porre molta attenzione perché le indagini giudiziarie vengano svolte con la massima oculatezza e si faccia di tutto affinché la persona venga portata in giudizio, evitando frettolosi proscioglimenti e dannosi invii in OPG, sia in corso di perizia, sia in attesa di giudizio.

In questo senso si è espresso il nuovo Codice di Procedura Penale (CPP),  disponendo che le persone sospettate di reato, affette da disturbo mentale e soggette a custodia cautelare e che non possono avvalersi della libertà provvisoria e andare a giudizio «a piede libero», restino nel carcere del Tribunale competente per territorio. L’eventuale perizia deve svolgersi in carcere e non in OPG. Questa attenzione del nuovo CPP vuole evitare l’uso routinario e superficiale del manicomio giudiziario, un uso dannoso per la persona oltre che lesivo del suo diritto alla difesa. Tende invece a dare alle persone inferme di mente la possibilità di essere portate in giudizio, godendo in tal modo del diritto alla difesa come qualsiasi altro cittadino.

Se nel corso della custodia cautelare, nel carcere o agli arresti domiciliari, si manifesta una crisi o un bisogno di cure urgenti queste devono essere prestate dal locale Dipartimento di Salute Mentale e, se del caso, la persona deve essere ricoverata nel Servizio Psichiatrico Ospedaliero di Diagnosi e Cura, eventualmente piantonato. Oppure condotta agli arresti domiciliari presso un servizio territoriale aperto 24 ore. Mai inviata automaticamente all’OPG.

Tutti i detenuti e quindi anche quelli che soffrono di disturbi mentali, hanno dunque la possibilità di ricevere cure psichiatriche e psicologiche, oltre che mediche, sia dal personale del carcere che dai servizi territoriali di salute mentale.

Il decreto ministeriale 230/99 e in particolare il Progetto tutela salute mentale in ambito penitenziario dispone, nell’ottica dell’equità e del diritto alla cura, che i Dipartimenti di Salute Mentale operino anche all’interno delle carceri, con gli stessi obiettivi e con le stesse modalità utilizzate per tutti i cittadini di quel territorio. Tale decreto non ha  avuto una sua piena applicazione. Il 1 aprile 2008 viene promulgato il decreto del presidente del consiglio dei ministri che ha determinato il passaggio delle competenze sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse sanitarie e delle attrezzature e dei beni strumentali dalla sanità penitenziaria al sevizio sanitario nazionale. L’allegato C del decreto prevede le tappe per il superamento degli attuali OPG.

Nel corso degli ultimi anni sono state presentate alcune proposte di legge per l’abolizione degli OPG. Un’ipotesi è la loro regionalizzazione, col passaggio dall’amministrazione penitenziaria a quella sanitaria. In tal modo i 6 OPG verrebbero progressivamente chiusi. Una seconda ipotesi prevede l’abrogazione degli articoli 88 e 89 del Codice Penale e porta in giudizio tutti i cittadini accusati di aver commesso un reato, ancorché affetti da disturbi mentali. Verrebbero sottoposti a normale processo ed eventualmente condannati e la successiva erogazione ed espiazione della pena verrebbe modulata in rapporto alle condizioni di salute mentale di ognuno. A questo punto potrebbero essere attuati particolari programmi terapeutici e riabilitativi sia all’interno del carcere che in corso di misure alternative alla detenzione quali la semilibertà, gli arresti domiciliari, l’ospitalità presso comunità terapeutiche o Centri di Salute Mentale. Col vantaggio che i cittadini, anche se «folli», riacquistano in pieno i loro diritti, compreso quello, apparentemente paradossale, di essere condannati, di poter espiare la pena, intaccando la pesantezza dello stigma che vuole «il folle» sempre incapace e irresponsabile[2]

 

[1] Proscioglimento: è la sentenza emessa in fase istruttoria o dibattimentale in cui si dichiara di non doversi procedere nei confronti dell’imputato. Nel nostro caso questa sentenza è giustificata dall’infermità mentale riconosciuta e dalla conseguente incapacità.