Gianfranco Nuvoli [Francesco Bollorino - Franco Scarpa]

Sulla pericolosità sociale.. in margine al caso Gagliano

www.psychiatryonline.it/ 7 gennaio, 2014

Nota dell’Editor: La storia è nota: Bartolomeo Gagliano detenuto in scadenza di pena (tra circa sei mesi sarebbe stato rilasciato) del carcere genovese di Marassi il mese scorso non è rientrato dal permesso concessogli come altre volte per raggiungere Savona dove vive l’anziana madre. Dopo alcuni giorni il detenuto è stato ritrovato e arrestato a Mentone in Francia dove si era rifugiato.
Sulla vicenda si sono scatenate molte polemiche che hanno riguardato la concessione del permesso a una persona con precedenti di omicidio e di Ospedale Psichiatrico Giudiziario in correlazione con la potenziale pericolosità del Gagliano che per altro va ribadito sarebbe comunque uscito di prigione di qui a pochi mesi.
Tali polemiche hanno coinvolto pure la psichiatria nella misura in cui due Servizi erano coinvolti nell’assistenza al detenuto: quello di Genova che ha in carico il carcere e quello di Savona coinvolto per competenza territoriale.
L’amico e collega Vittorio Valenti, primario del DSM di Savona chiamato in causa per una mancata visita al Gagliano per la valutazione sulla possibilità di concedergli un permesso per il Natale, ha atteso la felice conclusione della vicenda per prendere una posizione ufficiale in merito al ruolo del suo DSM: “Noi siamo disponibili a rivalutare la situazione clinica di persone che ci vengono inviate dal magistrato, tuttavia riteniamo che i disturbi antisociali di personalità, ovvero gli psicopatici di una volta, coloro che fanno soffrire la società non sono trattabili dal punto di vista psichiatrico e non rispondono ad alcuna terapia farmacologica o psicologica.”, in un altro passo Valenti sottolinea: “Pensiamo che chiunque sappia che la decisione sui permessi di persone detenute sono di competenza del magistrato di sorveglianza e non degli operatori dei centri di salute mentale” e conclude: “Siamo inoltre preoccupati che ci possano essere affidate funzioni di controllo sulle modalità di comportamento di persone come quelle che abbiamo descritto, perché’ nessun provvedimento sanitario puo’ svolgere aioni di prevenzione efficace e soprattutto perché i nostri operatori rischiano di pagare un prezzo altissimo in termini di sicurezza”.

Ho chiesto a Gianfranco Nuvoli primario del DSM di Genova competente territorialmente per il carcere di Marassi, che ha seguito in carcere il protagonista della vicenda di intervenire su Psychiatry on line Italia con sue considerazioni ed ecco il suo contributo:

In merito all’evasione dal carcere di Marassi di un detenuto ritenuto pericoloso, alla grande attenzione mediatica ricevuta dal caso e a tutti gli svariati commenti (fatti a proposito e a sproposito) ascoltati in questi giorni, volevo proporre qualche riflessione.
Non voglio entrare nel merito della vicenda, credo però che sia utile ricordare a tutti che per esprimere giudizi su una questione tanto complessa e delicata bisognerebbe almeno conoscerla. In questi giorni ho sentito giudizi (di solito critici) sull’operato di medici e magistrati basati sull’ignoranza delle più elementari conoscenze dei dati clinici e legislativi necessari a formulare un giudizio sensato.
Il punto fondamentale proposto dalla vicenda è rappresentato, a mio parere, dalla malcelata convinzione di alcuni magistrati oltre che della popolazione, di poter considerare il comportamento violento e delinquenziale sempre come segno di una malattia psichiatrica, ipotizzando quindi che sia possibile trattarlo come la depressione o qualunque altro disturbo psichico. Tale errata convinzione si scontra non solo contro l’evidenza scientifica ma contro quanto facilmente rilevabile dall’osservazione della realtà ed appare un errore foriero di gravissime conseguenze. Il comportamento delinquenziale è l’esito della somma di molti fattori, molti dei quali di natura non clinica e pertanto non accessibili al trattamento medico o psichiatrico; diversa è la situazione dei non frequenti casi di patologia psichiatrica che esita in comportamenti violenti o atti reato. In questo secondo caso l’intervento psichiatrico è possibile e utile, non solo per la cura della sintomatologia psichica ma, indirettamente attraverso il suo miglioramento, anche per la prevenzione dei possibili comportamenti messi in atto in violazione della Legge. La personalità orientata in senso antisociale è egosintonica tranne che in casi di frequenza quasi eccezionale, per cui la persona affetta non è consapevole della sua disfunzionalità né ne richiede il trattamento. Se non esiste una psicoterapia efficace della personalità antisociale, appare ancora più improbabile ipotizzare un possibile approccio farmacologico finalizzato al trattare mento dei comportamenti delinquenziali. Ovviamente, qualunque personalità antisociale può manifestare problematiche di tipo psicopatologico, anche in forma reattiva, ad esempio alla frustrazione portata dalla carcerazione. L’esperienza tuttavia evidenzia come il possibile e positivo trattamento di tali sintomi psicopatologici non intacchi minimamente la sottostante patologia della personalità, che permane orientata in senso antisociale indipendentemente da qualunque sforzo operato in ambito psichiatrico e psicologico.
Infine una piccola considerazione che interesserà soprattutto gli operatori della sanità penitenziaria. Proprio alla luce delle considerazioni precedentemente esposte credo che sia assolutamente necessario che i due percorsi , psichiatrico e penitenziario, rimangano paralleli e rigorosamente separati. Il tentativo, spesso strisciante, di alcune amministrazioni penitenziarie di attribuire “di fatto“ agli operatori della sanità pubblica anche compiti di valutazione del percorso penitenziario dei detenuti, scevri da finalità di cura, va assolutamente avversato e respinto, mantenendo per gli operatori sanitari esclusivi compiti di cura e per quelli del Ministero di Grazia e Giustizia la competenza valutativa in sede criminologico/ penitenziaria.
La questione della gestione delle persone violente (evidentemente è già una super semplificazione del problema), oggetto di comprensibile preoccupazione da parte dei cittadini ed anche dei governi, sposta il campo del ragionamento dalla Psichiatria clinica alla Criminologia, essendo gli psichiatri, proprio per le ragioni già espresse, interessati a un numero veramente modestissimo di situazioni. Ci sarebbero diverse considerazioni da fare, di cui la prima è che mancano dati consolidati dalla ricerca e dall’esperienza in campo criminologico, per cui i programmi di prevenzione e trattamento criminologico si basano sul buon senso e si diversificano in base alle diverse legislazioni nazionali. Tutto questo per dire che le varie iniziative in quest’ambito esitano non infrequentemente nel favorire i comportamenti violenti o criminali anziché impedirli; lo stesso sistema italiano di erogazione delle pene, centrato sulla carcerazione, ha spesso l’effetto di favorire la cronicizzazione del comportamento criminale.
Non esiste una risposta univoca, nel senso che i diversi fattori eziologici variano molto da caso a caso e come tali andrebbero individualmente considerati, tuttavia può essere utile ripensare al senso e al significato dei diversi passaggi giudiziari per eliminare o ridurre i fattori di rischio. Porto un esempio su tutti: durante la carcerazione, tranne che in rarissime circostanze, i detenuti non lavorano e trascorrono nell’ozio più totale la maggior parte del tempo. Questo certamente evita possibili sfruttamenti della condizione di detenzione, ma ostacola uno dei principali strumenti per evitare la recidiva del comportamento criminale, cioè la disponibilità di denaro e la capacità di un lavoro proficuo.
Per quanto riguarda gli aspetti personologici premessa dei comportamenti violenti, dovremmo interrogarci su quale sia il retroterra culturale sul quale si sviluppano, a partire dagli elementi forti della comunicazione mediatica; i programmi di trattamento sui quali esiste qualche evidenza di efficacia indirizzano verso il lavoro di gruppo ( anche gruppi misti, con le vittime dei reati ) piuttosto che individuali.
E’ un campo incerto che sfugge, come ripeto, alla psichiatria clinica ed è fondamentale che magistratura e società comprendano questa necessaria premessa.


Nota dell’Editor: Credo che il tema proposto in questo contributo meriti un ampio dibattito e un’attenta valutazione che coinvolge più che la sola psichiatria o la sola magistratura la società tutta e regole che vuol darsi in tema di norme di sicurezza che non riguardano le pene ma un insieme di provvedimenti da attuare in un drammatico spazio tra Scilla e Cariddi dove ad un capo sta la libertà individuale e all’altro la necessità di darsi delle regole giuste ma protettive della maggioranza dei cittadini.
Non mi sento di esprimere un giudizio in merito ma il problema esiste e andrà ineludibilmente affrontato senza scaricare sulla psichiatria compiti che non ha, né fantasticando soluzioni magiche nella loro semplificazione ovviamente reclusoria.

Commento di Franco Scarpa - www.psychiatryonline.it/ 28 gennaio 2014

Da ex Direttore dell'OPG di Montelupo Fiorentino, quando ero dipendente Medico Psichiatra dell'Amministrazione Penitenziaria, ho avuto modo di conoscere direttamente Gagliano, resosi noto per questa fuga (allontanamento, evasione ? cambia poco). Gagliano era attualmente sottoposto a condanna detentiva ma non conosco la sua posizione e se avesse ancora una misura di sicurezza pendente (da seminfermo di mente). Nel passato era stato ritenuto incapace di intendere e volere con infermità totale (non ricordo la diagnosi che i periti gli avevano attribuito). Nonostante i commenti che mi precedono sottolineino con chiarezza che lo Psichiatra non si debba occupare di trattare la "criminalità", dobbiamo ancora fare i conti con un numero abbastanza consistente di persone, che ancora oggi si trovano negli OPG, considerati infermi di mente, o parzialmente infermi, per i quali è totalmente attribuita al personale sanitario, che lavora in OPG, ed ai servizi territoriali, il compito di individuare percorsi di cura, di residenza, di presa in carico tali da garantire che non commettano recidive di reato. Purtroppo nonostante ci si sforzi di far comprendere che certe forme di Disturbo di personalità, se non di vera e propria Psicopatia, hanno poco a che fare con i Servizi e poco si giovano di trattamenti, anche residenziali comunitari, il Magistrato di Sorveglianza , e gli stessi operatori penitenziari, attribuiscono al Servizio Psichiatrico, poteri taumaturgici, se non un vero e proprio scarico di responsabilità (a tal fine nella rubrica che curo troverete un illuminante ordinanza del Magistrato che attribuisce una sorta di posizione di garanzia per la non recidiva di reato agli operatori dei Servizi all'atto della revoca della mostra).
Credo che dovremo nella Comunità Scientifica discutere a fondo di:
a) chiarire e delimitare i criteri di valutazione della capacità di intendere e volere, restringendone fortemente i confini;
b) rigettare il compito, soprattutto in fase esecutiva delle misure di sicurezza, di garantire che la persona non sia pericolosa;
c) differenziare i percorsi di cura, nei casi possibili, da quelli di mero controllo sociale, non attribuibili agli operatori della salute mentale, sia dentro il carcere che negli attuali OPG, e nelle future REMS, e soprattutto nel territorio;
d) pretendere che siano date adeguate risorse a trattare un problema che richiede interventi che esulano dalla ordinaria gestione dei pazienti dei Servizi.
Casi come Gagliano potranno sempre verificarsi se continueremo ad accettare passivamente le valutazioni peritali, le decisioni del Magistrato, che si fondano sui pareri dei periti, l'attribuzione di compiti di garanzia di controllo sociale, che non compete al Servizio Sanitario. La cultura dei percorsi Psichiatrico Forensi, anche nei Servizi, è sostenibile se agisce in parallelo, e non in sostituzione, del compito primario del controllo sociale di competenza del sistema della sicurezza.