Vincenzo Donnarumma

 

L'affidamento in prova del tossicodipendente e dell’alcooldipendente
 

www.altalex.com/ 08.07.2003
 

Le fonti. L’istituto dell’affidamento in prova nei casi particolari di tossicodipendenza e alcoolismo è stato introdotto nell’ordinamento penitenziario dalla legge 21 giugno 1985 n.297, che ha inserito l’art.47 bis nella legge 26 luglio 1975 n.354.
L’originaria disposizione è stata oggetto di ulteriori modifiche con l’art.12 legge 10 ottobre 1986 n.663 (legge Gozzini “modifica alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”).
Il DPR 9 ottobre 1990 n.309 (Testo Unico in materia di disciplina delle sostanze stupefacenti e psicotrope) riproponendo, con l’art.94, in modo quasi integrale il contenuto dell’art.47 bis ord. penit. ha disciplinato l’affidamento in prova del soggetto tossicodipendente, modificato poi per quanto riguarda il limite di pena dalla legge 14 luglio 1993 n.222.
Tale disciplina ha creato non pochi contrasti con la equivalente disciplina dell’art.47 bis.
La legge 27 maggio 1998 n.165 (legge Simeone) abrogando, con l’art.3, l’art.47 bis ord. penit. ha, almeno nelle intenzioni del legislatore, contribuito ad eliminare i suddetti contrasti.
Pertanto l’affidamento in prova nei casi particolari è attualmente disciplinato, con rinvio implicito dell’art.3 della legge Simeone, dall’art.94 DPR n.309/90 il quale è stato oggetto, poi, della recente modifica da parte del d.l. 24.11.2000 n. 341, convertito in L. 19.01.2001, n. 4.
Le riforme dell’art. 656 cpp. Le riforme dell’istituto della sospensione dell’ordine di esecuzione, ex art.656 cpp., operate sia dalla L. n.165/98, sia dal d.l. n.341/00 sono frutto dell’esigenza improcrastinabile di realizzare un decremento del numero notevolissimo di detenuti che affollano gli istituti di pena causato dalla cronica inadempienza dello Stato nel settore della edilizia penitenziaria che mortifica la funzione rieducativa della sanzione penale prevista dalla Costituzione, mediante la sospensione automatica della esecuzione delle pene detentive non superiori ad una determinata durata, ad opera del magistrato del pubblico ministero.
Il legislatore, in effetti, ritiene che il meccanismo previgente, fondato sulla sospensione della esecuzione su domanda dell’interessato, determina due conseguenze negative: una, che l’esecuzione della pena detentiva si verifica dopo molti anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna, l’altra, che si concede inutilmente la misura alternativa al condannato che ha già interamente scontato la pena.
La prassi applicativa, inoltre, dimostra che solo gli interessati che possono disporre di una adeguata e, soprattutto, attenta e dispendiosa assistenza difensiva, godono del beneficio della sospensione quando sono ancora in stato di libertà, mentre coloro che non hanno una idonea difesa tecnica non presentano tempestivamente la domanda e, pertanto, solo dopo l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, formulano la medesima onde ottenere la concessione di una misura alternativa quando, cioè, la pena è in parte già scontata.
La sospensione automatica, dunque, viene vista come norma di equità, rimedio essenziale per eliminare disparità di trattamento tra i detenuti determinate da circostanze fortuite direttamente dipendenti dal tipo di assistenza difensiva di cui si avvalgono i detenuti stessi.
Il legislatore, inoltre, prendendo coscienza che la carcerazione del condannato poteva interrompere la positiva trama di rapporti sociali ricostituita dal condannato nelle more del processo, ha dato impulso allo strumento della sospensione automatica proprio per evitare che il soggetto libero, durante le more del giudizio penale abbia avviato autonomamente, seppure solo parzialmente, una fase di rieducazione, possa con la condanna e conseguente carcerazione interrompere quel processo risocializzante già intrapreso.
La riforma dell’istituto della sospensione dell’ordine di esecuzione, art.656 cpp., va ad interessare solo marginalmente, ma comunque in modo determinante e consistente, la disciplina dell’affidamento in prova nei casi particolari.
L’art.3 della legge 165/98, mediante il riconoscimento della piena operatività dell’affidamento in prova nei casi particolari disciplinato nel Testo unico delle sostanze stupefacenti, si presenta, quindi, come intervento normativo finalizzato ad eliminare quel concorso di norme che aveva dato vita a tante divergenze e difficoltà interpretative dovute al fatto che l’affidamento in prova nei casi particolari ha trovato per otto anni una disciplina contemporanea in diverse e distinte fonti normative.
A questo punto una precisazione appare essenziale: il fatto che l’art.3 della L.165/98, abrogando l’art.47 bis ord.penit., crea certezza circa la fonte della disciplina dell’affidamento in prova nei casi particolari, non giustifica una esenzione dell’attività ermeneutica di tale istituto alla luce della riforma della disciplina della sospensione della esecuzione della pena, soprattutto in considerazione del mancato coordinamento da parte del legislatore tra l’art.656 cpp. e la normativa dell’affidamento in prova nei casi particolari.
La riforma, pur lasciando immutati gli aspetti sostanziali della disciplina dell’istituto, ha stravolto invece gli aspetti propriamente processuali soprattutto per quel che concerne la modalità di accesso alla misura, creando non pochi problemi interpretativi soprattutto a causa di una scarsa attenzione del legislatore al coordinamento tra disciplina riformata e quella già esistente.
Per tale ragione, prima di trattare in modo particolareggiato la disciplina dell’affidamento in prova nei casi particolari, sembra opportuno occuparci subito della disciplina della sospensione dell’esecuzione della pena.
Il richiamo esplicito dell’art.656 cpp, comma 5, agli artt.90 e 94 DPR. 309/90 rende operante anche per l’affidamento in prova nei casi particolari il meccanismo della automatica sospensione dell’ordine di carcerazione.
Il magistrato del pubblico ministero, a norma dell’art.656 cpp, comma 5, accertato che la pena da scontare, anche se solo residua, non supera i quattro anni deve emettere l’ordine di carcerazione e contestuale decreto di sospensione, da consegnarsi al condannato, non detenuto, con l’avvertimento che entro trenta giorni potrà presentare domanda di affidamento corredata necessariamente con la documentazione richiesta per ottenere una misura alternativa, e che, in caso di mancata presentazione dell’istanza cosi’ corredata, l’esecuzione seguirà il suo corso.
Il comma 5 dispone che l’unico limite alla concessione automatica della sospensione è dato dal limite edittale, anche se costituente solo un residuo di pena maggiore, non superiore a tre anni e a quattro anni nei casi di cui agli artt.90 e 94 del testo unico degli stupefacenti, limite che deve essere, appunto, accertato dal magistrato del pubblico ministero, prima della concessione della sospensione.
A ben vedere, l’art.656 cpp, comma 5, subordina la concedibilità della sospensione, oltre alla condizione del limite edittale, anche alla assenza delle condizioni ostative previste dai commi 7 e 9, inesistenza che il magistrato del pubblico ministero deve accertare ai fini della concessione: il comma 7 prevede che la sospensione per la stessa condanna non può essere disposta più di una volta, anche se il condannato ripropone nuova istanza sia in ordine ad una misura alternativa diversa, sia in ordine alla medesima, diversamente motivata, sia in ordine alla sospensione di cui all’art.90 del DPR 309/90; il comma 9 prevede che la sospensione di cui al comma 5 non può essere concessa nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art.4 bis ord.penit. e nei confronti di coloro che per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva.
Gli accertamenti del magistrato del pubblico ministero, stante la celerità che dovrebbe caratterizzare la fase esecutiva, devono essere effettuati “allo stato degli atti” sulla base della documentazione che il magistrato riceve presso la propria segreteria (artt.28 e 29 reg. esec. CPP.). Certamente il potere-dovere non può risolversi in una istruttoria dato che si provocherebbero ulteriori ritardi.
Se il condannato si trova agli arresti domiciliari e ricorre la situazione di cui al comma 5, il PM sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e trasmette gli atti senza ritardo al Tribunale di Sorveglianza affinché provveda ad applicare una pena alternativa.
Il provvedimento di sospensione si presenta come fattispecie complessa e a formazione successiva, essendo esso composto da una pluralità di atti, ciascuno con un proprio contenuto ed una specifica finalità e tutti tra loro collegati da un rapporto strumentale finalizzato al raggiungimento di uno scopo finale che consiste proprio nella sospensione dell’esecuzione: l’ordine di esecuzione comunica al condannato l’imputazione e la pena inflittagli; il decreto di sospensione neutralizza l’effetto naturale dell’ordine di esecuzione; l’avviso informa il condannato della facoltà di presentare istanza di misure alternative e delle conseguenze che deriveranno dalla mancata proposizione della domanda.
L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al difensore del condannato. A tale scopo, il comma 8 bis, dispone che quando è provato o appare probabile che il condannato non abbia avuto conoscenza dell’avviso di cui al comma 5, il PM può assumere informazioni – anche presso il difensore – e disporre, all’esito, il rinnovo della notifica.
I tre provvedimenti, ordine di esecuzione, decreto di sospensione dell’esecuzione e avviso dei primi due all’interessato possono essere consegnati a quest’ultimo, racchiusi in un unico documento per esigenze di speditezza e di economia.
La mancata notifica non aziona la conoscenza da parte dell’interessato e quindi non decorre neppure il termine per la presentazione dell’istanza nella revoca della sospensione.
Il comma 5 prevede che l’inutile decorso del termine di trenta giorni, senza che il condannato abbia formulato alcuna istanza, fa cessare gli effetti prodotti dal decreto di sospensione e dal conseguente avviso e l’esecuzione della pena avrà corso immediato: appare evidente che in tal caso la norma prevede una sorta di revoca tacita del decreto di sospensione.
Il mancato rispetto del termine inoltre non preclude che il condannato possa presentare l’istanza una volta che sia stato dato inizio alla esecuzione della pena.
Il comma 8 dispone, invece, che il magistrato del pubblico ministero revochi immediatamente il decreto di sospensione dell’esecuzione quando l’istanza è presentata dopo il decorso del termine o quando il Tribunale di sorveglianza dichiari inammissibile o respinga la richiesta: la cessazione degli effetti in questi casi avviene, espressamente, mediante revoca, a differenza della revoca tacita prevista per l’ipotesi di inutile decorso del termine di trenta giorni ex art.656 cpp.
L’aspetto più evidente della disciplina della sospensione della esecuzione, così come riformata, è rappresentato dalla automaticità della sospensione della esecuzione che prescinde dalla istanza del soggetto interessato, mentre, nella normativa previgente la sospensione era disposta dal magistrato del pubblico ministero solo successivamente alla presentazione dell’istanza di parte, tanto che si parlava di “scarcerazione su domanda”.
Occorre verificare, quindi, preliminarmente, la compatibilità della disciplina formulata dall’art.656, comma 5, rispetto a quella dell’art.91, comma 3 e 4, DPR. 309/90.
Secondo una parte della dottrina[1], sicuramente si può affermare che il disposto dell’art. 656, comma 5, implicitamente va ad abrogare per incompatibilità l’art.91 comma 3; del resto, in base al richiamo del 656 cpp, comma 5, agli artt.90 e 94, non si può ipotizzare che il legislatore abbia voluto predisporre un “doppio binario” diretto a differenziare totalmente le modalità esecutive nei confronti del condannato che può beneficiare della sospensione e dell’affidamento in prova nei casi particolari, dalle altre modalità esecutive previste per la generalità dei casi.
Diverso è il discorso del comma 4 dell’art.91 DPR. 309/90 che prevede un ipotesi diversa da quella del comma 5 dell’art.656 cpp., ossia quella del condannato detenutotossicodipendente o alcooldipendente per il quale non opera la sospensione automatica, ma la sospensione a seguito di domanda di affidamento: tale disposizione conserva quindi una autonoma operatività, e del resto, se il legislatore avesse voluto abrogare l’art.91 comma 4 l’avrebbe fatto esplicitamente.
Inoltre, a confermare la vigenza dell’art.91 comma 4, vi è anche la preminente considerazione della scelta di politica criminale di far prevalere il favor curae e l’incompatibilità dello status detentionis.
Un’altra parte della dottrina ritiene, invece, che anche il comma 3 dell’art.91 DPR. 309/90 non è stato abrogato, mancando una specifica disposizione in tal senso e dal momento che conserva una sua autonoma operatività in alcune ipotesi specifiche - che analizzeremo più avanti - in cui non può operare la regola generale dell’art.656cpp.
In linea di prima approssimazione possiamo quindi dire che per il condannato tossicodipendente o alcoldipendente, la cui pena, anche residua, non supera i quattro anni, possono profilarsi diversi tipi di sospensione, a seconda che egli sia al momento della condanna libero oppure detenuto.
Notevoli sono le incongruenze che discendono dalla interpretazione e dal coordinamento della disciplina della sospensione che deriva dall’art.656 con quella della sospensione e dell’affidamento così come esposta dal DPR 309/90.
Innanzitutto si deve segnalare la perplessità circa il potere-dovere del magistrato del pubblico ministero di effettuare gli accertamenti sopra menzionati, e soprattutto ci si chiede come il magistrato possa dedurre lo status di tossicodipendente o di alcoldipendente.
Impraticabile è la proposta soluzione consistente nell’anticipare la presentazione della documentazione attestante lo status, che, rappresenterebbe una sorta di ritorno alla sospensione su istanza di parte che, invece, il legislatore ha voluto con la riforma abrogare.
Ancora più critica poi sarebbe l’altra soluzione secondo cui il magistrato del pubblico ministero, nell’incertezza, dovrebbe sospendere l’esecuzione di tutte le pene fino a quattro anni.
Una parte della dottrina[2], poi, ritiene che il magistrato possa conoscere lo status all’esito di un’attenta lettura della sentenza da porre in esecuzione. Tale considerazione non è condivisibile dal momento che la condizione soggettiva che legittima l’affidamento in prova non necessariamente deve essere posta in relazione causale con la commissione del reato, ben potendo lo status di dipendenza subentrare in un momento successivo alla celebrazione del processo e, quindi, non risultare dalla sentenza.
Altra parte della dottrina[3] ritiene che il magistrato non deve accordare la sospensione dell’esecuzione della pena tra i tre e i quattro anni, onde consentire al condannato di fare istanza di affidamento in prova dopo l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, ex art.91 comma 4 DPR. 309/90.
Anche tale conclusione non è condivisibile dal momento che si andrebbe a colpire con la detenzione proprio un soggetto al quale la legge riconosce il diritto alla automatica sospensione dell’esecuzione.
La soluzione più opportuna, forse, viene fornita proprio da quella dottrina[4], già indicata in precedenza, secondo la quale, nonostante la riforma del 656 cpp, comma 5, l’art.91 comma 3 Testo Unico degli stupefacenti, conserva una autonoma operatività proprio per l’ipotesi in questione.
Il condannato che sia ancora in stato di libertà, quando il magistrato del pubblico ministero non sia a conoscenza dello stato di dipendenza da alcol o droga del condannato a una pena superiore a tre anni, anche se residua, e inferiore a tre anni, potrà avvalersi dell’istanza ex art.91 comma 3 per ottenere la sospensione della esecuzione della pena. La situazione di non conoscenza del magistrato del pubblico ministero circa lo stato di alcol/tossicodipendenza del condannato diventa il requisito per riconoscere autonoma operatività alla disciplina di cui al comma 3 dell'art.91 DPR. 309/90.
Altra causa di perplessità è rappresentata dal limite di cui al comma 7 che prevede la sospensione dell’esecuzione della pena solo una volta, il che sembrerebbe precludere la possibilità di chiedere l’affidamento in prova dopo l’esecuzione dell’ordine di carcerazione.
In realtà, nulla impedisce al condannato tossicodipendente o alcoldipendente, detenuto per essergli stata rigettata o dichiarata inammissibile un’istanza di misura alternativa, di dichiararsi disponibile a sottoporsi ad un programma terapeutico e presentare domanda di affidamento in prova nei casi particolari. In quest’ultima ipotesi opererebbe la sospensione dell’esecuzione e l’immediata scarcerazione su domanda dell’interessato ex art.91 comma 4, che, come già detto, viene ad assumere un ruolo autonomo, a seguito della riforma della legge 165 del 1998 in quanto regola l’ipotesi del tossicodipendente o alcoldipendente condannato e detenuto.
E lo stesso discorso vale per il limite del comma 9 lett. a) e b) dell’art.656 che stabilisce la non operatività della sospensione automatica se il soggetto è condannato per uno dei reati ex art.4 bis o se si trova in stato di custodia cautelare in carcere per il fatto oggetto della condanna da eseguire. In questi casi l’art.91 comma 4 diventa lo strumento per ottenere comunque la sospensione dell’esecuzione della pena a favore del condannato tossicodipendente o alcoldipendente detenuto per le ragioni di cui al comma 9.
Le conclusioni di cui sopra comportano, comunque, una conseguenza negativa, rappresentata dal fatto che il sistema che si viene a creare diventa estremamente complesso: il soggetto condannato ad una pena, anche residua, fino a quattro anni, non gode della sospensione ostandovi uno dei limiti di cui ai commi 7 e 9 dell’art.656 e quindi subisce lo status detentionis, ma tale ultima condizione è destinata, poi, a cessare nel caso in cui il soggetto, essendo tossicomane, si avvale della richiesta di affidamento in prova, a norma dell’art.91 comma 4, che determina la sospensione dell’esecuzione della pena.
Altro aspetto da segnalare è la esiguità del termine di trenta giorni previsto per la presentazione della domanda di qualsiasi misura alternativa. Tale termine nella fattispecie dell’affidamento in prova nei casi particolari risulta ancora più esiguo, dato che l’art.94 DPR. 309/90 prescrive che il soggetto, se intraprende ex novo un programma terapeutico, deve allegare una certificazione che è alquanto difficile procurarsi in tale ristretto termine presso una struttura sanitaria pubblica.
Per ragioni di completezza sistematica, dato anche il carattere strumentale della sospensione rispetto all’affidamento in prova nei casi particolari, occorre, a questo punto, fare un breve cenno anche sulla disciplina della sospensione prevista dagli artt.90 e 91 DPR. 309/90.
Tali norme, come già detto sono operative quando si tratta di condannato a pena, anche residua, non superiore a quattro anni, tossico/alcooldipendente detenuto o quando si tratta di detenuto tossico/alcooldipendente; esse prevedono “la scarcerazione su domanda”, nel senso che la sospensione della esecuzione della pena non opera automaticamente ma su domanda dell’interessato, domanda che, nel caso che ci interessa più da vicino, avrà ad oggetto l’affidamento in prova in comunità terapeutica e dovrà essere corredata, a pena di inammissibilità, da apposita documentazione.
Qualora il condannato richiedente sia detenuto, il magistrato, se non osta il limite di pena, ordina la scarcerazione; se il condannato è libero, e sempre che non osti il limite di pena, il PM sospende la emissione dell’ordine di esecuzione o sospende la sua esecuzione. In ogni caso, il magistrato trasmette gli atti al tribunale di sorveglianza.
Occorre, in questa sede, solo accennare agli orientamenti giurisprudenziali che si sono formati sulla sospensione prevista dal DPR. 309/90 prima della riforma apportata dalla legge Simeone.
La giurisprudenza, riteneva che la sospensione dell’ordine di carcerazione non potesse effettuarsi, in caso di richiesta di affidamento da parte di soggetto che, prima dell’emissione dell’ordine, non fosse in stato di libertà: la sospensione, quindi, non era configurabile a favore di un soggetto detenuto in custodia cautelare, rispetto al quale l’ordine di esecuzione determinava solo il mutamento della condizione di detenuto in attesa di giudizio, in quella di detenuto in espiazione di pena[5], oggi è il comma 9 del 656 cpp. a disporre che la sospensione automatica prevista al comma 5 non opera per colui che si trova in custodia cautelare in carcere per il fatto oggetto della condanna, al momento in cui la sentenza diviene definitiva.
La giurisprudenza di merito aveva addirittura stabilito che la sospensione o la scarcerazione potevano aversi solo nei confronti dei condannati non detenuti al momento in cui la sentenza di condanna sia divenuta irrevocabile e pertanto la scarcerazione, nel caso di avvenuta esecuzione dell’ordine di carcerazione, si riferiva alla sola ipotesi in cui il condannato libero sia stato incarcerato prima di riuscire a proporre o a completare gli adempimenti relativi all’istanza[6].
Il magistrato del pubblico ministero[7], se ritiene la richiesta inammissibile, non potrà procedere direttamente a tale declaratoria, avendo il suo potere – giova ribadirlo - carattere preventivo finalizzato a bloccare domande pretestuose mediante il diniego di differimento della esecuzione, ma dovrà emettere l’ordine di esecuzione o non disporre la scarcerazione del condannato, se detenuto, e trasmettere gli atti al tribunale di sorveglianza in modo da realizzare un controllo più puntuale soprattutto in ordine all’idoneità del programma terapeutico[8].
In tal senso la giurisprudenza ha poi affermato che avverso il provvedimento con cui il magistrato del pubblico ministero ha negato la sospensione dell’ordine di carcerazione o della sua concreta esecuzione, a seguito dell’istanza di affidamento in prova, l’interessato può proporre incidente di esecuzione e non ricorso per cassazione[9].
Il provvedimento con cui il magistrato del pubblico ministero respinge l’istanza di scarcerazione non è soggetto ad impugnazione per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione[10].
Beneficiari della misura. L’affidamento in prova nei casi particolari può essere richiesto dal tossicodipendente o dall’alcoldipendente che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva o, comunque, al momento della domanda, abbia in corso un programma di recupero o dichiari di volersi ad esso sottoporre.
L’affidamento in prova nei casi particolari, ex art.94 DPR. n.309/90, si caratterizza per la peculiarità dei destinatari, che ha reso necessario un adattamento della primitiva forma di affidamento in prova al servizio sociale, alle esigenze del tossicodipendente e dell’alcoldipendente, delle quali il legislatore si è fatto interprete.
Vediamo inannzitutto chi sono i soggetti che possono beneficiare della misura in esame.
Il tossicodipendente è un soggetto che si trova in uno stato psicofisico di interazione con una sostanza stupefacente psicotropa che determina reazioni di vario genere, comprendenti sempre la coazione ad assumere la sostanza.
L’alcoldipendente è un soggetto affetto da uno stato di intossicazione determinato da un abuso di bevande alcoliche. L’intossicazione può essere acuta o cronica: la prima è l’ubriachezza episodica, che provoca effetti intensi ma passeggeri; la seconda è un avvelenamento lento che si produce per il consumo giornaliero e costante nel tempo di una quantità di alcool superiore a quella che l’organismo è in grado di metabolizzare.
La scelta di politica criminale del legislatore, di equiparare il tossicodipendente e l’alcoldipendente, ha suscitato non poche polemiche: originariamente il D.L. 22 aprile 1985 n.144 riguardava solo il tossicodipendente e non l’alcoldipendente[11], ma per ragioni di equità, prima la legge Gozzini, con l’art.47 bis, poi il DPR. 309/90 con l’art.94, hanno sancito l’equiparazione di tali stati di dipendenza ai fini dell’affidamento in prova.
La discussione circa l’equiparazione ai fini dell’affidamento trae origine, inoltre dalla precedente contestata equiparazione prevista dal codice penale in relazione all’imputabilità del tossicodipendente e dell’alcoldipendente.
Le critiche appaiono fondate soprattutto se si considera che la disciplina dell’affidamento in prova è inserita nel testo unico riguardante il fenomeno dei soli stupefacenti; non solo, si consideri anche che le organizzazioni con cui viene concordato il programma terapeutico hanno una apposita specializzazione per il recupero del tossicodipendente, mentre non hanno la medesima preparazione per il contrasto dell’alcoldipendenza.
In senso contrario, si ritiene che una parificazione del trattamento giuridico non deve coincidere con i presupposti naturalistici relativi ai diversi stati di dipendenza, e quindi, si reputa fondata e giustificata tale equiparazione.
Presupposto soggettivo per poter usufruire dell’affidamento in prova con finalità di recupero è lo stato di tossicodipendenza o alcoldipendenza. Il legislatore sembra dunque muovere da una sorta di presunzione di incompatibilità, in casi particolari, tra stato di tossicodipendenza o alcoldipendenza e stato di detenzione, riconoscendo che la detenzione nei confronti del soggetto intossicato, lungi dal rappresentare un valore per l’ordinamento[12], rischia di comprometterne irrimediabilmente le prospettive di riadattamento.
La nozione di dipendenza trova il suo fondamento nell’art.96 del T.U. 309/90 che, riproducendo l’art.84 l. 658/75, riconosce il diritto al trattamento di recupero al soggetto dedito abitualmente all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o, comunque, con problemi di tossicodipendenza.
Tuttavia, va subito precisato che non sembra necessario che vi sia una connessione eziologica tra stato di alcol/tossicodipendenza e commissione del reato[13]. Infatti, come meglio vedremo, nessun ostacolo si frappone alla concessione della misura a soggetti che si trovano in stato di dipendenza solo al momento in cui deve essere eseguita la pena[14].
In ordine alla definizione di dipendenza appare chiaro che, dopo aver censurato l’appiattimento di ogni relazione con la droga o con l’alcol alla sola definizione della dipendenza da esse, si debba intenderla correlandola con l’espressione “programma terapeutico”, per cui ai fini dell’applicazione dell’istituto in esame dovrà ritenersi tossicodipendente o alcoldipendente il condannato per il quale appaia come appropriata una terapia di contrasto nei confronti di qualsiasi effetto derivante dall’uso di sostanze stupefacenti o alcolici.
Lo stato di dipendenza deve essere attuale in quanto l’affidamento nei casi particolari è un istituto volto al recupero fisico del soggetto e non al recupero sociale per il quale, invece, è prevista la misura della sospensione della esecuzione[15].
In relazione alla condizione di attualità dello stato di tossicodipendente la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il giudice non può rigettare l’istanza di affidamento in base al semplice richiamo al lasso di tempo trascorso dall’inizio dell’assunzione della sostanza, e ciò perché non vi sono criteri scientificamente sicuri per determinare quanto tempo occorra perché l’assunzione possa portare alla dipendenza[16].
La Cassazione ha poi precisato che è assoggettabile alla disciplina dell’affidamento in prova anche l’assuntore di ecstasy, anfetamina ad azione eccitante che pure rientra tra le sostanze che possono determinare dipendenza[17].
L’attualità dello stato di dipendenza, inoltre, e la necessità di un idoneo programma di recupero, ai fini della concessione dell’affidamento in prova nei casi particolari, possono aver riguardo anche alla sola dipendenza psichica: il fatto che l’interessato abbia superato la fase della dipendenza fisica dallo stupefacente non giustifica la sua guarigione in base alla constatazione che il soggetto non assume più droghe, avendo egli necessariamente bisogno di un ulteriore periodo di supporto terapeutico di tipo psicologico[18].
Ciò sta a dimostrare che in realtà il vero requisito dello stato di dipendenza non è tanto la sua attualità in senso letterale, quanto piuttosto la labilità psicofisica che la terapia, a mezzo dell’istituto dell’affidamento in prova, deve eliminare per ottenere il risultato auspicato della risocializzazione dell’individuo.
Un problema molto particolare riguarda la applicabilità o meno delle restrizioni alla concedibilità della misura dell’affidamento in prova nei casi particolari, a quei soggetti resisi autori di particolari reati, previsti dall’art.4 bis.ord.penit., ricollegabili ad una militanza in una organizzazione terroristica, eversiva, o criminale di stampo mafioso o camorristico, e che non siano collaboratori di giustizia ai sensi del successivo art.58 ter ord.penit.
Secondo una dottrina[19], che parte da un’analisi interpretativa sistematico-letterale, le restrizioni ex art.4 bis opererebbero in quanto l’art.94 T.U. 309/90 fa salva l’applicabilità, per quanto non diversamente previsto, di tutte le disposizioni della legge sull’ordinamento penitenziario.
Di parere opposto altra parte della dottrina e giurisprudenza[20], secondo la quale l’analisi sistematico-letterale non tiene conto della reale ratio dell’istituto dell’affidamento in prova nei casi particolari.
Il legislatore con tale specifico affidamento vuole creare le condizioni necessarie per il recupero dalla tossicodipendenza, affinché la pena potesse avere un effetto risocializzante: il fine ultimo dell’affidamento in prova per il tossicodipendente e l’alcoldipendente è sostanzialmente quello di tutelare la salute dei suoi destinatari, mentre le altre misure alternative costituiscono dei benefici.
Pertanto le restrizioni dell’art.4 bis., finalizzate, a reprimere la pericolosità sociale di taluni condannati, si giustificano per la non concessione di benefici a soggetti pericolosi per i quali la pena deve essere esemplare, onde combattere la grossa criminalità, mentre altrettanto non può dirsi per l’affidamento in prova a carattere terapeutico, - stante anche l’art.32 Costituzione che riconosce come fondamentale il diritto alla salute dell’individuo – che deve tendere alla cura di un soggetto malato, il quale ha quindi una scarsa capacità delinquenziale.
Con altro ordine di valutazioni[21], inoltre, si ritiene che poiché l’art.4 bis ord.penit. si riferisce alle misure alternative previste dalla legge n.354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario, non può riferirsi all’affidamento in prova nei casi particolari in quanto, a seguito dell’abrogazione dell’art.47 bis ord.penit. da parte della legge n.165 del 1998 (legge Simeone), quest’ultimo è ora disciplinato esclusivamente dal DPR 309/90, testo unico sulle sostanze stupefacenti.
L’art.656cpp., così come riformulato dalla legge Simeone, ripropone il problema al comma 9, in quanto esso prevede la non operatività della preventiva sospensione dell’esecuzione della pena nei casi previsti dall’art.4 bis ord.penit., tanto che alcuni autori ritengono quindi, che ora, dato il collegamento tra art.656cpp. e art.94 DPR 309/90, l’art.4 bis si applicherebbe anche nel caso di affidamento in prova nei casi particolari, dal momento che il comma 9 dell’art.656cpp. sancisce esplicitamente il divieto di sospendere l’esecuzione della pena per i condannati ex art.4 bis anche con riferimento alla previsione di cui all’art.90 DPR 309/90[22].
In realtà nel caso in cui la sospensione automatica non può operare a causa dei limiti posti dall’art.4 bis ord.penit. è sempre possibile bloccare l’esecuzione della pena, intraprendendo un programma di recupero dalla dipendenza, ai sensi dell’art.91 comma 4[23].
Anche in quest’ultimo caso vi è una contraddizione evidente: il tossicodipendente condannato per uno dei reati ex art.4 bis verrebbe a subire il carcere a causa della preclusione di cui al comma 9 dell’art.656cpp. e verrebbe, poi, scarcerato ai sensi dell’art.90 e 94 DPR. 309/90.
Deve pertanto ritenersi che la riforma non ha voluto modificare il favor nei confronti dei soggetti tossicodipendenti e alcooldipendenti previsto dal Testo Unico sugli stupefacenti, e quindi ancora una volta deve concludersi per la non applicabilità dell’art.4 bis nel caso in esame[24].
I limiti edittali. L’originaria formulazione dell’art.47 bis, prevedeva che, se la pena detentiva inflitta non superava il limite dei tre anni, l’interessato poteva chiedere in ogni momento di essere affidato in prova al servizio sociale per proseguire od intraprendere l'attività terapeutica sulla base di un programma di recupero e riabilitazione, allegando una certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcoldipendenza e l'idoneità del programma ai fini dell’effettivo recupero (art.94, comma 1, DPR cit. e art.47 bis, comma 1 ord.pen.).
Sull'istituto, ha inciso il decreto legge 14 maggio 1993, n. 139, convertito nella legge 14 luglio 1993, n. 222, che ha innalzato a quattro anni il limite della pena detentiva entro cui può chiedersi l'applicazione del beneficio.
Con l'elevazione del limite si è inteso favorire quanto più possibile l'accostamento degli assuntori di stupefacenti alle strutture di recupero e di limitarne la presenza negli istituti di prevenzione.
Il già citato provvedimento legislativo, sembra altresì avere chiarito che, ai fini della determinazione del limite massimo di pena entro cui può essere concesso il beneficio, va considerata la pena che il condannato deve effettivamente scontare.
In tal modo, appare essersi accolto legislativamente quell'orientamento interpretativo che, vigente l'originaria formulazione della norma riteneva che, ai fini della determinazione dei limiti massimi di pena entro cui poteva essere concesso il beneficio, analogamente a quanto previsto per l'affidamento in prova al servizio sociale di cui all'art. 47 ord. pen, dovesse considerarsi la pena che il condannato doveva effettivamente scontare escludendo dal relativo computo sia le pene già espiate, che quelle estinte per indulto o per altra causa[25].
Relativamente all'affidamento in prova previsto dall'art.47 ord. penit. si era infatti consolidato in questo senso un significativo orientamento interpretativo[26] secondo il quale, pur dovendosi escludere dalla “pena inflitta”, alla stregua di quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.386/89, quella già espiata e anche quella coperta da condono, il momento al quale occorre riferirsi per la determinazione della “pena inflitta è quello del passaggio in giudicato della sentenza di condanna o, nel caso di più sentenze, del passaggio in giudicato dell'ultima di esse, dovendosi escludere così dalla “pena inflitta” solo la parte di pena che risulti espiata fino al momento anzidetto e quella condonata o condonabile in forza di provvedimenti di clemenza che, in quel momento, siano già operanti.
In una tale ottica, si era espressamente precisato che non si dovesse distinguere i casi di cumulo da quelli in cui era inflitta per un solo reato una pena superiore a tre anni, sul rilievo che, una volta che si fosse attribuito rilievo esclusivo alla pena residua che il condannato doveva espiare, non vi era spazio per operare una differenziazione fra i condannati alla stessa pena, indice, in teoria, di uguale pericolosità, sia pure diversamente manifestatasi - per un solo reato o per una pluralità di reati[27].
Per completezza va ricordato che prima dell'intervento della Corte Costituzionale, con la citata sentenza n.386/89, la giurisprudenza della Corte di cassazione era profondamente divisa circa le modalità del computo della pena per l'affidamento in prova al servizio sociale, distinguendosi un orientamento, prevalente, che, ai suddetti fini, ammetteva la detraibilità dalla pena irrogata, di quella dichiarata estinta per effetto di condono o di altra causa estintiva, ma non anche di quella già espiata al momento della presentazione della domanda di affidamento[28], da altro orientamento, minoritario, secondo cui la locuzione “pena inflitta” adoperata nell'art.47 ord. pen. doveva intendersi esclusivamente come “pena irrogata in sentenza”, non dovendosi tenere conto né di eventuali condoni né del periodo espiato[29].
Per risolvere detto contrasto, erano già intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[30], che, aderendo in sostanza al secondo di detti orientamenti, avevano affermato che la pena detentiva inflitta quale condizione per l'affidamento in prova al servizio sociale era costituita dalla pena irrogata con la sentenza o le sentenze di condanna, eventualmente risultante per effetto del cumulo, senza considerare le cause estintive della sola pena, come l'indulto, che influiscono sulla determinazione della pena da eseguire in concreto e non di quella inflitta.
A rompere l'equilibrio interpretativo seguito alla citata sentenza n. 386/89 della Corte Costituzionale ed alla successiva sentenza delle Sezioni Unite, imp. Turelli, ha provveduto nuovamente la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza 24 gennaio 1992, n.17[31], che, pur avendo dichiarato l'inammissibilità di alcune questioni di legittimità costituzionale dell'art.47 ord. pen. (perché esse, benché nominalmente riferite all'art. 47 cit., come risultante a seguito della sent. n.386/89, erano sostanzialmente rivolte, invece, a sindacare proprio la suddetta statuizione della Corte), ha precisato che la sentenza n. 386/89 non aveva affrontato la questione dell'applicabilità dell'affidamento in prova al servizio sociale anche ai soggetti cui resti da espiare un residuo di pena inferiore a tre anni, ma ai quali sia stata inizialmente irrogata una pena superiore al detto limite per un unico reato.
La pronuncia della Corte ha riaperto la questione interpretativa dell’art.47 ord. pen., inducendo ad un nuovo intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[32],secondo le quali, alla luce di quanto precisato nella citata sent. n.17/92 della Corte Costituzionale, la sent. n.386/89 dello stesso giudice deve essere letta come se dicesse che l'art.47, comma 1, ord. pen. è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, nel caso di cumulo , ai fini della determinazione del limite di tre anni, non si debba tenere conto anche delle pene espiate, oltre che di quelle estinte.
Secondo le Sezioni Unite, anche la successiva ordinanza n. 509/90 della Corte Costituzionale si è riferita esclusivamente ai casi di cumulo, affermando che la precedente pronuncia di incostituzionalità concerneva, oltre al cumulo delle pene inflitte con più sentenze di condanna, quello delle pene inflitte con un'unica sentenza.
In sostanza, secondo la Cassazione, la pronuncia di incostituzionalità ha riguardato il caso in cui il limite di tre anni è superato dalle pene cumulate e non quello in cui è superato dalla pena relativa ad un singolo reato: in tal modo detta pronuncia ha evitato gli effetti negativi del cumulo delle pene, che tende ad operare a favore del condannato e non a suo danno e può dipendere da fattori occasionali, impedendo che in conseguenza di un cumulo complessivamente superiore ai tre anni sia precluso al condannato l’affidamento in prova al servizio sociale quando l'esecuzione ancora in corso è riferibile ad una o più pene che di per sé non sarebbero ostative, ma non ha peraltro operato quello stravolgimento dell'istituto che si sarebbe verificato se l'affidamento in prova fosse stato reso applicabile rispetto a qualunque reato, quale che ne sia la gravità indicata dalla misura della pena inflitta.
In conclusione, per le Sezioni Unite non può essere disposto affidamento in prova al servizio sociale quando l'esecuzione in corso concerne una pena superiore a tre anni inflitta per un solo reato, anche se la pena residua da espiare è di durata inferiore; mentre, in caso di cumulo, a pena superiore al limite stabilito dall'art.47, comma 1. ord. pen., cessa di essere ostativa solo quando risulta interamente coperta dal periodo di pena espiata, di modo che la pena residua possa riferirsi ad uno o più reati che di per sé non impedirebbero l'applicazione della misura alternativa.
Sulla questione è poi intervenuto il legislatore, al fine di eliminare i dubbi interpretativi, con l'art.14 bis della legge 7 agosto 1992, n. 356, di interpretazione del comma 1 dell'art.47 dell'ordinamento penitenziario, secondo cui detta disposizione, nella parte in cui indica i limiti che la pena inflitta non deve superare perché il condannato possa beneficiare dell'affidamento in prova al servizio sociale, va interpretata nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell'applicazione di eventuali cause estintive.
La Corte Costituzionale, con l'ordinanza 9 novembre 1992 n.422, è nuovamente intervenuta nella suddetta materia, per decidere su un'ordinanza di remissione del Tribunale di sorveglianza di Brescia: nella specie, il giudice a quo, in un procedimento relativo all'affidamento in prova al servizio sociale di un soggetto avente un residuo di pena da espiare inferiore ad anni tre, ma inizialmente condannato a 15 anni di reclusione, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt.3, commi 1 e 2, e 97, comma 1, Cost., dell'art. 47 comma 1, ord. pen., ove interpretato nel senso che, ai fini della determinazione del limite dei tre anni rilevante agli effetti della concessione del sudddetto beneficio, consenta di avere riguardo (in ragione della detraibilità dell'espiato, ammessa dalla precedente sentenza n. 386/89 della Corte costituzionale) alla sola misura della pena residua anche nei casi in cui al richiedente sia stata originariamente irrogata pena superiore pur notevolmente ai tre anni per un unico reato.
La Corte, che ha concluso per la restituzione degli atti al giudice a quo per un nuovo esame della questione, alla luce dell'intervenuto art.14 bis della legge n. 356/92, ha osservato, peraltro, in primo luogo, che il punto relativo alla concedibilità del beneficio anche a soggetti cui resti da espiare un residuo di pena inferiore a tre anni, ma ai quali sia stata inizialmente irrogata una pena superiore al detto limite per un unico reato, non era stato esaminato dalla sentenza n. 386/89 della stessa Corte che aveva avuto riguardo a soggetti condannati a pena iniziale superiore ai tre anni per effetto di cumulo di pene ex se non eccedenti detto limite, donde la piena libertà interpretativa in proposito del giudice ordinario; in secondo luogo, che anche lo ius superveniens introdotto con il citato art.14 bis della legge n. 356/92, non contiene univoci elementi testuali sul punto specifico se la norma interpretata da detto articolo abbia riguardo anche al caso in cui l'espiazione concerna la pena inflitta per un unico reato, onde si ripropone il problema ermeneutico che, con riferimento alla situazione normativa previgente, le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione avevano da ultimo risolto negando che potesse essere disposto l'affidamento in prova al servizio sociale quando l'esecuzione in corso riguardi una pena superiore a tre anni inflitta per un unico reato.
Da ultimo, sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione[33] , che hanno sostenuto che la “pena da espiare in concreto tenuto conto anche della applicazione di eventuali cause estintive ” di cui all'art.14 bis n. 356/92 va intesa nel senso di pena irrogata con la sentenza di condanna, depurata, innanzitutto, della parte di pena eventualmente estinta per effetto di causa estintiva e poi anche della parte di pena già espiata in custodia cautelare e/o in esecuzione.
Pertanto “pena da espiarsi” non può che intendersi la pena che residua, detraendo da quella inflitta con un’unica sentenza di condanna o da quelle inflitte con più sentenze di condanna cumulate, non solo la pena o le pene dichiarate eventualmente estinte, ma anche quelle già espiate dal condannato[34].
Sulla scorta delle statuizioni della Suprema Corte di Cassazione è intervenuto infine il legislatore che con la legge n. 165/98 ha riformulato l’art.656cpp., stabilendo al comma 5 che per pena detentiva deve intendersi quella “anche se costituente residuo di maggiore pena”.
L’istanza di affidamento. Le condizioni affinché possa essere richiesto l’affidamento in prova, oltre al limite edittale della pena, come precedentemente visto, sono:
1. che il condannato sia persona dipendente dall’alcol o dalla droga;
2. che il condannato abbia in corso o intenda sottoporsi ad un programma di recupero;
3. che tale programma, a contenuto terapeutico, sia concordato dal condannato con appositi enti ( Asl, o Comunità pubbliche o private), esplicitamente indicati dall’art. 115 T.U. 309/90;
4. che una struttura sanitaria pubblica attesti lo stato di dipendenza e l’idoneità del programma terapeutico al recupero fisico del soggetto.
Quando sussistono tutti questi elementi il tossicodipendente o l’alcoldipendente può, ex art.94 T.U., chiedere “in ogni momento” l’affidamento in prova nei casi particolari al magistrato del pubblico ministero competente a curare l’esecuzione della sentenza .
Il primo aspetto che ci preme sottolineare è il fatto che il condannato può formulare la domanda in ogni momento, e ciò, anche a seguito della riforma dell’art.656cpp., comporta due diverse ipotesi:
a) se il condannato è già stato privato della libertà (in carcere o agli arresti domiciliari), presenta la domanda al magistrato del pubblico ministero che ha emesso l’ordine di esecuzione e quest’ultimo, accertato che, non osti il limite di pena di cui al primo comma dell’art.94, ordina la scarcerazione del condannato e trasmette immediatamente gli atti al Tribunale di Sorveglianza per la decisione (art.91 comma 4);
b) se il condannato si trova in stato di libertà e la pena è contenuta nel limite dei quattro anni, il magistrato del pubblico ministero, che sia a conoscenza dello stato di dipendenza (onde poter distinguere le ipotesi di sospensione ex 656cpp.), sospende l’esecuzione della pena detentiva e dispone la consegna dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione al condannato, con avviso della facoltà di presentare, nel termine perentorio di trenta giorni, istanza adeguatamente documentata per l’ammissione all’affidamento terapeutico. L’istanza deve essere presentata allo stesso magistrato del pubblico ministero per la successiva trasmissione al Tribunale di Sorveglianza competente in relazione al luogo in cui ha sede lo stesso ufficio procedente (art.656cpp.);
c) se il condannato si trova ancora in stato di libertà, purché la pena, anche residua, sia contenuta nel limite dei quattro anni, ma il magistrato del pubblico ministero non sia a conoscenza dello stato di dipendenza (onde poter distinguere le ipotesi di sospensione ex 656cpp.), può presentare istanza adeguatamente documentata per l’ammissione all’affidamento terapeutico al magistrato che a norma dell’art.91 comma 3 e 4 sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, al quale trasmette immediatamente gli atti.
Tale teoria, che considera ancora vigente l’art.91 comma 3 del DPR 309/90, non è condivisa da una parte della dottrina, in quanto quest’ultima ritiene tale comma abrogato implicitamente dall’art.656cpp. comma 5, nella parte in cui si riferisce al condannato libero.
L’istanza di intraprendere o di poter proseguire un programma di disintossicazione deve provenire dal solo interessato: l’art.57 dell’ordinamento penitenziario, che prevede la facoltà di richiesta dei benefici penitenziari anche ai congiunti del condannato, non prevede l’applicazione di tale facoltà relativamente all’affidamento in prova nei casi particolari.
La ratio di tale esclusione è da rinvenirsi con molta probabilità nell’intento del legislatore di prevenire quelle domande che non sono frutto di una adesione precisa, completa, incondizionata, pienamente consapevole al programma di recupero, ma di una scelta strumentalizzata allo scopo di ottenere l’esonero dal carcere[35].
Una parte della dottrina[36] ritiene che data la precarietà psicofisica del richiedente, questii non è in grado di assumere decisioni così importanti e pertanto dovrebbe ritenersi applicabile anche per l’affidamento nei casi particolari la facoltà di cui all’art.57 ordin.penit.
Alla richiesta della concessione della misura va allegata, a pena di inammissibilità, la certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica che attesti, da un lato, lo stato di dipendenza, dall’altro, l’idoneità del programma concordato al recupero fisico (e eventualmente psicologico) del richiedente.
Relativamente alla certificazione da allegare non sono ammessi documenti equipollenti.
In ogni caso non è sufficiente un generico programma o una generica dichiarazione della comunità che dichiara che la domanda sarà presa in considerazione se vi saranno le condizioni.
Con il d.l. n. 341/00, convertito in Legge. n. 4/01, l’art. 91 del Testo Unico degli stupefacenti ha subito una modifica relativa all’allegazione della documentazione ora indicata che viene ad essere richiesta a pena di inammissibilità della domanda di concessione dell’affidamento. La documentazione può in ogni caso essere depositata nella cancelleria del Tribunale di Sorveglianza fino a cinque giorni prima dell’udienza fissata ex art. 666cpp, comma3. In ogni caso l’art. 656cpp prevede la facoltà del Tribunale di Sorveglianza di acquisire d’ufficio documenti e informazioni.
L’esistenza di un programma concordato e la attestazione di idoneità al recupero si presentano come condizioni oggettive per la concessione della misura, nonché come presupposti necessari ma non sufficienti per la verifica da parte dell’autorità giudiziaria dei requisiti di fruibilità della misura, poiché il giudice, essendo vincolato solo alla legge, deve effettuare, dopo apposite indagini, anche un giudizio prognostico positivo in ordine alla prospettiva di recupero, anche attraverso la formulazione di prescrizioni rieducative.
In ordine alla certificazione sanitaria di corredo alla domanda di affidamento, questa deve essere aggiornata, comprensibile ed incentrata sulla realtà dei fatti e sulle motivazioni del soggetto richiedente più che sugli auspici.[37]
Le certificazioni, inoltre, devono essere rilasciate da una struttura sanitaria pubblica e non ammettono equipollenti o accertamenti sostitutivi da parte del medico privato al fine di evitare che lo stato di tossicodipendenza o alcoldipendenza o l’esecuzione del programma di recupero siano in qualche modo preordinati al conseguimento del beneficio[38].
Suscita notevole preoccupazione la mancanza di criteri circa la struttura sanitaria pubblica abilitata a rilasciare la certificazione, nonché la mancata previsione di un divieto di rivolgersi ad altre strutture pubbliche in caso di prima attestazione negativa, fatto che comporta che il soggetto interessato si rivolga ad una pluralità di strutture sanitarie pubbliche finché non ottenga la necessaria certificazione[39].
Altra fonte di preoccupazione è rappresentata, poi, nel caso di condannato libero, ex art.656cpp, la esiguità del termine di trenta giorni dalla consegna del provvedimento esecutivo e di quello sospensivo e del relativo avviso, concesso al condannato per poter presentare la domanda di affidamento, soprattutto in considerazione della cronica lentezza dell’amministrazione sanitaria e della complessità della certificazione richiesta.
L’art.94 DPR 309/90 parla di “idoneo” programma terapeutico” ma omette di indicare i parametri per una obiettiva valutazione ai fini della certificazione.
Il programma di recupero, pertanto, nella molteplicità di tecniche e di metodologie, in tanto è idoneo in quanto si configura non solo e non tanto come strumento di mantenimento e disintossicazione del soggetto, quanto piuttosto come strumento di maturazione necessario, inteso a favorire una revisione critica del proprio precedente agire.
Come già detto, ai fini della richiesta di affidamento, l’art.94 comma 1 richiede che sia presentato un programma concordato con il SERT, e ad esso sia allegata, a pena di inammissibilità, la certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica attestante lo stato di dipendenza e la idoneità ai fini del recupero del condannato, del programma concordato. Nel successivo comma 3 si precisa che ai fini della decisione il Tribunale di Sorveglianza può acquisire copia degli atti del procedimento e disporre gli opportuni accertamenti in ordine al programma terapeutico; deve altresì accertare che lo stato di dipendenza o l’esecuzione del programma di recupero non siano preordinati al conseguimento del beneficio.
Emerge con tutta evidenza quindi che il legislatore vuole prevenire che lo stato di dipendenza e il programma di recupero siano preordinati allo scopo di evitare il carcere. Tale constatazione non appare del tutto condivisibile dal momento che la disciplina dell’affidamento in prova nei casi particolari non comporta alcuna osservazione[40]e, ammesso pure che il soggetto sia diventato tossicodipendente o alcoldipendente al solo fine di eludere il carcere, è sempre preferibile il recupero mediante un trattamento terapeutico rispetto all’esecuzione di una pena detentiva[41], in quanto si tratta pur sempre di un soggetto “problematico”, e pertanto il Tribunale di Sorveglianza deve adeguatamente motivare la decisione anche sul punto attinente alla preordinazione.
La struttura con cui va concordato il programma di recupero può essere una ASL oppure una struttura privata, la cd. comunità terapeutica. Tale comunità è un ente che, senza fine di lucro, si occupa di prevenire il disagio psicosociale, e di assistere e curare la riabilitazione ed il reinserimento del tossicodipendente, avvalendosi di strutture e personale altamente esperto in materia. Queste comunità, in effetti, sono venute a costituire una vera e propria alternativa al carcere e spesso rappresentano l’ambiente in cui il tossicodipendente, una volta recuperato, diviene compartecipante del sistema comunitario e, con il suo apporto materiale, si affianca, nell’opera di recupero, ai responsabili del centro.

Il programma di recupero. L’affidamento è concedibile non solo quando il richiedente abbia già intrapreso un programma di recupero ma anche se a questo intenda sottoporsi per il futuro, ma è necessario concordare tempestivamente il programma, poiché la Suprema Corte di Cassazione ritiene inammissibile l’istanza accompagnata da una attestazione della Comunità terapeutica di una semplice disponibilità all’accoglienza del detenuto tossicodipendente, senza che sia stato concordato un idoneo programma[42].
Inoltre, anche se il fatto che manca la allegazione della certificazione da parte della struttura pubblica circa lo stato di dipendenza e circa l’idoneità del programma rende inammissibile la domanda, il Tribunale di Sorveglianza, con i suoi ampi poteri istruttori previsti con la riforma ex d.l. n.341/00, può verificare le condizioni richieste dalla legge anche solo sulla base di una probante documentazione da parte della Comunità di recupero[43].
L’attestazione dello stato di dipendenza e il giudizio di idoneità del programma, infatti, pur essendo corredo necessario all’istanza di affidamento non costituiscono un vincolo per il Tribunale di Sorveglianza, essendogli consentito di disporre gli opportuni accertamenti, anche tramite gli organi di polizia giudiziaria, ed essendogli imposta la valutazione circa la mancata preordinazione[44].
Ne consegue, inoltre, che il beneficio non può essere concesso se manca, secondo valutazione motivata del giudice competente, la effettiva idoneità del programma terapeutico ai fini del conseguimento di un risultato utile, a nulla rilevando che tale mancanza sia riconducibile a responsabilità professionale di chi, nell’ambito dell’organismo abilitato, ha elaborato il programma[45].
Ai fini della formulabilità di un favorevole giudizio prognostico circa l’esito dell’affidamento in prova nei casi particolari, è necessario anche che il comportamento del soggetto sia tale da garantire un minimo di probabilità che la misura, anche attraverso le prescrizioni che devono accompagnarla, possa contribuire alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati, così come è richiesto anche ai fini dell’affidamento in prova al servizio sociale ex art.47 ord.penit[46].
Il programma terapeutico non deve essere necessariamente attuato in una struttura “residenziale”, ma deve solo essere concordato, ex art.94, con una Asl o con un Ente, associazione o cooperativa o privato per legge abilitato: il diniego non può essere validamente motivato con il semplice richiamo alla mancata previsione dell’attuazione del programma di recupero in una struttura residenziale, essendo invece necessario che il giudice motivi specificamente le ragioni per cui ritiene inidoneo il programma terapeutico[47].
E comunque in caso di diniego dell’istanza per inidoneità del programma terapeutico, il Tribunale di Sorveglianza deve invitare l’interessato a presentare una nuova e diversa proposta da sottoporre a verifica.
Un ultimo aspetto da segnalare riguarda il ruolo del servizio sociale dell’amministrazione penitenziaria, e degli organi di polizia circa la realizzazione del programma terapeutico.
Il centro servizio sociale adulti, C.S.S.A., secondo alcuni[48] è chiamato a svolgere un duplice ruolo, di collaborazione con le Comunità ai fini del recupero fisico dell’interessato, e, contemporaneamente, di supervisione e garanzia dello svolgimento corretto della prova.
I C.S.S.A. sono stati istituiti con la legge 354/75 art.72, che prevede la costituzione presso le sedi degli uffici di sorveglianza, e rappresentano uno strumento essenziale per l’acquisizione di elementi necessari e utili ai fini dell’adozione dei provvedimenti e per la gestione delle misure da parte del magistrato.
L’art.72 comma 4 stabilisce: “i centri, a mezzo del personale di servizio sociale, provvedono ad eseguire, su richiesta del magistrato di sorveglianza o del Tribunale di Sorveglianza, le inchieste sociali utili a fornire i dati occorrenti per l’applicazione, la modificazione, la proroga e la revoca delle misure di sicurezza e per il trattamento dei condannati e degli internati”.
I Centri rappresentano anche un punto di raccordo tra i luoghi di pena e la società libera in quanto le loro inchieste sociali sono un presupposto indefettibile per la corretta adozione delle decisioni dell’autorità giudiziaria di sorveglianza, nonché fonte diretta di informazioni per la stessa autorità, strumento per la diretta conoscenza delle vicende umane dei condannati, dei presupposti prossimi e lontani dei fatti delittuosi, delle prospettive serie e verificabili di reinserimento sociale.
I Centri inoltre secondo il comma 5 prestano su richiesta della direzione degli istituti, opera di consulenza per favorire il buon esito del trattamento penitenziario, mentre gli assistenti sociali, secondo l’art.81, espletano compiti di vigilanza e di assistenza nei confronti dei sottoposti a misure alternative alla detenzione (specialmente nel caso dell’affidamento in prova) e inoltre partecipano alle attività di assistenza ai dimessi.
Per quanto riguarda l’affidamento in prova nei casi particolari una parte della dottrina[49]afferma che essendo l’attività terapeutica di competenza degli Enti menzionati dall’art.1 bis L.22 aprile 1985 n. 144, sembra logico ritenere che a questi Enti siano affidate le funzioni di sostegno, di modulazione del programma e di informazione e controllo, e non ai servizi sociali.
Tale concezione, pur condivisibile secondo un’interpretazione letterale della norma, non sembra accoglibile se si considera che l’art.94 al sesto comma stabilisce che per quanto non diversamente stabilito si applica la disciplina della legge 354/75, come modificata dalla legge 663/86, e pertanto non vi sono preclusioni all’operatività dei servizi sociali anche nel nostro caso dal momento che un conto è la funzione terapeutica di sostegno e di programmazione che spetta alla comunità, un conto è la funzione relativa alle indagini sociali, come sopra spiegato, che richiede una specifica professionalità che non può appartenere alle comunità terapeutiche, bensì ai Centri servizi sociali per adulti.
Gli organi di polizia, infine, devono coordinarsi con i C.S.S.A. nei loro interventi, i quali consistono nel riferire circa le violazioni delle prescrizioni formulate dal magistrato di sorveglianza e, nel caso di perpetrazione dei reati, gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria riferiranno per iscritto al magistrato del pubblico ministero secondo competenza( art.347cpp comma 1), informando sempre e comunque immediatamente il magistrato di sorveglianza.

Il procedimento. Con la proposizione della domanda di affidamento in prova nei casi particolari, nella forma e con i modi analizzati in precedenza, si avvia il procedimento per la concessione della misura alternativa.
Con riferimento alla natura dei provvedimenti che il magistrato del pubblico ministero deve adottare all’atto di presentazione dell’istanza, occorre distinguere il caso in cui si procede ex art.656cpp. dal caso in cui si procede ex art.91 comma 3 e 4.
Nel primo caso l’art.656cpp., comma 5, così come riformato dalla L. n.165/98, prevede la sospensione automatica dell’esecuzione ad opera del magistrato del pubblico ministero, che abbia verificato la esistenza del requisito del limite edittale previsto dalla legge, senza preventiva domanda dell’interessato e, solo successivamente, il condannato ha facoltà, entro trenta giorni, di presentare una istanza di affidamento in prova corredata dalla necessaria documentazione, al magistrato del pubblico ministero che, a norma del comma 6, provvede a trasmettere la documentazione al Tribunale di Sorveglianza. In tale previsione risulta chiaro che, in ordine alla domanda di affidamento, il legislatore, nulla disponendo circa un eventuale potere di vaglio preliminare imperniato anche sulla sola regolarità formale degli elementi allegati, ha riconosciuto al magistrato del pubblico ministero solo un potere di trasmettere l’istanza al Tribunale di Sorveglianza competente.
Nel caso in cui il condannato non è libero oppure è libero ma non ha beneficiato della sospensione ex art.656cpp., si applica l’art.91 comma 3 e 4 DPR. n.309/90, che prevede che la sospensione della esecuzione o la scarcerazione siano disposta dal magistrato del pubblico ministero se non osta il limite edittale previsto, su domanda di parte; il magistrato trasmette gli atti al Tribunale di Sorveglianza che decide entro quarantacinque giorni.
In tali ultime ipotesi, circa la valutazione della domanda da parte del magistrato del pubblico ministero si devono segnalare diversi contributi dottrinali, divisi in due filoni. Secondo una concezione[50], il magistrato del pubblico ministero ha un potere di delibazione di natura meramente formale sulla istanza.
Si tratterebbe in sostanza di effettuare una valutazione di legittimità, senza alcuna delibazione circa la sua fondatezza, mentre è riservata esclusivamente al Tribunale di Sorveglianza ogni valutazione di merito. Il magistrato del pubblico ministero deve verificare che la pena sia contenuta nel limite stabilito dalla legge.
Secondo un'altra concezione[51], il magistrato del pubblico ministero, pur non potendo effettuare un controllo di merito, deve verificare che esista la certificazione, che quella prodotta non sia falsa o rilasciata da un’autorità sanitaria privata, oppure consistente in una mera riproduzione di una certificazione precedente; deve accertare altresì l’assenza della preclusione soggettiva costituita dall’aver ottenuto due volte l’affidamento, nonché valutare la validità della certificazione almeno dal punto di vista dell’originalità onde evitare che il condannato riproponga sistematicamente una domanda corredata da certificazione non valida per sottrarsi al carcere.
Secondo la giurisprudenza di legittimità infine, il magistrato del pubblico ministero al quale viene richiesto l’affidamento, deve effettuare una rigorosa valutazione circa il fumus di tutti i presupposti voluti dalla legge su cui si pronuncerà, poi, con pieni poteri, il Tribunale di Sorveglianza[52], e se è stata già respinta una richiesta e il condannato presenta una seconda istanza, il magistrato del pubblico ministero deve verificare che vi sia un “quid novi” rispetto alla precedente istanza, verifica, questa, che comporta una valutazione estrinseca non discrezionale, onde evitare che il condannato possa indefinitamente paralizzare l’attuazione del titolo esecutivo[53].
Apparentemente sembra che con tali poteri di delibazione concessi al magistrato del pubblico ministero, la disciplina della concessione dell’affidamento per il tramite della sospensione ex art.91 DPR .309/90, rispetto al caso della sospensione ex art.656cpp che prevede solo il potere di trasmissione degli atti al Tribunale di Sorveglianza, conceda maggiori poteri al magistrato, forse per il fatto che egli deve comunque decidere in seguito ad una istanza dell’interessato mentre nel caso dell’art.656cpp. la sospensione è concessa direttamente dalla legge.
A ben vedere però, sia l’art.656cpp., sia l’art.91 DPR prevedono, pur nella diversità dei tipi di controllo, ampi poteri al magistrato del pubblico ministero, mentre la differenza sostanziale si deve rinvenire nel momento operativo e nella funzione di tali poteri, che nel caso dell’art.656cpp. sono propedeutici alla sospensione automatica e alla domanda, mentre, nel caso ex art.91 Testo Unico degli stupefacenti il controllo segue alla domanda in quanto finalizzato ad accertare preliminarmente la serietà della istanza o quantomeno il rispetto dei requisiti previsti dalla legge.
Con la legge 663 del 1986 l’organo competente a decidere sull’istanza diviene il Tribunale di Sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del magistrato del pubblico ministero investito dell’esecuzione.
Tale regola si presenta come chiara eccezione alla norma del 677cpp, comma 2, che prevede che la competenza per territorio nella materia attribuita alla magistratura di sorveglianza per il procedimento relativo a condannati non detenuti, si radica nel giudice del luogo di residenza o di domicilio dell’interessato.
Le cose non sembrano cambiare con l’introduzione dell’art. 94 DPR. 309/90 dal momento che la clausola di rinvio contenuta all’ultimo comma richiama, per quanto riguarda la materia della competenza territoriale, il criterio introdotto dalla L.663 del 1986. Inoltre, tale specifica competenza sembra essere maggiormente rispondente ad instaurare un immediato collegamento tra il giudice dell’esecuzione e il giudice funzionalmente competente a decidere in materia di concessione di misure alternative.
Il Tribunale di sorveglianza territorialmente competente, ricevuti gli atti, nomina un difensore d’ufficio al condannato che ne è sprovvisto e, a norma del comma 1 dell’art.92 DPR. 309/90, fissa senza indugio, cioè senza rispettare il termine di quarantacinque giorni previsto per la decisione, dal comma 6 dell’art. 656cpp., la data della trattazione dell’udienza, curando che siano avvisati, almeno cinque giorni prima, il richiedente, il difensore e il magistrato del pubblico ministero.
L’art.656, comma 6, impone al Tribunale di Sorveglianza di decidere sull’istanza nel termine di quarantacinque giorni. Tale termine ha carattere meramente ordinatorio, infatti nemmeno l’esaurirsi di tale arco temporale coincide con la ripresa della pena in forma detentiva oppure secondo le modalità alternative eventualmente applicate. Peraltro, il prevedibile aggravio del carico giudiziario conseguente all’entrata in vigore della nuova legge, rende irrealizzabile il rispetto del termine.
L’interessato, a differenza del normale procedimento di sorveglianza, deve partecipare personalmente all’udienza, pena la dichiarazione di inammissibilità della domanda. Infatti l’art.92, comma 1, così come richiamato dall’art.94, comma 2, dispone che se non è possibile notificare l’avviso al condannato nel domicilio indicato nella richiesta e se lo stesso non compare all’udienza, il Tribunale dichiara inammissibile l’istanza di affidamento in prova.
Il legislatore con questa previsione auspica che, attraverso la personale presenza in udienza del condannato, si manifesti la serietà della dichiarazione dell’intento di quest’ultimo di sottoporsi al programma di recupero o di proseguirne uno già intrapreso e, d’altra parte, presume che un soggetto malato e che ha eventualmente in corso una terapia sia facilmente reperibile al domicilio da lui stesso indicato.
Per l’ammissibilità della domanda in giudizio, interpretando a contrario l’art.92, comma 1, si richiedono due presupposti, la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza nel domicilio indicato e la comparizione dell’udienza.
Il riferimento al domicilio indicato nella richiesta lascia presumere la esistenza di un onere, non esplicito nella norma, a carico del richiedente di eleggere domicilio, in linea con il criterio stabilito nell’art.161 cpp. che prevede l’obbligo dell’imputato di dichiarare o eleggere il domicilio e comunicare all’autorità tempestivamente ogni sua variazione.
Questa disposizione prescrive di rivolgere, già nel primo atto compiuto dalla polizia giudiziaria o dal magistrato del pubblico ministero, invito che va ripetuto all’imputato, con l’avvertenza che la mancata, insufficiente o inidonea dichiarazione o elezione, di regola efficace per tutto il corso del procedimento, importerà la notifica degli atti nel luogo in cui l’atto stesso è stato notificato ovvero mediante consegna al difensore.
L’art.92 DPR 309/90, in deroga ai principi generali non richiede la formale notifica ma la relazione di omessa notifica. Tale disposizione a carattere eccezionale è giustificata dalla circostanza che, riconoscendosi al richiedente un vantaggio immediato di sospensione dell’esecuzione e della scarcerazione, è opportuno far carico al richiedente stesso di agevolare lo svolgimento del procedimento o almeno di non ritardarlo con strategiche omissioni o dilazioni.
Ci si è posti il problema se ai fini della inammissibilità della richiesta sia necessaria la mancanza di entrambi o di uno solo di tali requisiti.
Ai fini dell’inammissibilità occorrono entrambi i requisiti, cioè la relazione di omessa notifica e la mancata comparizione, ma la giurisprudenza ha chiarito che, nel rispetto della ratio della norma che vuole garantire l’analisi della serietà delle intenzioni dell’interessato, ai fini dell’ammissibilità è veramente rilevante solo la effettiva presenza fisica in udienza dell’istante anche indipendentemente dall’esito della notifica[54].
Se ricorrono i due già citati presupposti di ammissibilità della domanda, il Tribunale di Sorveglianza procede nel merito.
L’affidamento in prova nei casi particolari è una misura alternativa che presuppone una valutazione prognostica favorevole sulla recuperabilità del condannato dallo stato di tossicodipendenza o di alcoldipendenza; tale valutazione è sostanzialmente l’oggetto del giudizio davanti al Tribunale di Sorveglianza che deve quindi accertare la serietà dell’intento di sottoporsi al programma o di proseguirne uno già intrapreso, idoneità del programma terapeutico, esito negativo dell’indagine, obbligatoria secondo il comma 3 dell’art.94, circa la non preordinazione dello stato di dipendenza e del programma di recupero[55].
Tali accertamenti, secondo l’art.94, comma 3, devono essere effettuati dal collegio con ampi poteri, infatti, quest’ultimo ha facoltà di acquisire copie degli atti del procedimento di cognizione e disporre gli accertamenti che ritenga opportuni in ordine al programma di recupero, anche tramite i C.S.S.A. e gli organi di polizia.
La giurisprudenza, infine, ha ritenuto che si debba verificare, ai fini della concessione dell’affidamento, l’assenza di altri titoli custodiali i quali frustrano la possibilità di applicazione della misura alternativa.
Non si può fare a meno di segnalare i pericoli che possono derivare dai contrasti tra i vari organi giudiziari, da una parte, e penitenziari, assistenziali e comunitari dall’altra, dovuti anche alla carenza di strumenti e di tecniche giudiziarie per valutare nel merito la idoneità del programma e la attendibilità della certificazione, che possono avere come effetto una valutazione medico-sociologica molto spesso infondata[56].
D’altra parte, però, è la stessa giurisprudenza di legittimità che stabilisce che il giudizio di idoneità del programma formulato dalla autorità sanitaria pubblica non è mai vincolante per il giudice che è vincolato solo alla legge e non alla pubblica amministrazione (sanitaria)[57].
Un altro pericolo può derivare dal termine ordinatorio di quarantacinque giorni previsto dall’art.656cpp, comma 6, che comporta una valutazione da parte del Tribunale che sopraggiunge dopo molto tempo dalla dichiarazione del proposito rieducativo del condannato: infatti un eventuale rifiuto della concessione della misura comprometterebbe le esigenze di prontezza e di effettività dell’esecuzione, costringendo irrazionalmente il condannato alla soggezione alla pena molto tempo dopo la sentenza di condanna definitiva.
Altra perplessità scaturisce dall’obbligo imposto dal comma 3 dell’art.94 al Tribunale di Sorveglianza di accertare che lo stato di dipendenza o l’esecuzione del programma terapeutico non siano preordinati al conseguimento del beneficio.
Tale obbligo, pur ergendosi a garanzia contro eventuali forme di abuso, non è di facile realizzazione pratica e comunque se un soggetto si è posto in stato di dipendenza da alcol o droga allo scopo esclusivo di godere del beneficio è divenuto dipendente da tali sostanze e in quanto tale va comunque curato anziché sottoposto a una pena detentiva che non avrebbe effetto risocializzante.
Il giudizio trova la sua naturale conclusione nella decisione, contenuta nell’ordinanza del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di accoglimento o di rigetto della domanda. Ove ricorrano le ipotesi di cui all’art. 92, comma 1 del T.U. oppure nei casi di manifesta infondatezza per difetto delle condizioni di legge, il cui riscontro non richiede valutazione discrezionale, l’ordinanza sarà dichiarativa della inammissibilità della domanda.
In ogni caso l’ordinanza sarà comunicata all’interessato che ha diritto di impugnazione nonché al magistrato del pubblico ministero competente per l’esecuzione.
L’ordinanza di rigetto interrompe la sospensione dell’esecuzione ed ha come effetto la emissione dell’ordine di carcerazione (art.92, comma 3).
Il rigetto è legittimo se motivato con la prognosi di reiterazione dei reati, desunta dallo stato di dipendenza dichiarato dallo stesso interessato, quando la carenza di autocontrollo sia tale da rendere incompatibili gli scopi di cura, rieducazione e prevenzione propri dell’affidamento[58].
Con l’ordinanza di accoglimento della richiesta di misura alternativa, invece, il Tribunale di Sorveglianza impartisce le opportune e “specifiche” prescrizioni circa le modalità di esecuzione del programma e i controlli per accertare che il tossicodipendente o l’alcoldipendente prosegua il programma di recupero (art.94, comma 4). La tipologia di prescrizioni specifiche sancita dalla norma, testimonia la finalità terapeutica di cui è portatore l’affidamento in prova nei casi particolari.
Stante la norma di chiusura del comma 6 tra le prescrizioni devono ricomprendersi anche quelle indicate nell’art.47 ord. penit.
Secondo una parte della dottrina[59] le prescrizioni di cui all’art.47 sono ammesse solo se la loro osservanza non si ponga in contrasto con la prosecuzione del programma terapeutico.
In realtà, sembra che le prescrizioni di cui all’art.47 ord.penit., relative ai rapporti del condannato con il servizio sociale, dimora, libertà di frequentazione e di locomozione, debbano obbligatoriamente affiancarsi a quelle “specifiche” di cui all’art. 94 T.U., in quanto i servizi sociali sono tenuti professionalmente a compiti di controllo cui sono finalizzate proprio le prescrizioni dell’art.47 ord.penit[60].
Un ultimo aspetto riguarda la norma dell’art.94, comma 4, “l’esecuzione della pena si considera iniziata dalla data di sottoscrizione del verbale di affidamento”.
Tale disposizione è necessaria per la corretta gestione della misura allo scopo di fissare in modo preciso e chiaro il momento di decorrenza del tempo di sottoposizione alle prescrizioni e il momento di cessazione dell’esecuzione della pena poiché non sempre la data di sottoscrizione del processo verbale di determinazione delle prescrizioni per l’affidamento coincide con la data dell’ordinanza di concessione della misura.

La concessione della misura. La norma di chiusura del comma 6 dell’art.94 DPR 309/90, rinviando, per quanto non diversamente stabilito, alla disciplina dell’ordinamento penitenziario L.354/1975, lascia intendere che la disciplina degli epiloghi della prova viene affidata all’art.47 ord.penit. il cui ultimo comma prevede espressamente che nel caso di buona riuscita del trattamento alternativo, si estingue la pena e gli altri effetti penali.
Si pone un problema di stabilire quando il trattamento ha un esito positivo.
Si ritiene in dottrina che più che l’uscita dalla tossicodipendenza occorre valutare, in luogo della verifica dei risultati e dell’efficacia della terapia, che il contegno del condannato sia sostanzialmente non elusivo degli interventi programmati. Pertanto l’esito positivo si esaurisce nella esecuzione ininterrotta del programma terapeutico.
A contrario, ogni inosservanza che pregiudica la continuità della terapia integra un comportamento incompatibile che provoca la fine anticipata della misura, mediante lo strumento della revoca che ha un ruolo di rinforzo positivo[61] della scelta terapeutica, infatti la minaccia della revoca serve a dissuadere l’interessato dall’interruzione delle attività terapeutiche, dalle quali dipende la valutazione sulla effettività della prova.
Tale forza intimidativa è rappresentata in concreto dal fatto che il Tribunale di Sorveglianza, procedendo alla revoca, deve determinare il residuo di pena tenendo conto della durata delle limitazioni patite, e del comportamento dell’interessato[62].
Ove poi la prova abbia termine non per il suo esaurirsi naturale ma per motivi comunque indipendenti dalla condotta del condannato durante l’affidamento, quali possono essere le cause di inammissibilità originarie o sopravvenute che determinano l’annullamento del provvedimento applicativo della misura, si ritiene che debba dedursi dalla durata della pena il periodo trascorso in affidamento in prova.
Il principio della detraibilità è condivisibile dal momento che il tossicodipendente o l’alcoldipendente in affidamento, molto spesso, è costretto ad un regime estremamente restrittivo anche all’interno della comunità terapeutica, che, se non preso in considerazione dal giudice, darebbe luogo alla trasformazione della misura alternativa dell’affidamento in una misura aggiuntiva alla detenzione stessa[63].
Tuttavia la revoca avrà efficacia ex tunc allorquando risulti che il beneficiario della misura, arrestato per spaccio di stupefacenti a distanza di un anno dall’inizio del periodo di prova, già prima aveva ripreso a far uso di droga: ciò denota che il periodo di affidamento non ha avuto alcuna incidenza positiva ai fini della prevenzione speciale[64].
La Suprema Corte, poi, ha precisato che, pur se l’affidamento si considera iniziato dalla data del verbale di affidamento, la causa della revoca non deve necessariamente verificarsi in epoca successiva a quella della sottoscrizione di detto verbale, essendo tale revoca collegata non alla data dell’insorgenza del comportamento che la produce, bensì alla natura negativa, ai fini della permanenza della misura premiale, del comportamento dello stesso, ben potendo una tale circostanza essere sconosciuta e quindi non valutabile dal giudice al momento della concessione pur essendosi verificata in epoca anteriore alla decisione[65].
La giurisprudenza infine ha ritenuto legittima la revoca dell’affidamento in prova del tossicodipendente motivata dalla volontaria interruzione del programma terapeutico, a nulla rilevando l’eventuale scelta di altro centro di recupero da parte dell’affidato in quanto non gli sono consentite né una personale gestione del programma, né la scelta autonoma della comunità presso la quale seguirlo[66].
L’art.94, comma 5, prevede che l’affidamento terapeutico non può essere concesso più di due volte.
Vi è concordanza di vedute, sia in dottrina che in giurisprudenza, nel ritenere che la norma in commento debba essere riferita ad originarie ed autonome pronunzie concessive del Tribunale di Sorveglianza in funzione di specifici percorsi terapeutici per fatti commessi successivamente alla prima o alla seconda concessione, in quanto si dimostrerebbe una persistente inidoneità del programma terapeutico che vanifica le finalità rieducative, e in tal caso l’esecuzione della pena sarebbe più appropriata alle esigenze special-preventive.
La norma non si riferirebbe, invece, a provvedimenti estensivi del beneficio in corso, per cui nulla impedisce la estensione dell’affidamento già in corso ove giungano più condanne in tempi diversi[67].
La possibilità di concedere due volte l’affidamento terapeutico è dettata da un duplice ordine di motivi. Essa intende, per un verso, limitare quel diritto alla scarcerazione su domanda, introdotto sulla base della domanda dell’interessato fondata sul mero proposito di sottoporsi al programma di recupero, quando le finalità riabilitative non si sono realizzate , cioè quando il richiedente ha alle spalle più di un fallimento e ancora non dimostra di riuscire a seguire un programma di recupero[68].
Per altro verso, il legislatore, nel permettere la concedibilità della misura per due volte, è stato particolarmente indulgente verso chi si trovi in stati di dipendenza dall’alcol o dalla droga in quanto è partito dalla constatazione che il percorso di uscita dallo stato di dipendenza è molto spesso ostacolato da inciampi e da ricadute.
Del resto, non garantire una seconda possibilità a chi non è riuscito a liberarsi dalla droga o dall’alcol significa vanificare la ratio dell’affidamento in prova nei casi particolari, che – è sempre opportuno ricordare – risponde, sì alla esigenza di sfoltire gli istituti penitenziari, ma soprattutto a quella di aiutare un soggetto “molto problematico” ad uscire dal tunnel della dipendenza da sostanze alcoliche o stupefacenti.

La natura giuridica. L’introduzione dell’affidamento in prova nel nostro ordinamento risponde ad una esigenza, particolarmente sentita nei Paesi moderni, di articolare il sistema di difesa sociale con il ricorso a strumenti differenziati, proporzionati alle esigenze di prevenzione, di repressione e rieducazione in relazione alla gravità della condotta criminosa.
La detenzione, in un sistema penitenziario moderno che deve disporre di numerose alternative di intervento, deve essere considerata extrema ratio: da questo presupposto sono scaturite i provvedimenti in materia di depenalizzazione, decriminalizzazione e gli interventi sostitutivi alla detenzione, che si avvalgono di forme di controllo della condotta da espletarsi in apposite comunità.
Fra tali forme dette “probation”, alcune consentono una normale vita sociale.
L’affidamento in prova ripete i caratteri essenziali del “probation system” di origine angloamericano che prevede una misura alternativa imposta al condannato, di solito minorenne, di osservare determinate condizioni idonee a facilitare il suo reinserimento sociale sotto la supervisione dei servizi addetti al controllo dei condannati ammessi al probatio. Tale misura è disposta dal magistrato ove ritenga che, nel caso specifico, la detenzione sia inappropriata e sia più utile lasciare il soggetto libero, sotto il controllo di apposito personale specializzato.
Talvolta si richiede per la sua applicazione che il condannato abbia scontato un periodo di detenzione (split sentence). La differenza con il nostro affidamento in prova sta nel fatto che quest’ultimo opera nella fase della esecuzione della pena, mentre il probation viene applicato dal giudice con la sentenza di condanna, di qui l’ulteriore differenza tra probation penitenziaria e probation giudiziale[69].
Nell’analizzare le legislazioni penitenziarie di vari paesi possiamo individuare diversi tipi di probation.
Probation di polizia, probation giudiziale nella fase istruttoria, probation giudiziale nella fase del giudizio con sospensione della pronuncia, probation giudiziale nella fase del giudizio con sospensione dell’esecuzione della condanna, probation penitenziaria.
L’affidamento in prova ha natura di probation penitenziaria, in quanto presuppone una condanna definitiva a pena detentiva, a differenza della probation giudiziaria, che può essere disposta nel giudizio di merito.
La forma di affidamento prevista dal nostro legislatore, poi, non è facilmente distinguibile neppure dall’istituto del “parole”, anch’esso di origine angloamericana che concede di trascorrere in libertà la rimanente parte di pena ancora da scontare a condizione che il condannato osservi le prescrizioni impostegli, tra cui quella del divieto di frequentare persone con precedenti penali, divieto di possedere armi, obbligo di incontrarsi con il personale incaricato della sorveglianza del reo, pena la revoca del beneficio.
L’unica differenza che ci è dato di rinvenire tra il parole, il probation e l’affidamento in prova consiste nel momento cronologico in cui interviene la misura: l’affidamento è un’alternativa totale alla detenzione; nel parole, invece, la liberazione interviene nell’ultima fase della detenzione per verificare che i risultati del trattamento siano stati proficui per il reinserimento sociale; nel probation, infine, la liberazione potrebbe avvenire dopo la sentenza di condanna o dopo un breve periodo di detenzione.
Poiché l’affidamento in prova comporta delle restrizioni alla libertà personale, gli è riconosciuta natura di pena limitativa, a differenza della detenzione che è pena restrittiva. La differenza sostanziale tra i suddetti tipi di pene dipende dalle diverse modalità di esecuzione. La pena detentiva comporta per il condannato un obbligo di “non fare” che trova il suo fondamento nel divieto di muoversi sul territorio.
La misura alternativa dell’affidamento, come del resto tutte le altre misure alternative, impone invece al condannato diverse prescrizioni di “fare”.
Il passaggio dalla situazione sostanzialmente passiva alla situazione attiva richiede, ovviamente, l’adesione volontaria e partecipata del condannato alle prescrizioni che sono a loro volta individualizzate proprio allo scopo di favorire la rieducazione.
Un argomento molto discusso in dottrina è senza dubbio quello concernente la natura giuridica dell’affidamento. Si sostiene da parte della dottrina che l’affidamento ha natura di trattamento sostitutivo della detenzione, mentre le altre misure alternative si configurano come dei benefici.
In realtà, secondo la dottrina maggioritaria, l’affidamento in prova è anch’esso un istituto di diritto sostanziale[70] che conferisce un beneficio, ma il suo contenuto come quello di altre misure alternative rappresenta un trattamento[71].
L’affidamento in prova nei casi particolari è stato introdotto per disciplinare la situazione di particolari soggetti, la cui condotta criminosa è collegata ad uno stato di intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti. Detto stato di intossicazione può influire direttamente sullo stato di coscienza e sul sistema di controllo che regola il comportamento nel momento stesso in cui la sostanza tossica dispiega il suo effetto e indirettamente essendo il reato finalizzato al conseguimento di beni che consentano l’acquisto della sostanza intossicante.
Nei confronti di tali fenomeni la società ha reagito prima condannando l’assunzione di droghe non correlata a comportamenti antisociali, di poi ha preso coscienza, a causa del dilatarsi delle presenze in carcere di soggetti tossicomani, della necessità di combattere tali fenomeni in modo diverso, più adeguato e meno rigido, indirizzando gli sforzi verso la cura del soggetto condannato ad opera di organismi specializzati.
La legislazione attualmente vigente sulla scorta dell’orientamento suddetto si è spinta ancora oltre, prevedendo la possibilità di evitare l’esperienza della carcerazione al condannato tossicodipendente per reati anche diversi da quelli previsti dalla legge sugli stupefacenti, pur se verosimilmente collegati ad uno stato di tossico o alcooldipendenza in cambio di un suo impegno a partecipare ad un programma di recupero.
In sostanza il legislatore, presumendo l’incompatibilità tra stato di detenzione e stato di intossicazione, diviene consapevole che l’esperienza carceraria non è in grado di recuperare i soggetti condannati che si trovino in stato di intossicazione, e che è inopportuno interrompere un programma terapeutico già in atto per eseguire la pena[72], tanto che in dottrina si afferma che le caratteristiche di probation penitenziaria, previste per l’affidamento in prova al servizio sociale si affievoliscono nell’affidamento in prova nei casi particolari[73].
Il legislatore considera dunque il reo, consumatore di droghe o di sostanze alcooliche, un soggetto malato e criminale al contempo, e da curare, senza per questo deresponsabilizzarlo come parte della dottrina[74] afferma.
Se da un lato, dunque, le singole fattispecie di reato relative al soggetto intossicato prevedono un aggravamento della sanzione proprio a causa della preordinata e volontaria assunzione di sostanze stupefacenti, dall’altro l’ordinamento penitenziario è orientato nel senso del “favor curae”.
Il soggetto condannato tossicodipendente o alcooldipendente non è immune da responsabilità ma va aiutato per curarne i disturbi. Quanto alla tematica della paventata deresponsabilizzazione sembra che esso sia un falso problema, in quanto vero è che il condannato possa chiedere l’affidamento solo per gli innegabili vantaggi connessi, ma ciò è connaturale alla stessa struttura della misura che, nell’intenzione del legislatore, deve avere in via prioritaria uno scopo terapeutico.
La funzione terapeutica però, per essere proficua per l’intera collettività, necessita che si determinino le condizioni per una delega disciplinare tra sistema penale e sistema sanitario.
Per comprendere la natura dell’affidamento in prova nei casi particolari si deve confrontarlo con l’affidamento al servizio sociale: mentre per quest’ultimo il legislatore prevede il fine della “rieducazione”, per l’affidamento nei casi particolari invece parla di “recupero”.
La presunta omogeneità tra i due istituti viene a cadere poiché essendo diversi gli scopi dei due istituti, diversa è la natura delle misure, infatti, l’affidamento in prova al servizio sociale si presenta come misura alternativa alla detenzione e tendente alla rieducazione, mentre l’affidamento in prova nei casi particolari consiste in una particolare modalità di esecuzione della pena detentiva che ha come fine ultimo non tanto il recupero sociale, quanto piuttosto il recupero psicofisico, ossia la disintossicazione del reo.
Solo una volta curato, il soggetto intossicato può essere in grado di comprendere il significato della sanzione inflittagli e potrà quindi essere rieducato e risocializzato.
Occorre segnalare l’orientamento giurisprudenziale non pacifico circa la ratio dell’affidamento in prova nei casi particolari: un indirizzo distingue la ratio dell’affidamento da quello delle altre misure alternative in quanto caratterizzato dal fatto che lo scopo del recupero del tossicodipendente o alcooldipendente è svincolato dal fine del reinserimento sociale; altro indirizzo prevede la necessità della sussistenza, al momento della domanda di affidamento, di elementi atti a giustificare un giudizio prognostico favorevole.
In dottrina si evidenzia che l’affidamento in prova nei casi particolari non va inteso quale specificazione dell’affidamento ordinario in quanto il primo prevede delle prescrizioni a carattere terapeutico che si realizzano con il contributo determinante delle comunità; mentre nell’affidamento ordinario il servizio sociale ha il solo compito di controllo del rispetto da parte del condannato delle prescrizioni impartite a fine rieducativo[75].
In definitiva la misura alternativa per il condannato che si trovi in uno stato di intossicazione si presenta come un “diritto speciale” che non rientra nella logica premiale, ma risponde a scopi special-preventivi e tale specialità è interpretata, talvolta, come strumento di decarcerizzazione per ragioni di razionalizzazione dell’organizzazione carceraria, strumento che paradossalmente una parte della dottrina penalistica critica in quanto nei fatti incapace di decarcerizzare.
Si consideri che la maggioranza dei detenuti tossicodipendenti in Italia non gode dell’affidamento: le ragioni di tale disfunzione sono da ricercare nel sostanziale fallimento delle scelte di decarcerizzazione.
Le strutture terapeutiche non sono in grado di farsi carico della cura di tutti i condannati tossicodipendenti e alcooldipendenti, i quali, quindi, non potendo concordare un programma terapeutico, sono costretti a soffrire la pena in carcere.
Nel fare una sintesi dei risultati ottenuti, non si può fare a meno di evidenziare che questi, al di là delle buone intenzioni del legislatore, non sono del tutto soddisfacenti.
Decarcerizzazione a parte, i cui risultati sono presumibilmente positivi, il mancato corretto coordinamento tra art.656cpp e art.94 DPR 309/90, è causa ancora una volta, purtroppo, di notevoli distorsioni.
Più opportune puntualizzazioni da parte del legislatore avrebbero evitato all’operatore del diritto una dispendiosa attività ermeneutica, con tutte le incertezze che da essa derivano.
In sostanza ciò che è mancato al legislatore è stata una visione di insieme, razionale e organica, del sistema punitivo; è mancato purtroppo il necessario coordinamento tra i settori del diritto penale, del diritto processuale e del diritto dell’esecuzione penale.
L’automatismo del provvedimento di sospensione si inserisce nel fenomeno di fuga dalla carcerazione e agevola la fruizione delle misure alternative.
La normativa, innanzitutto, così come è, va comunque a danno di quei soggetti deboli che essa voleva tutelare e da ciò emergono notevoli dubbi di legittimità costituzionale sotto l’aspetto della uguaglianza e della ragionevolezza, dal momento che possono usufruire dei benefici più facilmente i condannati cosiddetti forti, che non necessitano di rieducazione in senso proprio, poiché non provengono da contesti di emarginazione socio-economica.
Viene abbattuto, inoltre, il principio di effettività della pena. Paradossalmente, un’evidente incongruenza consiste nel fatto che non appena la condanna diventa esecutiva con il passaggio in giudicato, se ne sospende l’esecuzione; altri dubbi permangono circa la consegna materiale dell’ordine di esecuzione, la ripresa dell’esecuzione nelle ipotesi di cui al 656cpp, comma 8, nonché la possibilità di una pronuncia del Tribunale di Sorveglianza nel termine di quarantacinque giorni, dato il sovraccarico di accertamenti che dovranno essere effettuati.
Il rischio in tali casi è che può derivare una sospensione sine die dell'esecuzione della pena con conseguente conservazione dello stato di libertà per un numero presumibilmente consistente di detenuti.
Pena e sanzione diventano nella fase esecutiva elementi negoziabili, solo apparentemente orientati ad assolvere la finalità rieducativa della pena sancita dall’art.27 della Costituzione.
Il dato che emerge con forza è che proprio la flessibilità della pena determina lo sgretolarsi del sistema sanzionatorio dovuto alla frattura tra la pena prevista dalla fattispecie incriminatrice, quella irrogata dal giudice di cognizione e quella effettivamente scontata. In tale ipotesi il giudice dell’esecuzione diventa giudice della punizione in concreto, ruolo che dovrebbe appartenere al giudice di cognizione, il quale appare essere, invece, solo giudice della responsabilità del fatto.
La sanzione penale si presenta come entità giuridica priva di quel carattere a lei consono di certezza e puntualità, dal momento che nasce da una scelta legislativa e poi subisce le trasformazioni previste dal diritto penale sostanziale e attribuite prima al giudice della cognizione e poi a quello dell’esecuzione.
Con i meccanismi introdotti dalla riforma le misure cosiddette alternative lungi dall’essere alternative, si presentano come strumenti dilatori dell’esecuzione della pena.
Dal quadro complessivo emerge un’esecuzione penale rimessa ad una discrezionalità eccessiva del giudice. Codesta situazione però, soddisfa le esigenze di chi ritiene che il giudice non deve essere imperturbabile, che la pena non deve essere inflessibile, che il giudice deve capire la società per punire le colpe e comprendere i bisogni, onde rispondere al disagio sociale.


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[1] Kalb, Normando, La sospensione della pena ed espiazione extra moenia, Giuffrè, 1998. Presutti, La sospensione della esecuzione della pena, in AA.VV. a cura di A. Presutti.
[2] Maisto, Confermata l’attività del pubblico ministero quale motore dell’esecuzione penale, in Guida al diritto 1998.
[3] Mazzamuto, Carceri e sistema penitenziario, Gazz.Giur. 1998.
[4] Canepa – Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè 1999.
[5] Cass.Pen. 29 novembre 1994, Pannuccio, Mass.Cass.Pen. 1995.
[6] Proc. Rep. Genova, 29 maggio 1994, Licastro, in Cass.Pen. 1995.
[7] Quanto ai limiti e alla natura del potere di delibazione del magistrato del pubblico ministero si rinvia al paragrafo “ l’istanza di affidamento”.
[8] Fassone Op.cit.
[9] Cass.Pen.sez.I, 2 luglio 1992, Reggiani in Mass.Uff. 1992,m. 191585.
[10] Cass.Pen. 22 settembre 1994, Marucci, Mass.Cass.Pen. 1995.
[11] Fassone, Commento all’art.4 ter., in Legisl. pen. 1986.
[12] Corbi, L’affidamento in prova con finalità terapeutiche, Riv.it.dir.proc.pen.1986.
[13] In senso contrario Corbi, op. cit.
[14] Fassone, Op.cit.
[15] Cass. 4 ottobre 1994 , Santini, Mass.Cass.Pen. 1995,I,133.
[16] Cass.22 maggio 1986, Carminati,Cass.Pen, 1987, 1819.
26 Cass., 5 luglio 1994, Lombardi, Mass.Cass.Pen. 1995,V,79.

27 Cass. 30 maggio 1995, Scangerla, GP, 1996, II, 106; Cass.21 aprile 1997 n.2872, Fiorillo, Cass.Pen.1998.
[19] Catelani, Manuale dell’esecuzione penale, Milano.
[20] Presutti, L’affidamento in prova al servizio sociale. Cass.pen, sezione I, n.1774, 25 marzo 1998.
29 Canepa-Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Milano 1999.
[22] Normando, Limiti alla sospensione delle esecuzioni, in AAVV. Sospensione della pena ed espiazione extra moenia, Milano, 1998.
[23] Ranieri, L’affidamento in prova nei casi particolari, in AAVV. Op.cit.
[24] Maccora, La disciplina dell’art.656 CPP in AAVV. Esecuzione penale e alternative penitenziarie, Cedam, 1999.
[25] Amato, Droga e attività di polizia, Roma 1992, 206.
[26] Corte cost., sent. 11 luglio 1989, in Foro it., 1989, I, 3340, con nota di Albeggiani.
[27] Cass., Sez. I, 12 marzo 1990, Busco, in Cass. pen.1991, I, 1462 e in Giust pen., 1990, II, 658;
Cass., Sez. I, 24 aprile 1991, Bertoldo, in Cass. pen., 1991,I, 1839).
[28] Cass., Sez. 1,13 febbraio 1989, Nasti, in Cass. pen., 1990, I, 679; Cass., Sez. I, 21 novembre 1988, Calvaruso, in Cass. pen., 1990, I, 152; Cass., Sez. I, 21 dicembre 1987, Amico, in Foro it., 1988, II, 356, con nota di Albeggiani.
[29] Cass., Sez. I, 4 novembre 1988, Gallo, in Cass. pen., 1990, I, 152; Cass., Sez. I, 22 gennaio 1988, Zarbo, in Foro it., 1988,II, 355, con nota di Albeggiani.
[30] con la sentenza 26 aprile 1989, Russo, in Cass. pen., 1989, 1443. successivamente, nello stesso senso, Cass., Sez. I, 22 maggio 1989, Pagano, in Cass. pen., 1990, I, 1800; Cass., Sez. I, 22 maggio 1989, Izzi, in Cass. pen., 1990,1,1799).
[31] in Cass. pen., 1992,1976, con osservazioni di Maiorano, In tema di affidamento in prova al servizio sociale.
32 Con la sentenza 1 luglio 1992, Alessandria, in Cass.Pen., 1993 con nota di Cesaris, Affidamento in prova al servizio sociale tra Cassazione rigorista e legislazione lassista.

[33] con la sentenza 18 giugno 1993, Manisco, inedita.
[34] Cass.9 dicembre 1992, n. 5069; Cass.pen. sez.I, 18 novembre 1996, n.6013.
[35] Beconi-Ferrannini, Problemi di applicazione delle misure alternative, in Quest.giust. 1986. La Greca, Trattamento obbligatorio e comunità terapeutiche per i tossicodipendenti, in Foro it.1985. Di Ronza op. cit.
[36] Corbi, L’Affidamento in prova con finalità terapeutiche, Op.cit.
[37] Tribunale di Torino, 30 novembre 1993, Buondonno, in Giur.merito 1995.
[38] Cass.pen. sez I, 20 maggio 1998 n 2935, Regia.
64 Beconi-Ferrannini, Op.cit.

[40] Pierro, Spunti interpretativi sulla legge 10 ottobre 1986 n. 663, in Giust.pen. 1989.
[41] Sclafani-Tuccillo-Vocca, Prima esperienza applicativa dell’affidamento in prova in casi particolari nel Tribunale di sorveglianza di Napoli, in Arch.Pen. 1988.
[42] Cass.Pen. 19 maggio 1994, Limuti, Cass.Pen. 1995.
[43] Cass.Pen. 1 febbraio 1995, Marrone, Cass.Pen. 1996.
[44] Cass.Pen 27 gennaio 1994, Bravin, Cass.Pen.1995. Cass.Pen. sez. I, 16 marzo 1998, n. 1292.
[45] Cass.Pen.28 febbraio 1995, Cavicchia,CP.1996.
[46] Cass.Pen. sez.I, 28 aprile 1997,n.3018, Dessi, in Giust.Pen.1997.
[47] Cass.Pen. 26 ottobre 1995, Siciliano, CP.1996.
[48] Breda-Di –Gennaro-La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione.
[49] Fassone, op.cit.
[50] Canepa-Merlo, De Cataldo, Pepino.
[51] Grasso, commento all’art.12 della l.10 ottobre 1986 in Legisl. Pen. 1987.
[52] Cass. Pen. 16 novembre 1994, Licastro. Mass.Cass.Pen. 1995.
[53] Cass. Pen., sez VI, 3 febbraio 1998, Petruccelli, n. 6552.
[54] Vedi anche Cass.Pen. 27 gennaio 1995, Briganti, in Cass.Pen. 1996.
[55] Presutti, Op.cit.
[56] Di Ronza, Op.cit. Fassone, Op.cit.
[57] Cass. Pen., sez 1, 9 novembre 1995, Meloni, n.4975.
[58] Cass. Pen., sez 1, 8 ottobre 1997, n. 5601, Ferrato, in Giust. Pen. 1998.
[59] Corbi, op.cit.
[60] Fassone, Op.cit.
[61] Skinner, Oltre la libertà e la dignità, Vicenza 1973.
[62] Corte Costituzionale 29 ottobre 1987 n.343, Giani, in Rivista it. Di dir. e proc.pen. 1989. In precedenza, invece, vigeva il principio espresso dalla Corte di Cassazione, sezioni unite, 7 febbraio 1981, Talluto, secondo il quale il periodo trascorso in prova non si detraeva dalla pena da scontare.
[63] Testualmente, Corte Costituzionale 29 ottobre 1987 n.343, Giani.
[64] Cass.Pen., 7 ottobre 1994, Falletti.
[65] Cass.Pen. 6 febbraio 1996, Sfragara, Giur.Pen. 1996.
[66] Cass.Pen. 10 ottobre 1994, Nicotra, in Mass.Cass.Pen. 1995.
[67] De Cataldo, Tossicodipendenza, carcere e misure alternative, in AA.VV. Pepino, Droga, tossicodipendenza e carcere, Milano, 1989. Cass.Pen. 13 luglio 1995, Rella, in Cass. Pen.1996.
[68] Fassone- Basile- Tuccillo, La riforma penitenziaria, Napoli 1987.
[69] Di Gennaro, Bonomo, Breda, op.cit.
[70] Fassone, in Grevi, Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria.
[71] Di Gennaro, Bonomo, Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative Milano 1991.
[72] Fassone, Commento al D.L. 22 aprile 1985 n 144 –l.21 giugno 1985 n 297 in Legisl.pen.1986.
[73] Corbi, L’affidamento in prova con finalità terapeutiche.
6Comucci, Nuovi profili del trattamento penitenziario, Milano 1998.
[75] Insolera, Le sostanze stupefacenti UTET 1994.