Eleonora Vona
Droga e criminalità: la detenzione come rimedio o come ripiego?
www.filodiritto.com - 5 dicembre 2013L’Organizzazione Mondiale della Sanità (1969) definisce droga ogni “sostanza con proprietà farmacologiche psicoattive, in grado di provocare alterazione dell’umore e dell’attività mentale”.
Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) definisce la dipendenza come “una modalità patologica di uso di una sostanza che conduce a menomazione e a disagio clinicamente significativi”.
Ma cosa s’intende per sostanze psicoattive?
Con questo termine si fa riferimento a quelle sostanze che non sono necessarie all’organismo in senso fisiologico, in quanto non apportano nulla a livello nutritivo ed energetico, riguardando i loro effetti solo la sfera psichica. Le proprietà psicoattive di tali sostanze inducono una modificazione dello stato psichico, che è tipica e diversa per ogni sostanza[1].
Il consumo o l’abuso di sostanze psicotrope viene considerato deviante in modo fortemente discrezionale nei tempi e nei luoghi; ciò che sta a monte è difatti la reazione sociale di fronte al suo consumo o abuso, che spesso è da considerarsi anche un fatto di costume, legato alle tradizioni, ai rituali, agli interessi economici, e ad altri fattori contingenti e pertanto diversi nelle varie culture.
Ciò che interessa la presente disamina è l’individuazione del rapporto che intercorre tra droga e criminalità, in special modo analizzando quali sono i reati correlati agli stupefacenti.
Tale argomentazione assume un’ampia gamma di significati diversi a seconda della disciplina trattata e dei professionisti a cui è rivolta; in linea generale è possibile classificare quattro tipi di reati droga-correlati:
- reati psicofarmacologici, commessi sotto l’effetto di una sostanza psicoattiva, in conseguenza di un uso acuto o cronico;
- reati economici compulsivi, commessi per ottenere denaro (o stupefacenti) a fronte di una dipendenza da droghe;
- reati sistemici, commessi nel quadro del funzionamento dei mercati illeciti di sostanze stupefacenti cioè dell’attività di distribuzione, offerta e consumo di droghe illecite;
- reati contro la legge in materia di stupefacenti, commessi in violazione delle normative riguardanti le sostanze stupefacenti.
Benché le ricerche effettuate non dimostrino uno stretto legame tra consumo di stupefacenti a titolo sperimentale e condotte criminose, si può tuttavia intravedere una certa relazione, dal momento che spesso le attività delinquenziali sono l’anticamera del consumo di sostanze illecite.
La caratteristica fondamentale delle droghe è quella di instaurare un particolare legame con chi ne fa uso, legame che può portare il consumatore a rimanere vincolato alla sostanza in modo tale da tendere nel tempo a ripeterne l’assunzione, così da riprovarne gli effetti graditi e ricercati.
Tale fenomeno, chiamato dipendenza, consiste in una particolare condizione che si instaura col tempo nel consumatore e che si esprime come abitudine e poi sudditanza nei riguardi della droga impiegata. Si parla di dipendenza psichica quando il fenomeno è un semplice fatto mentale e di dipendenza fisica, quando il richiamo della sostanza è dovuto anche ad un bisogno organico, poiché essa si inserisce nel metabolismo del soggetto intossicato.
Esaminando il rapporto tra droga e criminalità, Gianluigi Ponti evidenzia quattro diversi livelli di relazione tra droga e criminalità[2].
Per criminalità diretta, si intende la commissione di reati in virtù dell’effetto di una droga. È difatti possibile, anche se statisticamente poco rilevante, che, in alcuni casi, gli effetti peculiari di un particolare tipo di sostanza possano − attraverso l’aumento dell’aggressività, la diminuzione delle inibizioni e la perdita di autocontrollo − favorire o addirittura provocare comportamenti criminali.
La criminalità da sindrome di carenza, che è strettamente connessa ad un particolare stato psico-fisico, quello dell’astinenza, ovvero dell’urgente e non procrastinabile necessità di assumere la sostanza e dunque di procurarsi il denaro necessario all’acquisto.
Tuttavia, più che di sindrome da carenza, che afferisce ad uno stato particolarmente affittivo di bisogno, è utile parlare di una connessione mediata, ovvero di criminalità indiretta. Il tossicomane infatti, anche se non in preda alla vera e propria crisi d’astinenza, è costretto dalla continua necessità d’assunzione a preoccuparsi costantemente di procacciarsi il denaro, organizzando la propria vita in un perverso circuito di consumo.
Spostando la lente su particolari aree urbane, su specifici ambienti sociali dove il consumo di sostanze è più intenso, dove dunque è più ampia la confluenza di tossicomani e la criminalità diviene quasi un aspetto strutturale, parliamo invece di criminalità ambientale.
Espresse le dovute definizioni e fatto chiarezza su come la sociologia nel particolare affronta tale argomento, è opportuno ora demandare alla legge la risoluzione, a livello giuridico, delle sanzioni che devono essere inflitte per i reati droga-correlati.
Quali sono i criteri con cui oggigiorno la legislazione combatte tale tipologia di reato?
L’intervento normativo del 2006, la cosiddetta Legge Fini-Giovanardi (Legge n. 49/2006), ebbe come finalità primaria quella di perseguire quel risultato di “certezza applicativa” che gli effetti del referendum del 1993 avevano fatto perdere stravolgendo la tenuta complessiva del testo originario del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90.
Per cui, viene al suo interno ribadita la rilevanza penale delle condotte che si caratterizzavano obiettivamente per la destinazione a terzi (vendita, cessione, eccetera), a prescindere dal quantitativo della sostanza che ne costituisce l’oggetto (condotta autoevidente), ma l’innovazione rientra nella rilevanza penale assunta anche delle condotte non destinate obiettivamente a terzi (importazione, esportazione, acquisto, ricezione, o comunque, detenzione) che appaiono, per le modalità oggettive e soggettive, più precisamente, “ad un uso esclusivamente personale”.
È questa la vera novità della Legge di riforma del 2006, che è stata perseguita, come si è detto, attraverso la “normativizzazione” dei criteri indiziari attualmente utilizzati, in giurisprudenza, per formare un giudizio positivo di sussistenza del reato.
In ultimo una fondamentale introduzione fatta dalla Legge n. 49/2006 riguarda la parificazione delle sostanze illecite: una parificazione di tipo tabellare delle sostanze vietate, siano esse droghe considerate “leggere” o “pesanti”.
L’articolo 85 del Codice Penale stabilisce che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile”. Sono infatti considerati imputabili i soggetti che sono in grado di intendere e volere, di capire, cioè, il significato dei propri atti e la volontà di compierli. Non è imputabile il soggetto minore di quattordici anni.
L’articolo 88 del Codice Penale prevede inoltre che non sia imputabile colui che nel momento in cui ha commesso il fatto era “per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere”: in tale condizione si realizza il vizio totale di mente.
Poiché le droghe possono alterare lo stato psichico il legislatore ha preso in considerazione la possibilità che chi commette reati sotto l’effetto di alcool o stupefacenti non sia imputabile.
In realtà, in base al disposto degli articoli 92 e 93 del Codice Penale, l’intossicazione acuta da alcool o sostanze stupefacenti non esclude l’imputabilità. Il soggetto infatti, anche se non in grado di capire le proprie azioni a causa dell’effetto delle sostanze, si presume che fosse cosciente prima di assumerle ed è perciò responsabile delle conseguenze dei suoi atti. Anzi, un’assunzione preordinata al fine di poter più facilmente commettere un reato (per esempio: assumere cocaina per trovare il coraggio di commettere una rapina) è considerata un’aggravante. L’intossicazione cronica è invece considerata una condizione patologica che può influire sull’imputabilità; è cioè paragonata a una infermità che in alcuni casi può comportare una riduzione o una perdita della capacità di intendere o volere. La legge prevede anche una condizione di abuso abituale di sostanze che è considerata un’aggravante.
Intanto, può essere utile procedere ad una rassegna statistica dei detenuti tossicodipendenti. Dal Ministero di Grazia e Giustizia[3] giungono difatti dati allarmanti: nel 2006 c’erano 24.646 tossicodipendenti reclusi in carcere; nel 2007 erano 24.371 e al 30 Giugno 2009 ne risultavano oltre i 26.000 in carcere. L’ultimo dato disponibile aggiornato al 31 Dicembre 2011 mostra come siano stati reclusi 27.459 solamente per la cosiddetta legge-droga.
Tutto ciò sembra sia frutto dell’irrigidimento del trattamento punitivo verso i comportamenti connessi al possesso di droga inaugurato dalla Legge Jervolino-Vassalli del 1990 e proseguito con la Legge Fini-Giovanardi del 2006 che ha portato ad un netto aumento delle condotte di rilevanza penale. Complessivamente nel 2008 oltre 21.000 soggetti sono entrati in carcere per violazione della normativa italiana sugli stupefacenti.
Esiste quindi il detenuto tossicodipendente come categoria criminale?
Un tossicomane è criminale, come qualunque altro cittadino, quando commette atti riconosciuti dalla legge come reati e sanzionati come tali. Il consumo personale non è di per sé un reato, benché, l’attuale normativa tenda a stabilire confini molto labili tra consumo e spaccio, contribuendo irresponsabilmente alla criminalizzazione di un disagio.
Se la criminalità è sinonimo di devianza, non è necessariamente vero il contrario. Il tossicodipendente può essere considerato invece deviante in quanto mette in atto comportamenti non conformi che sfidano il senso comune, in un dato momento storico, in un determinato luogo ed in un particolare contesto sociale. Il tossicodipendente è considerato deviante, in quanto generalmente, la società stigmatizza chi fa uso di sostanze psicotrope. Sostanze, nello specifico, il cui commercio è anche illegale.
La Legge Fini-Giovanardi si inserisce all’interno di una discussione, ormai decennale, centrata sul sanzionare o meno il consumo personale di sostanze stupefacenti illegali: si torna quindi ad una legge improntata ad una pura logica repressiva? Una logica che sembra essere più concentrata sull’effettività della pena anziché sull’efficace rieducazione del condannato?
Ritengo che l’obiettivo di recupero dei tossicodipendenti non venga, all’interno di un Istituto Penitenziario, perseguito con le misure necessarie e adeguate. Sarebbe auspicabile assicurare a tali soggetti un intervento terapeutico e socio-riabilitativo anche all’interno del carcere, di modo che la detenzione possa costituire non un momento esclusivamente afflittivo, ma l’occasione per stimolare nell’individuo un processo di cambiamento che lo conduca all’abbandono dello stile di vita e degli atteggiamenti connessi alla tossicodipendenza, in coerenza ai principi di rieducazione della pena e di individualizzazione del trattamento.
D’altro canto, l’individuazione e l’attuazione di modalità di intervento efficaci nei confronti del detenuto tossicodipendente costituisce un problema di non facile soluzione, in quanto deve necessariamente tenere conto delle specificità delle realtà penitenziarie (sovraffollamento, carenza di strutture, eccetera), nonché delle esigenze di ordine e sicurezza dell’Istituto.
Il trattamento penitenziario del tossicodipendente non può, peraltro, essere considerato un tipo di intervento a se stante, ma deve necessariamente inserirsi in una più ampia strategia di prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza, che coinvolga non solo il carcere, ma anche le altre istituzioni dello Stato e, più in generale, l’opinione pubblica.
Esaminando le problematiche peculiari del tossicomane, si può rilevare innanzitutto che tale soggetto porta con sé elementi di disorganizzazione affettiva, di difficoltà di comunicazione che lo rendono incapace di accogliere le istanze quotidiane di rapporto. Non trovando in sé un equilibrio apparente, una possibilità di adeguamento e di accettazione, il tossicodipendente ricerca artificialmente condizioni fittizie per sopravvivere e si chiude in un mondo ermetico limitato a quel microcosmo nel quale si aggrega ad altre persone come lui.
La scelta operata dal legislatore, nella consapevolezza del ruolo fondamentale che il trattamento terapeutico e socio- riabilitativo riveste nel recupero del tossicomane, ha inteso creare all’interno del circuito penitenziario − luogo nel quale la privazione della libertà personale, la rigidità delle regole e la problematicità dei rapporti umani influiscono negativamente sulle condizioni fisico-psichiche del tossicodipendente − un circuito differenziato e speciale, utile per promuovere nel soggetto l’interesse ad iniziare o a proseguire il programma riabilitativo, e, comunque, necessario ad evitarne l’ulteriore decadimento delle condizioni fisico-psichiche. Il tutto in un contesto di individualizzazione del trattamento, nel senso che il soggetto tossicodipendente in carcere presenta problemi diversi che richiedono una serie di accertamenti particolari e di interventi specifici, che non possono essere affrontati e risolti solamente attraverso un’azione di mero sostegno psicologico e/o farmacologico.
Una recente indagine sulla recidiva degli affidati in prova al servizio sociale ha dimostrato gli effetti positivi di quella misura alternativa alla detenzione in termine di maggiore possibilità di reinserimento[4]. La ricerca mirava a verificare l’efficacia dell’affidamento rispetto alla pena detentiva, con riferimento al reinserimento sociale dei condannati. Oggetto dello studio era rilevare quante persone, tra coloro che avevano terminato nel 1998 l’affidamento in prova al servizio sociale, avevano subito una condanna per un reato commesso successivamente, anche senza che fosse stata contestata loro la recidiva. Nei soggetti che avevano beneficiato dell’affidamento in prova al servizio sociale (19%), la recidiva, è risultata notevolmente inferiore rispetto a quelli che erano usciti dal carcere alla scadenza della pena (68%).
In conclusione, è opinione diffusa credere che la fine di una tossicodipendenza consista nel sospendere l’uso di droga e di superare l’eventuale crisi di astinenza. La questione si presenta, nei fatti, molto più complessa. Quasi tutti i tossicodipendenti, in un periodo della loro vita, sospendono, anche completamente, o riducono l’uso di droghe. A volte lo fanno per spontanea volontà, altre volte per problemi contingenti, altre volte perché è l’unico modo per ricominciare ad avvertirne gli effetti piacevoli.
La sospensione in modo brusco o imposto, in ogni caso non assistita, può creare gravi problemi a livello fisico e psichico; è necessario affiancare a questi soggetti personale specializzato che riesca ad iniziare con queste persone un percorso complesso che deve essere, quindi, programmato nei modi e nei tempi più opportuni che, non necessariamente, sono quelli più rapidi.
Una domanda a cui è difficile rispondere con dei discorsi generalizzabili è se da una condizione di tossicodipendenza sia possibile “guarire” completamente. La risposta è certamente positiva nonostante esistano persone che vivono in una situazione di cronicità con periodi di remissione seguiti da ricadute.
La volontà individuale è importante ma, evidentemente, non è tutto. Da queste situazioni non è facile uscire ma si può superarle nel modo migliore possibile. Il problema è come: sicuramente non da soli ma con l’ausilio di professionisti esperti, certamente non all’interno di un Istituto Penitenziario e non attraverso una reazione pubblica di mera repressione.
[1]Ponti G. (1999), Compendio di Criminologia, Quarta Edizione, Raffaello Cortina Editore, Milano.
[2] Ivi
[3] Fonte: Ministero di Grazia e Giustizia − Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria − Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato − sezione statistica − Detenuti per tipologia di reato (31 Dicembre 2011).
[4] Leonardi F. (2007), Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, in Rassegna penitenziaria e criminologica, Ministero della Giustizia, n 2.
Pubblicato su filodiritto il 5/12/13