Luigi Saraceni
Perchè la legge Fini-Giovanardi è incostituzionale [Intervento di Luigi Saraceni al convegno Lotta alla Droga. I danni collaterali. Udine 1 giugno 2012]
Fuoriluogo.it - 01/06/2012

Qualche cenno sul contesto politico parlamentare in cui è maturata l’approvazione della legge.
Nasce nel 2003 (16.11) con l'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del disegno di legge che porta il nome di Fini, allora vicepremier e leader di AN.
Fini nel novembre 2004 diventa ministro degli esteri e lascia la gestione del suo disegno di legge a Giovanardi, ministro dei rapporti con il Parlamento.
Ma, nonostante l’attivismo di Giovanardi, il disegno di legge si trascina stancamente nelle Commissioni parlamentari (Giustizia e Sanità), registrando perplessità e critiche anche all’interno della maggioranza.
Fallisce anche il tentativo di avere il sostegno della Conferenza Nazionale sulle droghe, che, dopo un ritardo di due anni rispetto alla sua scadenza naturale (ogni tre anni secondo la legge; l’ultima, la terza, si era tenuta a Genova nel 2000), si tiene a Palermo dal 5 al 7 dicembre del 2005.
La possibilità di approvare la legge prima della fine della legislatura, che scade nella primavera del 2006, sembra tramontata.
Ma il fronte proibizionista della maggioranza scalpita, in particolare AN pretende un trofeo da spendere sul mercato elettorale delle prossime elezioni e c’è anche il sostanzioso business su cui vogliono mettere le mani le Comunità di Accoglienza più intransigenti sulle politiche repressive.
A questo punto si presenta sulla scena politico-parlamentare una propizia occasione.
Proprio mentre a Palermo si svolgeva la IV Conferenza, a Roma veniva approvata una delle tante leggi ad personam (5 dicembre 2005 n. 251, c.d. ex Cirielli) che, in contrapposizione ai privilegi accordati ai diretti beneficiari, si accaniva contro i recidivi, non risparmiando, nel suo furore repressivo, neanche i tossicodipendenti che avessero in corso un programma terapeutico di recupero.
In particolare:
a) l’art. 8, aggiungendo l’art. 94 bis al testo unico 309/90 sugli stupefacenti, riduceva da 6 a 3 anni, per i recidivi, la pena massima che consentiva l’affidamento in prova finalizzato all’attuazione del programma terapeutico;
b) l’art. 9 aggiungeva la lettera c) al comma 9 dell’art. 656 del c.p.p., escludendo dalla sospensione della esecuzione della pena i recidivi, compresi i tossicodipendenti che avessero già in corso un programma terapeutico.
Pochi giorni dopo l’approvazione della legge ex Cirielli, il governo scopre la urgente necessità di eliminare le intollerabili iniquità perpetrate pochi giorni prima dalla sua stessa maggioranza a danno dei tossicodipendenti recidivi
Cogliendo l’occasione della emanazione del decreto legge (30 dicembre 2005 n. 272) diretto a fronteggiare le spese e le esigenze di sicurezza delle imminenti Olimpiadi invernali, il governo inserisce nel decreto stesso l’art. 4 (intitolato “Esecuzione delle pene detentive per tossicodipendenti in programmi terapeutici”), giustificandolo con la seguente premessa: “Ritenuta altresì la straordinaria necessità ed urgenza di garantire l'efficacia dei programmi terapeutici di recupero per le tossodipendenze anche in caso di recidiva”.
Il suddetto art. 4 del decreto disponeva quindi:
a) la soppressione del citato art. 94 bis introdotto dall’art. 8 della legge 251/05;
b) la modifica della lettera c) aggiunta dall’art. 9 al comma 9 dell’art. 656 del c.p.p., nel senso di ripristinare la sospensione della esecuzione della pena fino a 4 anni per i tossicodipendenti con programma terapeutico in atto, anche se recidivi.
Come si vede, il decreto conteneva, secondo l’enunciato inserito nello stesso titolo, soltanto le suddette “disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi”. Il suo oggetto si limitava alla mera elisione, per i tossicodipendenti recidivi, delle perniciose conseguenze della legge emanata pochi giorni prima. Così come le ragioni giustificatrici enunciate in premessa erano dichiaratamente riferite alla necessità ed urgenza di garantire i programmi terapeutici dei tossicodipendenti stessi.
Ma a questo punto, nel corso dell’iter di approvazione della legge di conversione del decreto, irrompe sulla scena il “maxiemendamento Giovanardi”, costituito da un sostanzioso stralcio dell’originario ddl Fini, che tra le indignate proteste delle opposizioni dentro e fuori del parlamento, viene approvato, con le agevolate procedure previste dai regolamenti parlamentari per le leggi di conversione e con due voti di fiducia, prima dal Senato e poi dalla Camera.
La legge di conversione (21 febbraio 2006 n. 49) accoglie integralmente il “maxiemendamento” e, dopo avere annunciato nel suo titolo “modifiche al testo unico delle leggi in materia di stupefacenti”, trae pretesto dal limitatissimo oggetto del decreto – che si limitava ad abrogare la odiosa norma posticcia contro i tossicodipendenti recidivi – per inserire nel testo unico n. 309/90 una nuova, articolata, diffusa disciplina. In pratica, una radicale riscrittura dell’intero testo, mediante una serie innumerevole di articoli aggiuntivi (dal 4 bis al 4 vicies ter, a sua volta articolato in una serie innumerevole di commi), che hanno modificato in modo incisivo rilevanti disposizioni della precedente normativa, che aveva certamente bisogno di essere riscritta, ma in tutt’altra direzione.
Basti ricordare la unificazione in unica tabella e la parificazione del trattamento sanzionatorio delle droghe “leggere” e “pesanti”, prima suddivise in due diverse tabelle e sottoposte a diversi regimi punitivi. Con la conseguenza, tanto per restare al caso Rototom, che la pena minima per la “agevolazione dell’uso di sostanze stupefacenti” è passata, per la cannabis, da uno a tre anni di reclusione (art. 79 del testo unico, come modificato dal comma 25 dell’art. 4 vicies ter della legge di conversione).
Così stando le cose, occorre verificare se e quali modifiche introdotte dalla legge di conversione al testo unico sugli stupefacenti siano compatibili con il quadro costituzionale.
La Corte Costituzionale, con giurisprudenza costante dal 1995 (sentenza n. 29), ha stabilito che il presupposto che legittima il governo alla decretazione di urgenza, previsto dall’art. 77 comma 2 della Costituzione, è soggetto al suo sindacato, quale giudice della regolarità del procedimento parlamentare di approvazione delle leggi; con la precisazione che la mancanza del requisito del “caso di necessita e d’urgenza” può essere rilevato, a garanzia dell’autonomia delle scelte politiche del governo, solo quando risulti evidente.
La Corte, fino al 2007, riteneva invece che, una volta convertito il decreto, il suo sindacato non era ammissibile. Ma, nel 2007, quindi dopo l’approvazione della legge n.49/2006, cambiava il suo precedente orientamento e, con riguardo alla legge di conversione, stabiliva, con giurisprudenza ormai consolidata (sentenze n. 171/07, n. 128/08, n. 355/10, n. 22/12), i principi che, in estrema sintesi, possono così riassumersi:
a) la legge di conversione non sana l’eventuale difetto del presupposto di necessità e urgenza;
b) ove sussista, tale difetto si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge di conversione; c) il requisito di necessità e urgenza deve ricorrere, pena l’illegittimità, anche per le “norme, aggiunte dalla legge di conversione del decreto-legge, che non siano del tutto estranee rispetto al contenuto originario della decretazione d’urgenza” (sent. n. 355/10, cit.);
d) le disposizioni aggiuntive che siano invece del tutto estranee al contenuto del decreto, devono ritenersi adottate in violazione della disciplina costituzionale che governa l’esercizio del potere di legiferare.
Con particolare riguardo a quest’ultimo punto, la giurisprudenza del Giudice delle leggi rileva che il decreto di urgenza “condiziona l'attività del Parlamento in sede di conversione in modo particolare rispetto alla ordinaria attività legislativa. Il Parlamento si trova a compiere le proprie valutazioni e a deliberare con riguardo ad una situazione modificata da norme poste da un organo cui di regola, quale titolare del potere esecutivo, non spetta emanare disposizioni aventi efficacia di legge.” Ne è riprova il fatto che “la legge di conversione è caratterizzata nel suo percorso parlamentare da una situazione tutta particolare, al punto che la presentazione del decreto per la conversione comporta che le Camere vengano convocate ancorché sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.), e il suo percorso di formazione ha una disciplina diversa da quella che regola l'iter dei disegni di legge proposti dal Governo (art. 96-bis del regolamento della Camera e art. 78, comma 4, di quello del Senato)”. (sent. 171/07, cit.).
Nella più recente delle decisioni citate (n. 22 del 2012), la Corte osserva ulteriormente che “non si può escludere che le Camere possano, nell’esercizio della propria ordinaria potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari difformi nel merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime finalità. Il testo può anche essere emendato per esigenze meramente tecniche o formali… l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, ma a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge”.
Se queste sono le regole, non può esservi dubbio che – pur riconoscendo il requisito di urgenza all’art. 4 estemporaneamente inserito nel decreto sulle Olimpiadi invernali – tutte le disposizioni aggiuntive con cui la legge di conversione ha riscritto il testo unico sulle sostanze stupefacenti, devono ritenersi costituzionalmente illegittime.
Infatti, delle due l’una.
Se dette disposizioni sono da considerarsi “non del tutto estranee” al contenuto del decreto legge (che sopprimeva una norma, l’art. 94 bis, del testo unico), sono illegittime perchè palesemente prive del presupposto di necessità e urgenza (criterio sub c).
Infatti non si vede, né risulta da alcun atto dell’iter legislativo, quale straordinaria necessità potesse mai rendere urgente, in quel momento, la riscrittura del testo unico e il rigoroso inasprimento delle pene per le c.d. droghe leggere. Il difetto del requisito previsto dall’art. 77 comma 2 della Costituzione, è del tutto evidente.
Se invece, le disposizioni aggiuntive devono considerarsi “del tutto estranee” al contenuto del decreto legge (non essendo sufficiente a creare il collegamento con l’intero testo unico l’abrogazione della effimera norma inseritavi pochi giorni prima), la loro illegittimità discende, come dice la Corte, “dall’uso improprio, da parte del Parlamento” del potere di conversione attribuitogli dalla Costituzione (criterio sub d; sent. 171/2007 e 22/2012, cit.).
In entrambi i casi, le disposizioni aggiuntive appaiono illegittime perché adottate in violazione delle regole costituzionali che disciplinano l’esercizio del potere legislativo.
La verità è che non c’era alcuna urgente necessità di riscrivere il testo unico che, se mai, andava modificato nel rispetto dei normali strumenti di produzione legislativa.
Non si trattava di fronteggiare una emergenza, di introdurre specifiche modifiche imposte da ragioni contingenti (per questo bastava convertire il decreto, senza emendamenti, tanto meno maxi), ma di riscrivere una corposa disciplina “a regime” in una materia di grande rilevanza sociale, che non avrebbe dovuto essere sottratta alle ordinarie procedure di discussione e approvazione parlamentari.
Si aggiunga che l’abrogazione decretata in via di urgenza aveva un segno “liberalizzante”, di “decarcerizzazione”, mentre le modifiche introdotte dalla legge di conversione alla disciplina sanzionatoria hanno un segno “repressivo”, di rigoroso inasprimento, specialmente con riguardo alle c.d. “droghe leggere”.
Più che estranee, le norme introdotte dalla legge di conversione, appaiono perciò di segno addirittura opposto all’unica disposizione del decreto di urgenza riguardante la materia degli stupefacenti. E sarebbe invero paradossale se si ritenesse che la legge di conversione, traendo spunto dall’abrogazione in via di urgenza di una norma repressiva riguardante un complesso fenomeno sociale, possa legittimamente riscrivere in chiave repressiva l’intero corpo di norme al quale quella abrogata apparteneva.
Nel caso di specie, in sede di conversione si è proceduto alla riscrittura di un complesso e articolato testo normativo, da cui il decreto di urgenza si limitava ad espungere una sola disposizione maldestramente inseritavi pochi giorni prima.
Disconoscere che in sede di conversione si siano violate le regole costituzionali ormai consolidate nella nuova giurisprudenza della Corte, significherebbe legittimare il governo, e le sue contingenti maggioranze, a cogliere il pretesto di una qualunque, anche marginale ed effimera “emergenza” – nel caso di specie autoprodotta dalla stessa maggioranza di governo – per esercitare il potere di legiferare in spregio “all'assetto delle fonti normative” che costituisce “uno dei principali elementi che caratterizzano la forma di governo nel sistema costituzionale” (sent. 171/07); significherebbe, in altre parole, “attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie” (sent. 128/08).
In conclusione, la questione di legittimità costituzionale della legge Fini-Giovanardi è certamente fondata. In ogni caso, sarebbe palesemente irragionevole ritenerla “manifestamente infondata”. E tanto basta, sul piano strettamente giuridico, per investire la Corte del giudizio di legittimità, ricorrendo i requisiti di rilevanza ed ammissibilità che qui non è il caso di trattare.
Sul piano politico, questo potrebbe essere un momento propizio per riavviare le iniziative per una ragionevole ed equa legislazione sulla droga che vada al di là anche della legge del 1990.
AN non esiste più, la destra berlusconiana è allo sbando, la sinistra, destinata a vincere – almeno così pare – le prossime elezioni, deve metterlo nel suo programma, ma non a parole.
All’indomani dell’approvazione della Fini-Giovanardi, qualificatissimi esponenti dell’allora opposizione – destinata presto a diventare maggioranza – dissero che andava radicalmente cambiato l’intero impianto della legislazione sulla droga e qualcuno si spinse a promettere che la Fini-Giovanardi sarebbe stata spazzata via nei primi cento giorni della nuova legislatura.
Si può essere anche più pazienti, ma l’impegno che dobbiamo chiedere alla sinistra deve essere serio, argomentato e credibile.
Nel frattempo, chissà che la Corte Costituzionale, che oltre ad attenersi doverosamente ai mutamenti della sua giurisprudenza, non è insensibile ai mutamenti del contesto politico, non possa darci una mano.