F. Cannizzaro, A. Mazzari
AIDS e carcere nell'evoluzione legislativa
(Temi Romana, 2000, p. 487)
1.1 Introduzione
Uno dei problemi di maggiore gravità nella gestione delle carceri, manifestatosi negli ultimi anni, riguarda l'aumento della popolazione carceraria affetta dal virus dell'HIV. La presenza di soggetti affetti da HIV e AIDS conclamata è divenuto sempre più un fattore endemico degli istituti di pena senza che dette strutture siano in grado di affrontarlo. Questo a causa della totale assenza di progettazione di strutture parallele ed attrezzate in grado di accogliere tali soggetti. Il sovraffollamento carcerario, cui più interventi legislativi (quali, la legge 354/75 e successive modifiche, l. 663/86 e l. 165/98) hanno tentato di porre rimedio, aumenta il rischio di trasmissione non controllabile del contagio anche a causa della frequente assenza di norme elementari di igiene nonché per la promiscuità dei rapporti tra i detenuti.
Paradossalmente l'attuale stato dell'arte della ricerca scientifica che, pur mancando l'obiettivo salvifico del ''vaccino'', ha individuato adeguati ed efficaci sistemi di terapia, ancorché costosi e particolarmente stressanti per la compliance dei pazienti (fino a 18 farmaci giornalieri, ancorché intervallati da brevi periodi di sospensione della somministrazione) che comportano un recupero della capacità immunitaria e dell'attitudine al reinserimento nella vita sociale e lavorativa, aggrava enormemente il problema AIDS, che non ammette l'indifferenza istituzionale.
Il legislatore ha affrontato il problema con interventi legislativi di emergenza e di carattere sperimentale che sono stati assoggettati a costanti arresti giurisprudenziali con l'intervento della Corte costituzionale, evidenziando un difficile coordinamento delle problematiche giuridiche sanitarie e sociali coinvolte nel grave fenomeno. Di seguito tracciamo un excursus degli interventi del legislatore e della giurisprudenza sul problema Aids e carcere.
1.2 Primi interventi legislativi
Un primo intervento legislativo, volto ad affrontare il problema, è il d.l. 13 giugno 1992, n°335 il quale introduceva l'art.286 bis c.p.p., secondo cui non poteva essere mantenuta custodia cautelare in carcere nei confronti di persona affetta da HIV allorché si trovasse in condizioni di incompatibilità con lo stato di detenzione (art.3). Il giudice inoltre poteva disporre il ricovero in un'idonea struttura sanitaria, nel caso in cui ricorressero esigenze diagnostiche e terapeutiche, cessate le quali disponeva gli arresti domiciliari. Disponeva, inoltre, l'introduzione di una nuova causa di rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena ex art. 146 c.p. quando avesse luogo nei confronti di un soggetto affetto da HIV in"caso di incompatibilità con lo stato di detenzione'' (art.4). Con il decreto 27 settembre 1992 con il quale il Ministro della sanità di concerto il Ministro di grazia e giustizia, definiva le condizioni di incompatibilità con lo stato di detenzione per le persone affette da HIV. Dette condizioni di incompatibilità sussistevano (art. 1 decreto interministeriale 27 settembre 1992) nel caso in cui il soggetto presentasse un deficit immunitario esplicitato da un numero di linfociti T/CD4+ pari o inferiore a 100/mme come valore ottenuto da almeno due esami consecutivi effettuati a distanza di quindici giorni l'uno dall'altro.
Una prima modifica al precedente decreto legge fu apportata dal d.l. 12 novembre 1992, n°431, il quale rivedeva l'art. 286 bis c.p.p., stabilendo che l'incompatibilità sussisteva, e veniva dichiarata dal giudice, nei casi di AIDS conclamata e di grave deficienza immunitaria; negli altri casi l'incompatibilità era valutata dal giudice tenendo conto della carcerazione ancora da scontare e della pericolosità del detenuto in riferimento alle sue attuali condizioni fisiche (art.3). Riguardo, poi, il rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena ex art.146, comma 1° c.p. stabiliva dovesse avvenire nei casi di incompatibilità previsti dall'art.286 bis c.p.p. Relativamente alle innovazioni introdotte furono poste dal Tribunale di sorveglianza di Torino questioni di legittimità costituzionale in riferimento a:
· · l'art.2 Cost., in quanto smentiva "l'assunto di una generalizzata tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, quanto meno nei confronti di coloro i cui interessi risultavano aggrediti da chi si trovava nelle condizioni descritte dal decreto stesso, i quali si vedevano privati di efficace tutela penale in assenza dello strumento che ne assicura la necessaria forza intimidatoria". Secondo il giudice a quo veniva cioè a determinarsi una sorta di ''di immunità penale" che finiva per privare una determinata categoria di persone "della soggettività attiva penale";
· · l'art.3 Cost., in quanto irragionevolmente discriminava i malati "comuni" rispetto alle persone affette da HIV, posto che la scienza medica riconosce i medesimi caratteri di gravità e irreversibilità in molte altre patologie;
· · l'art.111 Cost., giacche risultava vanificata la funzione della magistratura di sorveglianza "di dirimere il conflitto tra il diritto dello Stato ad eseguire le sentenze di condanna a pene detentive" e il diritto del condannato al differimento dell'esecuzione della pena;
· · gli art.27, terzo comma, e 32, primo comma, Cost., in quanto, tenuto conto dei caratteri di estrema dinamicità che presenta l'infezione da HIV e considerata la varietà di situazioni che la stessa determina, doveva essere "concretamente provato che l'applicazione della pena ledesse il fondamentale diritto alla salute o si risolvesse in un trattamento contrario al senso di umanità".
La Corte considerato che il suddetto decreto legge non fu convertito in legge entro il termine prescritto, con l'ordinanza n°292 del 1993 e successivamente con l'ordinanza n°247 del 1994 ha dichiarato le questioni manifestamente inammissibili.
1.3 Legge 14 luglio 1993, n°222
Ad introdurre definitivamente, seppur con diversa formulazione rispetto ai precedenti, l'art. 286 bis c.p.p. è stato il d.l. 14 maggio 1993, n°139 convertito in l. 14 luglio 1993, n°222. In tema di custodia cautelare, l'art. 286 bis c.p.p., prevedeva due ipotesi di incompatibilità dello stato di detenzione con l'accertata infezione da HIV. La prima ipotesi concerneva l'AIDS conclamata o la grave deficienza immunitaria, cui conseguiva la dichiarazione obbligatoria di incompatibilità con la custodia carceraria. La seconda riguardava i casi di deficienza immunitaria non grave, per i quali la valutazione di incompatibilità era rimessa alla valutazione discrezionale del giudice. A stabilire la linea di confine tra AIDS conclamata e grave deficienza immunitaria e deficienza immunitaria non grave provvedeva il decreto interministeriale 25 maggio 1993, secondo cui se il paziente aveva un numero di linfociti pari o inferiori a 100/MMC, si aveva un caso di grave deficienza immunitaria, rilevante ai fini della dichiarazione obbligatoria di incompatibilità con la detenzione, se invece il numero di linfociti risultava essere superiore a 100/MMC ma inferiore a 200/MMC, si aveva un caso di insufficienza immunitaria rilevante ai fini della dichiarazione discrezionale di incompatibilità con lo stato di detenzione. La situazione di AIDS conclamata doveva essere espressa da strutture ospedaliere pubbliche o comunque convalidata da dette strutture. In applicazione del principio la Corte di cassazione, (Cass., 4 febbraio 1994, n.197940, Mulè), ha rigettato il ricorso di un detenuto, precisando che nessun rilievo può essere attribuito alla perizia d'ufficio disposta dal giudice di sorveglianza, in quanto non proveniente da una struttura competente. Nei casi invece di AIDS non conclamata, ex art.286 bis c.p.p. comma 2, il giudice doveva valutare e motivare l'incompatibilità carceraria legittimante l'esclusione della misura, tenendo conto, oltre che dell'incompatibilità strettamente tecnica tra malattia e vita carceraria, anche del residuo periodo di custodia cautelare e degli effetti che le condizioni fisiche del detenuto avevano sulla sua pericolosità. Relativamente all'art.286 bis c.p.p. il Tribunale di Torino, chiamato a pronunciarsi sull'appello proposto dal p.m. contro l'ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari aveva respinto la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere per essere l'imputato affetto da AIDS conclamata (ordinanza emessa l'8 ottobre del 1993), aveva sollevato, in riferimento all'art.3 Cost., questione di legittimità costituzionale. Dopo aver disatteso la fondatezza dell'eccezione di illegittimità proposta dal p.m., relativamente agli art.2, 101 e 111 Cost., il giudice a quo ha ritenuto invece non manifestamente infondata l'eccezione medesima sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza ex art.3 Cost. La Corte, con la sentenza n.210 del 1994, ha ritenuto detta questione non fondata in quanto "le caratteristiche affatto peculiari che contraddistinguono l'AIDS adeguatamente giustificano un trattamento particolare", proprio perché quest'ultimo si incentra "sulla necessità di salvaguardare il bene della salute nello specifico contesto carcerario". Nello stesso senso si è nuovamente pronunciata la Corte avverso altre questioni di legittimità costituzionale (es. Ordinanza 300/1994, sollevata dal Tribunale di Pisa).
Con l'art. 2 del d.l. 14 maggio 1993, n°139, veniva introdotto all'interno dell'art.146 c.p. una nuova causa di rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena. Detta causa è ravvisabile nei confronti di persona affetta da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell'art.286 bis, comma 1°. Relativamente al primo comma punto 3 dell'art.146 c.p., così come introdotto dal d.l. 14 maggio 1993, n°139 convertito in l. 14 luglio 1993, n°222, è stata posta dal Tribunale di sorveglianza di Torino questione di legittimità costituzionale nei confronti de:
· · l'art. 111 comma 1° Cost. , in quanto la nuova previsione di rinvio obbligatorio "vanificava la funzione giurisdizionale della magistratura di sorveglianza nell'esercizio del suo compito istituzionale di dirimere il conflitto tra il diritto dello Stato ad eseguire le sentenze di condanna a pene detentive" e il diritto del condannato alla sospensione dell'esecuzione.
· · gli art.27 comma 3° e 32 comma 1° Cost., in quanto, secondo i dati offerti dall'esperienza medico-scientifica, l'infezione da HIV ha caratteristiche variabili e dinamiche, le quali impongono un accertamento caso per caso al fine di verificare se l'esecuzione della pena leda il diritto alla salute o si risolva in un trattamento contrario al senso di umanità. Sarebbe stato inoltre vulnerato il principio di uguaglianza in quanto detta disposizione genera un trattamento discriminatorio tra malati comuni e soggetti affetti da HIV. La questione attingeva il nucleo del delicato problema relativo all'individuazione dei confini all'interno dei quali al legislatore è consentito esercitare le proprie scelte discrezionali, nel quadro del non sempre agevole bilanciamento di valori ai quali la Costituzione assegna uno specifico risalto. Il punto stava dunque nel verificare se la disposizione, che il legislatore aveva ritenuto di dettare per far fronte alla drammatica situazione di cui si è detto, integrava un'ipotesi di eccesso di potere normativo, tale da porsi in palese contrasto con i principi costituzionali che il giudice rimettente riteneva essere violati. La Corte costituzionale osservava che, qualora la norma in esame fosse stata ritenuta non conforme ai principi costituzionali per il solo fatto che dalla sua applicazione potevano derivare, in concreto, situazioni di pericolosità per la sicurezza collettiva, ne sarebbe conseguito che all'esecuzione sarebbe stata assegnata una mera funzione di prevenzione generale e di difesa sociale, obliterandosi in tal modo quell'eminente finalità rieducativa che la Corte ha invece inteso riaffermare con la sentenza n°313 del 1990; anche l'assunto di incompatibilità con gli art.27, comma 3°, e 32, comma 1°, Cost. risulta infondato sul presupposto che, stante la finalità della norma, a essere preso in considerazione non era tanto il bene della salute del singolo condannato, quanto piuttosto la salvaguardia della sanità pubblica in sede carceraria. Per questi motivi la Corte con la sentenza n°70 del 1994 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale. Nello stesso senso si è pronunciata la Corte con l'ordinanza n°90/1995 in riferimento all'art. 3 Cost. Non pare inopportuno rilevare che la maggior parte delle eccezioni di legittimità costituzionale sono state sollevate dal Tribunale di Torino in ragione del fatto che l'automatismo generato dalla normativa aveva creato un nucleo di soggetti ''penalmente immuni'' che a Torino si era concretizzato nella così detta ''banda dell'AIDS''.
Fino ad ora abbiamo parlato del trattamento riservato ai condannati ed agli imputati. La normativa, invece, nulla diceva circa il trattamento da applicare agli internati che fossero affetti da AIDS o da grave deficienza immunitaria. Questo problema è stato oggetto di una decisione della Corte costituzionale, e precisamente della sentenza n°308 del 1994, in seguito ad un'eccezione proposta dal Tribunale di Roma, il quale ravvisava una ingiustificata disparità di trattamento tra internati e condannati che presentassero la medesima patologia in contrasto con gli art.32 e 27 Cost. Secondo la Corte il nucleo delle disposizioni che il giudice a quo evocava a modello, e sulla cui base fondava le dedotte censure di incostituzionalità per "omissione", veniva a coagularsi intorno ad un binomio costituito in via esclusiva da due termini "carcere e malati di AIDS". Era dunque evidente che una disciplina che assumesse i connotati sostanziali di ''ius singulare'' non potesse essere utilizzata da adeguato termine di raffronto per omologare ad essa situazioni che non presentino gli stessi presupposti di fatto. D'altra parte la necessità di assegnare il dovuto risalto alle esigenze di sicurezza collettiva assumeva un rilievo del tutto peculiare in sede di applicazione delle misure di sicurezza, postulando le stesse un perdurante giudizio di pericolosità. Per questi motivi la Corte con la sentenza n°308 del 1994 ha dichiarato l'inammissibilità della questione.
L'art.3, ancora, prevedeva che sia i detenuti che gli internati, qualora la competente autorità avesse disposto nei loro confronti il piantonamento, fossero avviati negli ospedali individuati con decreto interministeriale (Giustizia e Sanità) 22 aprile 1996 che aveva individuato dette strutture ospedaliere in sole dieci regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Marche, Veneto e Toscana) a causa della mancata tempestiva fornitura dei dati richiesti da parte delle altre amministrazioni regionali. Inoltre veniva anche stabilita l'istituzione di residenze collettive e case alloggio per i detenuti e per gli internati per i quali fosse dichiarata l'incompatibilità con lo stato di detenzione e per assolvere a detti oneri dovevano essere utilizzati i finanziamenti di cui all'art.20 della legge 11 marzo 1988, n°67. Altra novità rimasta praticamente inattuata, introdotta dall'art.4, prevedeva la definizione, ad opera di un decreto del Presidente del Consiglio, di un programma di screening per l'HIV da sperimentare negli istituti penitenziari garantendo l'anonimato dei detenuti. Il progetto urtava con la non obbligatorietà del test di sieropositività.
E' possibile ravvisare, a questo punto, una discrasia tra l'obiettivo del legislatore, di riservare ai malati di AIDS un trattamento consono al loro stato di salute, e, le motivazioni con cui la Corte costituzionale ha rigettato le questioni di legittimità sollevate, adducendo la necessità di tutelare la salute in ambiente carcerario, così incorrendo nella ''facile'' critica che il rischio di contagio non richiede un determinato grado di evoluzione del virus.
Per quanto riguarda la situazione del detenuto affetto da AIDS vanno distinte le due posizioni di imputato (in attesa che venga emessa una sentenza definitiva) e condannato definitivo. La richiesta di accertamento dello stato di incompatibilità può essere fatta dall'interessato, dal suo difensore o dal servizio sanitario penitenziario. La distinzione tra imputato e condannato definitivo rileva per quanto concerne i diversi regimi applicabili. Per entrambi è prevista la scarcerazione nel caso di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria ma, mentre per il condannato definitivo è prevista la sola remissione in libertà, per l'imputato possono essere alternativamente disposte la remissione in libertà e gli arresti domiciliari a seconda della ritenuta pericolosità nel caso concreto. Quando per il condannato definitivo è prevista l'incondizionata remissione in libertà attraverso sospensioni dell'esecuzione della pena rinnovabili di anno in anno ex art.146 c.p. e art.684 c.p.p., per l'imputato è, invece, alternativamente prevista la remissione in libertà o gli arresti domiciliari presso la propria abitazione o presso una residenza collettiva o casa alloggio ex art.286 bis c.p.p. Bisogna sottolineare che, nella pratica, difficilmente l'imputato veniva rimesso in libertà prima che la sentenza diventasse definitiva, a meno che le sue condizioni non fossero o non diventassero così gravi (ad es. paralisi corporea) da far ritenere priva di pericoli per la società la sua liberazione. Questa differenziazione di trattamento è in netto contrasto con il principio sancito dal comma 2 dell'art.27 Cost. secondo cui "l'imputato non è considerato colpevole sino alla sentenza definitiva" in quanto vede una maggiore benevolenza nei confronti del condannato piuttosto che dell'imputato.
Poteva inoltre verificarsi che le due condizioni di imputato e condannato definitivo venissero a sovrapporsi a causa della contemporanea presenza di procedimenti già definitivi e in corso di esecuzione e procedimenti per cui ancora non fosse stata emessa una sentenza definitiva. In detti casi prevalevano le condizioni impartite dal giudice del procedimento in corso, per cui si poteva verificare che un soggetto malato di AIDS risultava scarcerato per un procedimento penale divenuto definitivo e contemporaneamente agli arresti domiciliari, in quanto sottoposto a procedimenti penali non ancora conclusi, per cui si ritenesse non opportuno, ad es. per la ritenuta pericolosità sociale del soggetto, concedere la più ampia remissione in libertà.
1.4 Questioni di legittimità costituzionale degli art. 146 c.p. e 286 bis c.p.p., così come introdotti dalla l. 222/1993
L'automatismo stabilito dal d.l. 14 maggio 1993, n°139 convertito in l. 14 luglio 1993, n°222, che stabiliva l'incompatibilità tra lo stato di detenzione e lo stato di affezione da AIDS è stato, poi, ridimensionato da due diverse sentenze della Corte Costituzionale e precisamente, la sentenza n°438 del 1995 che ha dichiarato l'illegittimità dell'art.146, comma 1°, numero 3°, e la sentenza n°439 del 1995 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.286 bis, comma 1°.
Relativamente all'art.146, comma 1°, numero 3°, il Tribunale di Palermo ha sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento agli art.2, 3, 27, primo e terzo comma, e 32 Cost. Il giudice a quo ha tratto spunto dalle considerazioni poste a fondamento delle sentenze n°70 e 308 del 1994, ove venne affrontata la disciplina stabilita in favore dei condannati affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, deducendo una sorta di irragionevolezza della norma presa in considerazione, in quanto se la relativa funzione era quella di tutelare il bene della salute collettiva all'interno degli istituti di pena, detto scopo doveva essere perseguito nei confronti di tutti i condannati sieropositivi, essendo questa la condizione da cui dipende il rischio di contagio e non certo lo stadio raggiunto dalla malattia. La disposizione impugnata obliterava tutte le finalità che la Costituzione assegna alla pena. Se totalmente svilita risultava, infatti, la funzione general-preventiva, giacche la rigida e prevedibile sospensione del momento esecutivo escludeva che la pena irrogata potesse svolgere alcuna funzione di intimidazione e dissuasione, allo stesso modo risultava anche vanificato il profilo retributivo e afflittivo della pena, posto che la rinuncia sine die alla relativa esecuzione lasciava sostanzialmente impunito il reato commesso in prospettiva di una deresponsabilizzazione che si proponeva in contrasto con il principio sancito dall'art.27, comma 1°, Cost. Contestualmente veniva obliterata del tutto la finalità di prevenzione speciale e di rieducazione, dal momento che la norma produceva effetti meramente liberatori prescindendo del tutto dalle esigenze che apparivano riferibili al caso concreto. Inoltre, la disposizione impugnata, generava un'ingiustificata disparità di trattamento tra malati di AIDS socialmente pericolosi, in quanto se gli stessi dovevano espiare in tutto o in parte la pena, non potevano essere sottoposti alla misura di sicurezza detentiva, mentre nell'ipotesi che avessero integralmente scontato la pena potevano soggiacervi, dal momento che non era prevista la sospensione della misura di sicurezza per motivi di salute.
Il giudice a quo riteneva inoltre essere violato l'art.32 Cost., dal momento che il legislatore, "trasferendo il malato di AIDS dal carcere all'ambiente libero e salvaguardando il bene della salute collettiva carceraria, aveva esposto a grave e maggior pericolo" il bene della salute dell'intera collettività, e dunque un bene quantitativamente maggiore, in quanto riferibile ad un numero assai più elevato di soggetti. Inoltre il giudice a quo rilevava che non vi fosse alcuna possibilità di operare una verifica giurisdizionale dell'inesistenza, nel caso concreto, delle condizioni che avrebbe dovuto giustificare il sacrificio degli interessi postergati e la precedenza accordata all'interesse tutelato dalla norma.
Attraverso la disciplina prevista dall'art.146, comma 1°, numero 3°, veniva a crearsi una categoria di "penalmente immuni", senza che a ciò corrispondesse una verifica, in concreto, circa l'effettiva rispondenza di un siffatto regime alle reali esigenze della salute, individuale e collettiva. L'assenza di iniziative intese a pervenire ad un'adeguata ponderazione dei numerosi principi costituzionali, denotava, secondo il giudice a quo, come l'inerzia del legislatore avesse finito col trasformare in "regime ordinario" quella che negli intenti originari avrebbe dovuto essere una disciplina derogatoria fondata sull'eccezionalità della situazione. D'altra parte, è proprio il rigido automatismo che caratterizzava la disposizione oggetto di impugnativa ad aver generato preoccupanti conseguenze per la sicurezza collettiva, in quanto secondo una documentazione trasmessa dal Ministro di grazia e giustizia, era emerso che fra quanti avevano beneficiato del rinvio dell'esecuzione della pena, una non trascurabile percentuale aveva nuovamente commesso reati. La scarsità di adeguati presidi terapeutici e di supporto, la totale assenza di strumenti preventivi e la peculiare condizione soggettiva di chi è portatore di una malattia indubbiamente gravissima, per di più circondata da non pochi pregiudizi che fortemente ostacolano il reinserimento sociale, aveva finito per rappresentare una vasta gamma di problematiche che la norma censurata aveva interamente trasferito sulla collettività.
La tutela della salute di quanti si trovavano negli istituti penitenziari non rappresentava, però, l'unico valore che il legislatore aveva inteso salvaguardare con la norma oggetto di impugnativa; in questo caso infatti si sarebbero dovuti ricomprendere nella norma tutti i malati di HIV e non solo coloro che risultassero affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria. Per questa ragione è evidente che si voleva tutelare sia la salute collettiva, sia quella del singolo condannato. Ad ulteriore riprova di ciò, stava la scelta del legislatore di iscrivere detta previsione nel corpo dell'art.146 c.p., la cui stessa storia denota le eminenti finalità di tutela della salute dell'individuo. L'istituto del rinvio dell'esecuzione della pena, ha trovato collocazioni diverse ma disciplina sostanzialmente analoga nelle codificazioni postunitarie. Era infatti l'art.586 c.p.p. del codice del 1865 a stabilire che "l'esecuzione delle sentenze di condanna a pena restrittiva della libertà personale, passate in giudicato, è sospesa se la malattia è grave", ed un'identica impronta processuale era stata mantenuta anche nel codice di rito del 1913, il cui art.383 prevedeva la possibilità di sospendere l'esecuzione di una condanna fra l'altro, "se una pena restrittiva della libertà personale debba essere espiata da persona che, secondo il giudizio di uno o più periti nominati d'ufficio, si in tali condizioni di infermità di mente o di corpo da rendere necessaria la sospensione", ovvero se la pena "debba essere espiata da donna che sia incinta o che abbia partorito da meno di tre mesi". Soltanto con l'entrata in vigore del codice penale del 1930, dunque, l'istituto, dalla tradizionale sede processuale, è stato trasferito in quella del codice di diritto sostanziale.
Nei confronti dei malati di AIDS, non è possibile presupporre, con assoluta linearità logica, che versassero, in tutti i casi, in condizioni di salute tali da non poter essere adeguatamente affrontate, né con appositi presidi di diagnosi e cura esistenti all'interno degli istituti penitenziari, né attraverso il ricovero in luoghi esterni a norma dell'art.11 ordinam. penit.
La Corte Costituzionale, dunque, con la sentenza n°438 del 1995 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.146, comma 1°, numero 3°, c.p., in quanto ritenuto non conforme al canone della ragionevolezza nella parte in cui non consentiva di accertare, in concreto, se, ai fini dell'esecuzione della pena, le condizioni del condannato fossero o meno compatibili con lo stato detentivo.
Relativamente, invece, all'art.286 bis, comma 1°, c.p.p. è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, il quale era stato chiamato a decidere relativamente alla richiesta del p.m. di sostituire con la misura di custodia cautelare in carcere quella degli arresti domiciliari nei confronti di un soggetto affetto da AIDS conclamata, più volte sottrattosi agli obblighi inerenti alla misura custodiale. Il giudice a quo riteneva, che la norma in esame violasse:
· · il principio sancito dall'art.2 Cost., in quanto dalla norma in esame scaturiva l'effetto di esporre a grave pericolo il bene dell'incolumità e della sicurezza collettiva, a fronte della salute carceraria che si sarebbe dovuta salvaguardare adeguando le strutture sanitarie e penitenziarie;
· · il principio di uguaglianza, sancito dall'art.3 Cost., in quanto non vi è ragione, né sul piano logico, né sul piano scientifico, di riservare ai malati di AIDS un trattamento diverso rispetto a quello previsto in via generale dall'art.275, comma 4°, c.p.p., per soggetti affetti da patologie altrettanto gravi ed irreversibili. Tanto che, secondo il giudice a quo , "data l'estrema varietà delle situazioni che caratterizza il quadro clinico delle infezioni da HIV", l'unica via percorribile doveva essere quella di valutare la situazione "caso per caso, come già avviene, in via generale, per le altre patologia";
· · l'art.32 Cost., in quanto il legislatore, trasferendo il malato di AIDS dal carcere all'ambiente libero per salvaguardare la salute della popolazione carceraria ( per altro tutelabile attraverso l'isolamento ex art.33 ord. penit.), aveva esposto a maggior pericolo il bene della salute collettiva, e, quindi, un bene "quantitativamente maggiore, essendo riferibile ad un numero enormemente più elevato di soggetti".
Già, più volte, la Corte era stata chiamata a pronunciarsi relativamente alla medesima questione, e aveva disatteso analoghe censure osservando come la dedotta compromissione delle esigenze di sicurezza collettiva dovesse ritenersi insussistente proprio perché nei confronti di malati di AIDS risultavano adottabili "tutte le misure diverse dalla custodia cautelare in carcere e, quindi, anche quella custodiale degli arresti domiciliari, con l'aggiunta delle prescrizioni e cautele che le esigenze del singolo caso possono consigliare". Una soluzione di tal genere, ovviamente, presupponeva l'attivazione di un'intera gamma di presidi e provvidenze che nei confronti dei malati di AIDS erano stati previsti dalla l. 5 giugno 1990. n°135, e dallo stesso d.l. n°139 del 1993, cosicché, svolgendosi l'intervento cautelare nel quadro di un programma di assistenza, il singolo rinvenisse proprio in quelle strutture un adeguato punto di riferimento ed un corrispondente stimolo ad osservare le prescrizioni inerenti alle singole misure. L'inadeguata attuazione dei richiamati programmi di intervento aveva, però, vanificato la premessa stessa da cui ha tratto origine la giurisprudenza della Corte, rendendo evidente come in non pochi casi la stessa misura degli arresti domiciliari avesse finito per atteggiarsi alla stregua di provvedimento meramente liberatorio, senza alcuna concreta possibilità di coercizione.
In un quadro di tal fatta, secondo la Corte risultava privo di ragionevolezza il divieto assoluto di custodia cautelare in carcere stabilito per i soli ammalati di AIDS, dovendo per essi operare, pur con i temperamenti resi necessari dalla peculiarità della malattia, la regola generale che consente, anche nel caso di malattie altrettanto gravi, l'adozione della misura carceraria, nel caso in cui esigenze cautelari di eccezionale rilevanza facciano ritenere inadeguata qualsiasi altra misura ex art.275, comma 4°, c.p.p. Per queste ragioni la Corte ha dichiarato, con la sentenza n°439 del 1995, l'illegittimità costituzionale dell'art.286 bis, comma 1°, c.p.p., nella parte in cui stabilisce il divieto di custodia cautelare in carcere nei confronti di persone affette da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, anche quando sussistano esigenze cautelari di particolare rilevanza di cui all'art.275, comma 4°, c.p.p., e l'applicazione della misura possa avvenire senza pregiudizio per la salute del soggetto e di quella degli altri detenuti.