Il
grido del Colle e la muta politica
Mauro Palma *
il manifesto 7 febbraio 2013
L'abnormità in Italia è diventata consuetudine: il nuovo grido di sdegno
del presidente della Repubblica rispetto al carcere, alla sua materialità, al
modello di sanzione penale che in essa s'invera, al di là di ogni posizione
teorica da determinare sbrigativi
consensi, qualche dichiarazione d'intenti e scarsa azione conseguente.
Eppure non è usuale nel resto d'Europa che la denuncia di una situazione in
contrasto con i valori costituzionali venga da chi rappresenta il riconoscersi
del paese nella sua Carta e che di essa è il garante.
Le parole di Napolitano sono venute dopo una visita al carcere di San Vittore:
gesto emblematico per la chiusura di un settennato che verso tale tema ha più
volte mostrato attenzione e sensibilità. San Vittore è del resto un luogo dove
la criticità del
sistema assume una concretezza plastica, sintesi dei problemi dovuti alle
condizioni materiali, alla confusa allocazione di soggetti con profili personali
e giuridici molto differenti, alla babele dei linguaggi, dei bisogni e delle
relative risposte, alla frammentarietà della possibile progettazione in un
continuo flusso di ingressi e uscite, al di là del visibile sforzo degli
operatori per garantire forme di vivibilità e non di sopravvivenza.
Ma, proprio l'estrema autorevolezza della denuncia rischia di retroagire come
senso d'impotenza: chi altro potrà mai alzare la voce una volta che anche questa
voce massima non troverà risposta? È questa domanda a racchiudere il senso di
abbandono che si avverte nelle celle di tutta Italia e che sfocia spesso in
gesti disperati, anche estremi. Non solo, ma rischia di essere catalogata come
espressione di una situazione dove non ci sono responsabili, come
un'imprevedibile catastrofe naturale.
Contro
queste due percezioni deve appunto muoversi una nuova stagione politica.
Partendo dal rimuovere le cause - leggi,
consuetudini, trascuratezza, burocrazia - per poi proseguire ripensando
radicalmente perché, cosa e come punire e rielaborando un nuovo modello su cui
costruire lo spazio della sanzione penale e, al suo interno, quello da assegnare
a quella particolare sanzione che è la privazione della libertà.
Sul primo di questi due passi si sono mosse le organizzazioni della società,
attraverso la raccolta di firme per tre leggi d'iniziativa popolare: contro
l'attuale legislazione sulle droghe, responsabile in larga parte dell'alto
numero d'ingressi; contro la legge che rende difficili i percorsi alternativi a
larghi settori della popolazione detenuta e per l'introduzione di una figura di
garanzia e monitoraggio del processo di riconduzione del carcere nel solco
costituzionale; infine, per l'introduzione del reato di tortura. Proposte che
dovranno trovare una interlocuzione urgente nel nuovo Parlamento, anche in
considerazione dell'anno di tempo che la Corte dei diritti umani ha dato
all'Italia dopo la condanna per trattamenti degradanti prima di considerare le
altre numerose denunce dello stesso tipo che la Corte ha già ricevuto. Queste
proposte tuttavia costituiscono solo un primo punto dell'agenda necessaria:
perché altrettanto urgente è il secondo passo, sia verso una revisione del
nostro sistema penale, dei reati e delle relative sanzioni che riduca la
centralità del carcere sia, al contempo, verso la riconduzione della custodia
cautelare alle finalità proprie, fuori dall'attuale situazione che di fatto la
configura come «quel po'» di pena scontata, seppure in termini anticipati.
Temi, questi, in cui le revisioni normative necessarie incontrano il ruolo di
elaborazione culturale che la politica deve riassumere. E che si associano a
quello della progettazione e gestione dell'amministrazione del carcere, su cui
anche il governo uscente è stato del tutto inadeguato.
* Ex presidente del Comitato europeo contro la tortura