Giuseppe Vignera
Sulla natura dell’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive brevi
www.altalex.com/ 11.12.2012
Sommario: 1. Premessa. – 2. La natura di misura alternativa del beneficio de quo desunta da alcuni dati testuali dell’art. 1. l. 199/2010. – 3. (segue) La ratio della clausola di compatibilità contenuta nell’art. 1, comma 8, l. 199/2010. – 4. Esame dei presupposti del beneficio de quo: posizione della tesi della loro sostanziale corrispondenza con quelli della detenzione domiciliare “generica”. – 5. (segue) Dimostrazione della tesi quanto alla mancanza di una condanna per reati ostativi ex art. 4 bis O.P. – 6. (segue) Dimostrazione della tesi quanto alla mancanza di una dichiarazione di abitualità nel delitto o di professionalità nel reato o di tendenza a delinquere. – 7. (segue) Dimostrazione della tesi quanto alla mancanza di una sottoposizione del detenuto al regime di sorveglianza particolare. – 8. (segue) Dimostrazione della tesi quanto alla mancanza di un concreto pericolo di fuga o di recidiva, all’idoneità del domicilio ed alla sua effettività. In particolare, sulla mancanza di pericolosità sociale del condannato. – 9. Argomento desunto dall’esclusione in subiecta materia di ogni competenza del giudice della cognizione.
1. Nella prassi di alcuni uffici giudiziari tende ad affermarsi una particolare concezione del beneficio introdotto dalla Legge 26 novembre 2010, n. 1 99 (esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi) ([1]), la quale, in funzione di una più ampia (e pressoché automatica) sua applicazione, disconosce a quel beneficio la natura di misura alternativa alla detenzione stricto sensu, costituendo esso (si dice) soltanto una “modalità speciale di esecuzione della pena” anche perché sottoposta a specifici presupposti e ad uno specifico procedimento applicativo.
A nostro avviso, invece, pure il beneficio speciale ex art. 1, L. 199/2010 (c.d. esecuzione o detenzione presso il domicilio) deve considerarsi una “vera” misura alternativa alla detenzione.
Conseguentemente ed in primis, per non esporsi a censure di incostituzionalità ex artt. 3 e 27 Cost., anche la norma divisante l’istituto in questione (id est: l’art. 1, L. 199/2010) deve essere interpretata nel rispetto di (ed in coerenza con) quel “criterio di meritevolezza” elaborato dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento a tutti i benefici penitenziari:criterio in base al quale ed in applicazione del quale il giudice [ai fini della concessione (pure) della misura de qua] deve valutare casu concreto la condotta complessivamente tenuta dal condannato (sia in libertà che durante l’espiazione della pena) per accertare se lo stesso sia o meno effettivamente meritevole del beneficio ([2]).2. La natura di misura alternativa alla detenzione dell’esecuzione presso il domicilio, per cominciare, può desumersi dall’incipit stesso della legge istitutiva (L. 26 novembre 2010, n. 199), il cui art. 1, comma 1, prima parte, traccia il limite temporale di efficacia dell’istituto “… in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione…”: come a voler dire che, una volta sopravvenuta la riforma generale ed organica delle misure alternative alla detenzione, resterà priva di giustificazione ordinamentale quella misura alternativa speciale interinalmente introdotta dalla L. 199/2010.
Codesta natura, poi, è confermata dalla “norma di chiusura” rappresentata dall’art. 1, comma 8, L. 199/2010, che considera applicabili pure al “nuovo” istituto disposizioni tipiche e proprie delle misure alternative (“Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste dagli articoli 47 ter, commi 4, 4 bis, 5, 6, 8, 9 e 9 bis, 51 bis, 58 e 58 quater, ad eccezione del comma 7 bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, nonché le relative norme di esecuzione contenute nel regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230. Nei casi previsti dagli articoli 47 ter, commi 4 e 4bis, e 51 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, tuttavia, il provvedimento è adottato dal magistrato di sorveglianza”).3. Quanto alla “clausola di compatibilità” contenuta nella suindicata “norma di chiusura” (“Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste…”), infine, è evidente che essa è stata introdotta non già in funzione di un’ipotetica diversità di natura del beneficio de quo rispetto alle misure alternative alla detenzione, ma solo in considerazione delle peculiarità procedimentali (ispirate, a loro volta, da esigenze “acceleratorie”) caratterizzanti il nuovo istituto “speciale” rispetto alle (altre) “ordinarie” misure alternative e costituite:
dall’organo competente a provvedere, che in subiecta materia è quello monocratico (il magistrato di sorveglianza: art. 1, comma 5, L. 199/2010), mentre per le misure alternative alla detenzione normalmente è quello collegiale (il tribunale di sorveglianza: art. 70, comma 1, O.P.);
dall’iter processuale, che in subiecta materia è quello “a contraddittorio differito” disciplinato dall’art. 69 bis O.P. (richiamato dall’art. 1, comma 5, L. 199/2010), mentre per le misure alternative alla detenzione normalmente è il procedimento di sorveglianza (“a contraddittorio pieno”) divisato dagli art. 678 e 666 c.p.p.4. Passando ora all’esame dei presupposti del beneficio, va preliminarmente precisato che ai fini dell’individuazione della natura dell’istituto de quo è assolutamente irrilevante il fatto che la detenzione ex art. 1, L. 199/2010 abbia presupposti (pena detentiva non superiore a diciotto mesi e altre condizioni elencate dall’art. 1, comma 2) diversi da quelli delle (altre) misure alternative alla detenzione perché ogni misura ha, ovviamente, presupposti specifici e differenti rispetto a quelli propri delle altre ([3]).
Tanto precisato, è utile confrontare adesso i presupposti del beneficio ex art. 1, L. 199/2010con quelli della detenzione domiciliare “generica” ex art. 47 ter, comma 1 bis, l. 26 luglio 1975, n. 354 (che è sicuramente una misura alternativa alla detenzione ed alla quale il beneficio de quo “assomiglia” maggiormente) per rendersi conto del fatto che il primo è stato costruito dal Legislatore ricalcando lo schema della seconda: di guisa che anche sotto questo profilo risulta logico affermare la loro identica natura e/o funzione (di misure alternative alla detenzione).5. La presenza di una condanna per reati ex art. 4 bis O.P. l. 26 luglio 1975, n. 354, anzitutto, rappresenta un presupposto (avente efficacia ostativa) comune ad entrambi gli istituti [v. art. 1, comma 2, lettera a), L. 199/2010 e art. 47 ter, comma 1 bis, ultima parte, O.P.].
Pertanto, anche per l’esecuzione presso il domicilio vale quanto precisato a questo proposito rispetto alla detenzione domiciliare “generica” dalla Suprema Corte, secondo la quale, rinviando la legge unicamente al catalogo dei reati di cui all'art. 4 bis O.P. e non al suo integrale contenuto, rappresenta causa ostativa all'applicazione del beneficio la condanna irrevocabile per uno di quei reati, a nulla rilevando, a tal fine, l'insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva ([4]).6. La dichiarazione di abitualità nel delitto ex art. 102 c.p. o di professionalità nel reato exart. 105 c.p. o di tendenza a delinquere ex art. 108 c.p., a sua volta, integra (al pari della presenza di condanna per reati ex art. 4 bis O.P.) una presunzione ope legis di pericolosità sociale del condannato assolutamente ostativa alla concessione della detenzione presso il domicilio [art. 1, comma 2, lettera b), L. 199/2010] e rappresenta il pendant dell’applicazione della recidiva ex art. 99, comma 4, c.p. quale condizione ostativa alla concessione della detenzione domiciliare “generica” (v. art. 47 ter, comma 1 bis, ultima parte, O.P.).
Sotto questo profilo, quindi, può affermarsi che entrambi i benefici restano preclusi a condannati, i cui precedenti penali li fanno presumere iuris et de iure socialmente pericolosi: con la differenza che, per agevolare l’accesso alla “nuova” misura ex art. 1, L. 199/2010, rispetto ad essa l’ostatività non è più connessa alla recidiva ex art. 99, comma 4, c.p. (come succede per la detenzione domiciliare “generica”), ma ad una pericolosità presunta più accentuata qual’è quella derivante dalla dichiarazione di abitualità nel delittoex art. 102 c.p. o di professionalità nel reato ex art. 105 c.p. o di tendenza a delinquere exart. 108 c.p.7. Una presunzione ope legis di pericolosità sociale ostativa alla concessione della detenzione presso il domicilio (“salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’art. 14 bis” O.P.) è costituita dalla sottoposizione del detenuto al regime di sorveglianza particolare exart. 14 O.P. [art.1, comma 2, lettera c), L. 199/2010].
Trattasi di una condizione ostativa non richiamata dalla disciplina della detenzione domiciliare “generica”: di guisa che (ceteris paribus) l’accesso al beneficio “speciale” introdotto dalla L. 199/2010 appare astrattamente addirittura più difficoltoso rispetto al conseguimento del beneficio “ordinario”. Ma ciò solo astrattamente!
E’ innegabile, infatti, che un’eventuale sottoposizione dell’istante al regime di sorveglianza particolare viene presa in considerazione dal tribunale di sorveglianza in sede di accertamento delle condizioni di merito necessarie per la concessione della detenzione domiciliare: condizioni tra le quali rientra l’assenza di una concreta pericolosità sociale del detenuto, della quale (concreta pericolosità) a sua volta non può non essere sintomatica l’attuale sottoposizione del soggetto al regime de quo.8. L’assenza di un concreto pericolo di fuga o di recidiva, l’idoneità del domicilio e la sua effettività, infine, pur essendo specificamente previste per la concessione della detenzione presso il domicilio [art. 1, comma 2, lettera d), L. 199/2010], possono sicuramenteannoverarsi pure tra le condizioni di merito della detenzione domiciliare “generica”, che la magistratura di sorveglianza è tenuta a considerare in sede di accertamento della “idoneità della misura ad evitare che il condannato commetta altri reati” (accertamento richiesto dall’art. 47 ter, comma 1 bis, O.P.) ([5]).
Né si dica che l’art. 1, comma 2, lettera d), L. 199/2010, nel richiedere la sussistenza (quale fattore impeditivo alla concessione del beneficio) di “specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti”, abbia inteso far riferimento ad una pericolosità sociale a tasso, per così dire, “speciale” perché più elevato rispetto a quello usualmente richiesto per negare la detenzione domiciliare “generica”.
Nulla di più fantasioso!
Gli è che il Legislatore [nel suo intento di conferire tratti di originalità ad un istituto “anticipato” (illusoriamente…) attraverso i media come un’innovazione risolutiva dei problemi posti dal “sovraffollamento carcerario”], anziché limitarsi ad escludere la concessione del beneficio “ai condannati … che non risultano socialmente pericolosi” (come si legge, per esempio, nell’art. 30 ter, comma 1, O.P. rispetto al beneficio dei permessi premiali), ha surrettiziamente usato una circonlocuzione, con la quale non ha fatto altro che confermare e ribadire quanto da sempre esige la Corte di cassazione (circa la concretezza del pericolo e l’esaustività della relativa motivazione) ogniqualvolta un organo giurisdizionale sia chiamato ad effettuare una prognosi di pericolosità sociale ([6]).9. La natura di misura alternativa alla detenzione del beneficio introdotto dall’art. 1, L. 199/2010, infine, è confermata dal fatto che il Legislatore ne ha rimesso l’applicazione esclusivamente alla magistratura di sorveglianza: all’organo giurisdizionale, cioè, istituzionalmente preposto alla vigilanza sull’attuazione del trattamento penitenziario([7]), al quale (trattamento penitenziario) a sua volta, dovendo essere individualizzato e tendenzialmente rieducativo ([8]), è estraneo ogni automatismo nella “applicazione del trattamento di favore previsto” nei confronti dei detenuti o dei condannati da qualsivoglia disposizione legislativa ([9]).
Se fosse stata concepita come una semplice sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione in carcere (applicabile generaliter ed indipendentemente da ogni valutazione dei risultati del trattamento), infatti, l’esecuzione presso il domicilio avrebbe dovuto essere attribuita dal Legislatore esclusivamente alla competenza del giudice della cognizione(come succede, per esempio, per la semidetenzione e la libertà controllata ex artt. 53 ss. L. 24 novembre 1981, n. 689) o comunque pure alla competenza del giudice della cognizione(come succede, per esempio, per l’espulsione ex art. 16, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286): e ciò, non solo per coerenza sistematica, ma anche e soprattutto [in doverosa attuazione del valore costituzionale della ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2, ultima parte, Cost. ([10])] in funzione di un’abbreviazione dei tempi nei casi di pena detentiva rientrante ab initio (recte: al momento della pronuncia della sentenza di condanna o di “patteggiamento” ex art. 444 c.p.p.) nel limite dei diciotto mesi.
(Altalex, 11 dicembre 2012. Articolo di Giuseppe Vignera)
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([1]) Il limite annuale della pena detentiva, originariamente previsto dalla l. 199/2010, è (come tutti sanno) stato elevato a diciotto mesi dall’art. 3, comma 1, lettere a) e b), d.l. 22 dicembre 2011 n. 211, convertito, con modificazioni, nella l. 17 febbraio 2012 n. 9.
([2]) Cfr. Corte cost. 4 luglio 2006 n. 255, in Riv. Pen., 2006, 912, la quale, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, l. 1° agosto 2003 n. 207 (Sospensione condizionata dell'esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni), “nella parte in cui non prevede che il giudice di sorveglianza possa negare la sospensione condizionata dell'esecuzione della pena detentiva al condannato quando ritiene il beneficio non adeguato alle finalità previste dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione”, ha in motivazione osservato: “Questa Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato il principio secondo cui la tipizzazione per titoli di reato non è lo strumento più idoneo per realizzare appieno i principi di proporzionalità e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario (sentenze n. 445 del 1997; n. 504 del 1995; n. 306 del 1993) e che a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e terzo comma, e 3 della Costituzione (sentenze n. 203 del 1991 e n. 50 del 1980), nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa proporzione della medesima alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono (sentenze n. 349 del 1993 e n. 299 del 1992). Per l'attuazione di tali principi, ed in funzione della risocializzazione del reo, è necessario assicurare progressività trattamentale e flessibilità della pena (sentenze n. 445 del 1997 e 306 del 1993) e, conseguentemente, un potere discrezionale al magistrato di sorveglianza nella concessione dei benefici penitenziari (sentenza n. 504 del 1995). È del tutto evidente, infatti, che la generalizzata applicazione del trattamento di favore previsto dalla disposizione censurata, nell'assegnare un identico beneficio a condannati che presentino fra loro differenti stadi di percorso di risocializzazione, compromette, ad un tempo, non soltanto il principio di uguaglianza, finendo per omologare fra loro, senza alcuna plausibileratio, situazioni diverse, ma anche la stessa funzione rieducativa della pena, posto che il riconoscimento di un beneficio penitenziario che non risulti correlato alla positiva evoluzione del trattamento, compromette inevitabilmente l'essenza stessa della progressività, che costituisce il tratto saliente dell'iter riabilitativo. L'automatismo che si rinviene nella norma denunciata è sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena come precisati dalla richiamata giurisprudenza e va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge 1° agosto 2003, n. 207, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il giudice di sorveglianza possa negare la sospensione condizionata dell'esecuzione della pena detentiva al condannato quando ritiene il beneficio non adeguato alle finalità previste dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione”.
In argomento v. pure Cass. pen., Sez. 1, sentenza 18 giugno 2008 n. 28555, G., nella cui motivazione sta scritto che pure la concessione della detenzione domiciliare per il detenuto ultrasettantenne (prevista dall’art. 47 ter, comma 1, O,P.), “al pari di quanto previsto da tutte le altre disposizioni in materia di benefici penitenziari”, è rimessa “ad un potere discrezionale della magistratura di sorveglianza, cui è riservato il potere di verifica, in ogni caso, della meritevolezza del condannato e della idoneità della misura invocata a facilitarne il reinserimento nella società. Non è, quindi, previsto in tale materia alcun automatismo proprio perché la ratio di tutte le misure alternative alla detenzione - anche quando sono ammissibili perché rientranti negli specifici limiti previsti per ciascuna di esse - è quella di favorire il recupero del condannato e di prevenire la commissione di nuovi reati”; analogamente Cass. pen., Sez. 1, ordinanza 2 febbraio 2007 n. 10308, D. E., in Riv. Pen., 2008, 191].
([3]) V., se si vuole, Cass. pen., Sez. 1, sentenza 11 marzo 1994 n. 1220, D. N., in Cass. Pen., 1995, 1365: “Le varie misure alternative alla detenzione previste dall'ord. penit. hanno caratteristiche proprie e pur tendendo tutte, in applicazione del principio del finalismo rieducativo della pena, sancito dall'art. 27 comma 3 Cost., a risocializzare il condannato e a facilitarne il reinserimento sociale, prevedono criteri diversi, autonomi, per la loro concessione”.([4]) V. esemplificativamente Cass. pen., Sez. 1, sentenza 7 luglio 2006 n. 30804, N. G., in Riv. Pen., 2007,681: “In tema di misure alternative alla detenzione, la previsione di cui all'art. 47 ter, comma primo bis, L. n. 354 del 1975, anche a seguito della sua novellazione ad opera dell'art. 7, comma quarto, n. 1 bis L. n. 251 del 2005, nel disciplinare le ipotesi espressamente preclusive della detenzione domiciliare, rinvia unicamente al catalogo dei reati di cui all'art. 4 bis della Legge sull'ordinamento penitenziario e non al contenuto di quest'ultima disposizione, relativa ad una pluralità di situazioni variamente articolate dal legislatore; ne consegue che rappresenta causa ostativa all'applicazione della detenzione domiciliare la condanna irrevocabile per uno dei delitti tassativamente indicati nel summenzionato art. 4 bis, a nulla rilevando, a tal fine, l'insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”.
([5]) Sul punto v. esemplificativamente la motivazione di Cass. pen., Sez. 1, sentenza 1° dicembre 1999 n. 6712, P.G. in proc. M., in Cass. Pen., 2000, 3436, dove sta scritto: “in assenza di indicazioni legislative circa le condizioni cui ancorare il giudizio per la concessione della detenzione domiciliare nelle ipotesi indicate dal comma 1-bis dell'art. 47 ter della legge n. 354 del 1975 (cd. ordinamento penitenziario), salva l'insussistenza di condizioni per l'affidamento in prova al servizio sociale, il tribunale di sorveglianza ha l'obbligo di dare conto delle ragioni che l'hanno indotto a ritenere la presenza di elementi atti a ritenere il beneficio idoneo ad evitare che il condannato commetta altri reati”.
([6]) Cfr. Cass. pen., Sez. 2, 21 novembre 1997 n. 6480, A., in Riv. Pen., 1999, 676: “A seguito delle modifiche introdotte dalla l. 8 agosto 1995 n. 332 in tema di misure coercitive, il giudice, al fine di valutare la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 274, lett. c), c.p.p., deve tenere conto sia delle specifiche modalità e circostanze del fatto sia della personalità dell'indagato, oggettivamente valutata sulla base dei ‘precedenti penali’ o di ‘comportamenti concreti’ sintomatici della pericolosità, ondepervenire, con motivazione congrua ed adeguata, alla formulazione di una prognosi di pericolosità dell'indagato in funzione della salvaguardia della collettività che deve tradursi nella dichiarazione di una concreta possibilità che egli commetta alcuno dei delitti indicati nella disposizione suddetta. Ciò trova la sua spiegazione nell'esigenza, espressamente prevista dalla norma, di una valutazione globale della gravità del reato e della personalità di chi ne è accusato, sicché il giudice deve effettuare una specifica e distinta valutazione di entrambi i criteri direttivi indicati dalla legge, senza potersi limitare all'apprezzamento dell'uno o dell'altro elemento; conseguentemente, non può assolutamente trarsi il giudizio di pericolosità esclusivamente dalle modalità dei fatti criminosi accertati”.
Sulla questione v. pure Cass. pen., Sez. 3, sentenza 29 marzo 2000 n. 1384, P.: “In tema di esigenze cautelari, la valutazione negativa della personalità dell'indagato può desumersi tenendo presenti i criteri, oggettivi e dettagliati stabiliti dall'art. 133 c.p., fra i quali sono comprese le modalità e la gravità del fatto-reato, sicché non deve essere considerato il tipo di reato o una sua ipotetica gravità, ma devono valutarsi situazioni correlate con i fatti del procedimento ed inerenti ad elementi sintomatici della pericolosità del soggetto con una motivazione fondata sulla concretezza dei fatti e non su criteri generici e/o automatici”.
([7]) Cfr. art. 69, comma 1, O.P.
In argomento v. pure Corte cost. 11 febbraio 1999 n. 26, in Foro It., 1999, I, 1118, nella cui motivazione si legge che, secondo l’ordinamento penitenziario vigente, alla magistratura di sorveglianza spetta una funzione tendenzialmente piena di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati, precisandosi che tale garanzia consiste nel vaglio di legittimità pieno non solo del rispetto dei presupposti legislativi dettati all'amministrazione per l'adozione delle misure, ma anche dei loro contenuti, con particolare riferimento all'incidenza su non comprimibili diritti dei detenuti e degli internati.
([8]) V. artt. 1 e 13 O.P.
([9]) V. la motivazione di Corte cost. 4 luglio 2006 n. 255, ricordata nella nota 2.
([10]) Sulla valenza generale dei princìpi ex art. 111, commi 1 e 2, Cost. (id est: sulla loro riferibilità a qualsivoglia procedimento, attraverso cui si esercita la giurisdizione) ci permettiamo rinviare a VIGNERA, Il giusto processo regolato dalla legge, in AA.VV., Giusto processo e riti speciali, Milano, 2009, 1 ss., spec. 3-4.