stanno
alla base di una proposta di emendamento in sede di conversione
che l'Associazione Nazionali Magistrati si appresta a
presentare.2. Cerchiamo
di fare, brevemente, il punto della situazione.
L'art. 8 del decreto aggiunge un periodo finale all'art. 275
co. 2-bisc.p.p., che suona ora come segue: "Non può
essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o
quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con
la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale
della pena. Non
può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se
il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, la pena
detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni".
L'interpolazione è motivata esplicitamente, nel
decreto, con riferimento alla "straordinaria
necessità e urgenza di modificare il comma 2-bis dell'articolo
275 del codice di procedura penale, al
fine di rendere tale norma coerente con quella contenuta
nell'articolo 656, in materia di sospensione dell'esecuzione
della pena detentiva".
L'art. 656 c.p.p., come è noto, prevede al quinto comma che,
al momento del passaggio in giudicato della sentenza di
condanna, il pubblico ministero sospenda l'esecuzione della pena
detentiva non superiore - di regola - a tre anni, anche se
costituente residuo di maggior pena, in modo da consentire al
condannato, nei trenta giorni successivi, di formulare istanza
di concessione di una misura alternativa alla detenzione. La
sospensione dell'esecuzione ha lo scopo di evitare
il passaggio in carcere per i condannati che si trovino in stato
di libertà ovvero agli arresti domiciliari al momento del
passaggio in giudicato della sentenza, allorché
la quantità di pena ancora da eseguire sia
compatibile con la concessione dell'affidamento in prova al
servizio sociale, ovvero - in caso di insussistenza dei
presupposti per l'affidamento in prova -della detenzione
domiciliare o,
in ulteriore subordine,dell'esecuzione della pena presso
il domicilio di
cui alla legge n. 199/2010 e successive modificazioni. Il
soggetto potrà ugualmente finire in carcere, beninteso, se il
tribunale di sorveglianza lo riterrà poi immeritevole di tutti
questi benefici; ma il legislatore, del tutto ragionevolmente,
muove qui da una prognosi favorevole circa la loro concessione.
La situazione è però rovesciata allorché il soggetto
si trovi in stato di custodia cautelare al momento del passaggio
in giudicato della sentenza: qui l'art. 656 co. 9 lett.
b) c.p.p. esclude la sospensione dell'ordine di esecuzione anche
in pendenza della richiesta di concessione di misure
alternative, muovendo dall'opposta presunzione che il
tribunale di sorveglianza non concederà
alcuno dei benefici in parola. E ciò in quanto la
persistenza della misura custodiale in carcere al momento del
passaggio in giudicato della sentenza è fondata, nella
stragrande maggioranza dei casi, su di un pericolo di
reiterazione del reato o
su di un pericolo
di fuga, non neutralizzabili mediante gli arresti
domiciliari: pericoli
la cui sussistenza è incompatibile con la concessione di tutte
le misure alternative in parola (cfr.
in particolare l'art. 47 co. 2 ord. pen.: l'affidamento in prova
è concesso "quando si può ritenere che il provvedimento ...
assicuri la prevenzione del pericolo che [il condannato]
commetta altri reati"; l'art. 47 ter co.
1 bis ord.
pen.: la detenzione domiciliare può essere concessa "quando
non ricorrano i presupposti per l'affidamento in prova al
servizio sociale ... e sempre che tale misura sia idonea ad
evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati";
l'art. 1 l. 199/2010: "la detenzione presso il domicilio non
è applicabile ... quando vi è la concreta possibilità che il
condannato possa darsi alla fuga ovvero sussistono specifiche e
motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere
altri delitti ovvero quando non sussista l'idoneità e
l'effettività del domicilio anche in funzione delle esigenze di
tutela delle persone offese"). Se,
dunque, le esigenze cautelari in parola sussistono davvero al
momento del passaggio in giudicato della sentenza, sarebbe
illogico pensare che il tribunale di sorveglianza - appena
qualche mese dopo - possa concedere un beneficio che presuppone
l'inesistenza, appunto, del pericolo di reiterazione del reato e
del pericolo che il condannato si renda irreperibile.
Su questo sfondo -
in sé del tutto coerente - si
innesta la novella legislativa, che sancisce un divieto
assoluto di disporre la custodia cautelare in carcere in tutti i
casi in cui il giudice ritenga che, all'esito del giudizio, la
pena detentiva "da eseguire" non superi i tre anni. A
prescindere per il momento dalle difficoltà di esegesi
dell'inciso "da eseguire", sulle quali tornerò tra qualche
istante, lo scopo della norma è all'evidenza quello di consentire
tendenzialmente in tutti questi
casi la sospensione dell'ordine di esecuzione della condanna al
momento del passaggio in giudicato della sentenza,
evitando il meccanismo preclusivo di cui all'art. 656 co. 9
lett. b) c.p.p.,
che - come abbiamo visto - esclude la sospensione allorché il
condannato si trovi in quel momento in stato di custodia
cautelare in carcere.
La previsione dell'art. 656 co. 9 lett. b) c.p.p.
è, anzi, a questo punto svuotata di contenuto:
a parte i casi disciplinati dagli arte 90 e 94 del t.u. stup., i
condannati ad una pena fino a tre anni - e cioè quegli stessi
condannati che ai sensi del comma 5 possono beneficiare della
sospensione dell'ordine di esecuzione - per effetto del nuovo
art. 275 co. 2-bis non
potranno più trovarsi in stato di custodia cautelare al momento
del passaggio in giudicato della sentenza.
E pertanto: nessuno di
questi imputati dovrà andare in carcere durante il processo; e
quasi tutti (salvi quei pochi che rientreranno nella
diversa preclusione di cui all'art. 656 co. 9 lett. a)
beneficeranno al momento della condanna della sospensione
dell'ordine dell'esecuzione ai sensi dell'art. 656 co. 5 c.p.p.,
e potranno così attendere in
stato di libertà o,
al più, agli
arresti domiciliari (art.
656 co. 10) la decisione del tribunale di sorveglianza. E ciò
anche laddove, in considerazione della loro pericolosità sociale
o del rischio che si sottraggano con la fuga all'esecuzione
della condanna (e dunque dei pericoli che sino a ieri avrebbero
consentito l'adozione nei loro confronti della misura custodiale
in carcere), sia assai probabile il rigetto della loro istanza
di misura alternativa alla detenzione da parte del tribunale di
sorveglianza. Solo in quel momento, in base al decreto legge
appena entrato in vigore, essi dovranno andare in carcere:
ammesso, naturalmente, che li si riesca a reperire.
Lungi dal rendere coerente il sistema delle misure cautelari
con la disciplina dell'art. 656 c.p.p., dunque, la
novella legislativa stravolge letteralmente la logica originaria
dell'art. 656 c.p.p., rovesciandone i saggi schemi
presuntivi in favore di un generalizzato
favor libertatis anche
per soggetti che non sono in alcun modo candidati a beneficiare
delle misure alternative, in ragione della loro spiccata
pericolosità sociale o del concreto rischio che si sottraggano
con la fuga alla sanzione.
3. Ma,
soprattutto, la novella legislativa preclude
il soddisfacimento anche delle più pressanti esigenze cautelari
nei confronti di tutti gli imputati per i quali sia prevedibile
una condanna a pena detentiva non superiore ai tre anni.
Chiunque abbia un minimo di esperienza pratica sa bene che il
limite di tre anni di pena in concreto è compatibile con reati
di media gravità, e comunque di
notevole allarme sociale: come ricordavo in sede di
primissimo commento, il catalogo va dai furti
in abitazionealle piccole
rapine, dai maltrattamenti
in famiglia allo stalking,
dalpeculato e
la corruzione
per l'esercizio della funzione all'illecito
finanziamento ai partiti.
Dal 28 giugno scorso, è dunque vietato
applicare la custodia cautelare in carcere in tutti questi casi,
pur in presenza delle più gravi esigenze cautelari, a
meno che il giudice non 'gonfi' artificiosamente la prognosi
sulla pena che sarà irrogata. Un espediente, quest'ultimo, che
avrebbe comunque le gambe corte, perché già a partire dalla
condanna di primo grado la prognosi sarà sostituita dalla
semplice constatazione del quantum di
pena irrogata: se la pena non è superiore ai tre anni, la
custodia cautelare dovrà in ogni caso essere revocata. A meno
che, anche qui, i giudici non incomincino semplicemente... ad
innalzare regolarmente le pene sopra i tre anni, a fronte di
esigenze cautelari particolarmente importanti; con un esito a
dir poco distonico rispetto agli stessi intendimenti del
legislatore (oltre che, naturalmente, ingiusto per i
condannati).
I risultati sono facili da immaginare; ma forse non è inutile
evidenziare un po' più nel dettaglio le situazioni assurde che
si presenteranno nei prossimi giorni, e che in parte si sono già
presentate in questa prima settimana di applicazione del
decreto.
Scenario tipico da 'direttissima': arresto in flagranza di un
soggetto colto a rubare in un appartamento, o di un ladro di
supermercati che ha usato violenza contro il personale di
vigilanza durante il controllo (rapina impropria). Il giudice
della convalida ritiene che la pena detentiva inflitta non sarà
superiore ai tre anni, ma ravvisa un evidente pericolo di
reiterazione del reato in considerazione dei numerosi precedenti
penali dell'imputato, nonché il pericolo che il soggetto si
sottragga all'esecuzione della sanzione stante la dichiarata
assenza di fissa dimora. Il nuovo art. 275 co. 2-bis c.p.p.
impedisce di applicare nei loro confronti la custodia cautelare
in carcere; d'altra parte, nemmeno gli arresti domiciliari
risultano applicabili nel caso di specie, stante
l'indisponibilità di un domicilio (essendo verosimile che -
contrariamente a quanto normalmente accadeva sino al 28 giugno
scorso - oggi nessun parente o amico si presenterà più in
tribunale per dichiarare la propria disponibilità ad accogliere
in casa propria l'imputato). L'imputato dovrà così essere
rimesso immediatamente in libertà con una misura non custodiale.
Facile prevedere che l'imputato violerà le prescrizioni
inerenti alla misura; ma, anche in questo caso, nulla di male
potrà accadergli. L'art. 280 co. 3 c.p.p. consente,
in effetti, l'applicazione della custodia cautelare in carcere,
in caso di trasgressione delle
prescrizioni inerenti ad altra misura cautelare, anche in deroga
ai limiti di pena (massimo edittale pari ad almeno cinque anni
di reclusione) indicati nel comma 2; ma non
contempla alcuna deroga all'art. 275 co. 2-bis, che
vieta oggi in maniera assoluta la custodia cautelare in carcere
in tutti i casi in cui il giudice ritiene che la pena in
concreto inflitta non
sarà superiore a tre anni.
Facile prevedere che, in queste condizioni, il nostro
imputato possa rapidamente sparire dalla circolazione. Il
processo nei suoi confronti si farà comunque (l'imputato,
regolarmente difeso e avvertito del successivo corso del
processo all'udienza di convalida, sarà considerato assente se
non si presenterà alle udienze successive) e la pena passerà in
giudicato: ma resterà, con tutta probabilità, sulla carta.
La situazione è poi ancora più paradossale nelle ipotesi in
cui l'imputato disponga di un domicilio, e possa essere
collocato agli arresti domiciliari. In caso di trasgressione degli
obblighi inerenti alla misura, l'art. 276 co. 1-ter c.p.p. dispone
bensì che la misura debba essere revocata e sostituita con la
custodia cautelare in carcere. Ma anche
tale disposizione è, oggi, divenuta inapplicabile in tutti i
casi previsti dall'art. 275 co. 2-bis c.p.p.,
che stabilisce legenerali condizioni
di applicabilità della custodia cautelare in carcere: la quale
dunque dovrà essere applicata soltanto agli imputati per i quali
il giudice prognostichi l'inflizione una pena detentiva
superiore ai tre anni.
D'altra parte, l'imputato che si allontani dal domicilio
potrà essere sì arrestato per evasione, in
forza dell'art. 3 d.l. 151/1991; ma nei suoi confronti non
potrà più essere disposta la misura della custodia cautelare in
carcere nemmeno in relazione al procedimento per evasione,
l'art. 391 co. 5 c.p.p. derogando per tutti i casi di arresto in
flagranza ai limiti di pena di cui agli articoli 274 co. 1 lett. c) e
280, ma non -
ancora una volta - alla norma generale di cui all'art. 275 co.
2-bis in
parola.
L'imputato agli arresti potrà così tranquillamente
allontanarsi dal proprio domicilio, senza temere in alcun caso
di essere posto - almeno nell'immediato - in carcere. Per
finirci, dovrà attendere quanto meno il passaggio in giudicato
della sentenza che lo condannerà per evasione (sempre,
naturalmente, che non riesca a porsi in salvo in tempo utile).
La situazione sfiora, infine, il ridicolo nell'ipotesi in cui
l'imputato di un reato per il quale sia pronosticabile
l'inflizione di una pena detentiva non superiore a tre anni sia già
stato condannato, nei cinque anni precedenti, per evasione.
In questo caso, l'art. 284 co. 5-bis c.p.p.
vieta che siano concessi gli arresti domiciliari, evidentemente
dando per scontato che il giudice applicherà la custodia
cautelare in carcere; la quale però è - oggi - vietata dall'art.
275 co. 2-bis c.p.p.
Risultato: l'imputato, che già ha dimostrato una spiccata
tendenza alla fuga, dovrà essere necessariamente sottoposto a
una misura non custodiale - che certamente non tarderà a
trasgredire.
4. La
sistematica frustrazione appena descritta delle esigenze
cautelari appare poi specialmente
intollerabile in relazione a reati a base violenta quali i
maltrattamenti in famiglia o gli atti persecutori (il
c.d. stalking).
La pratica scomparsa, in questi casi, della prospettiva della
custodia cautelare in carcere come ultima
ratio per la tutela della vittima durante il processo
(perché di questo si tratta, con buona pace delle resistenze
teoriche di molta parte della dottrina processualpenalistica
rispetto a questa prospettiva) rischia di rendere
sistematicamente ineffettive anche le altre misure cautelari non
custodiali, a cominciare dal divieto di avvicinamento
ai luoghi frequentati dalla persona offesa: misure che in tanto
possono funzionare, in quanto la loro trasgressione possa essere
sanzionata mediante l'aggravamento della misura, sino alla
prospettiva 'finale' della custodia cautelare in carcere, la
quale esercita mediamente un effetto deterrente nei confronti
degli imputati proprio in quanto sia una prospettiva reale, cui
ci si espone in caso di reiterazione nel comportamento
aggressivo.
5. Si
potrebbe altresì discutere sulle già anticipate difficoltà di
interpretazione dell'inciso "pena da eseguire" contenuto nella
norma - inciso davvero oscuro, posto che la quantità di pena ancora
da eseguire una
volta detratto il pre-sofferto può essere determinata soltanto
al momento del passaggio in giudicato della sentenza, e non nel
momento in cui il giudice debba decidere sull'applicazione di
una misura cautelare, e in cui è possibile al più fare una
prognosi sulla pena che sarà inflitta al
momento della condanna. Ma non credo valga la pena di
soffermarsi anche su questo aspetto, certamente suscettibile di
essere corretto in sede di conversione del decreto, dal momento
che a me pare - assai più radicalmente - che la norma in esame meriti
di essere del tutto eliminata in
quella sede.
Non ritengo, in effetti, sia proficuamente percorribile la
strada di una sua mera correzione, più volte invocata in questi
giorni nel dibattito pubblico. Immaginare una lista
di reati di particolare allarme sociale che facciano eccezione
alla regola generale è,
infatti, un espediente particolarmente gradito al nostro
legislatore, che ha però il non trascurabile effetto collaterale
di dare la stura a probabili eccezioni di illegittimità
costituzionale in relazione ai reati non inclusi nella lista;
mentre introdurre una clausola
generale che,
ad es.,consenta al giudice di applicare la misura
cautelare in carcere nei casi di grave pericolo di reiterazione
del reato, significherebbe reintrodurre dalla
finestra quelle stesse esigenze cautelari indicate in via
generale dall'art. 274 c.p.p., che
si volevano solennemente cacciate dalla porta per tutti gli
imputati per i quali possa effettuarsi una prognosi di pena
detentiva non superiore, in concreto, ai tre anni.
Anche perché, una volta reintrodotta la possibilità della
custodia cautelare per il pericolo di reiterazione del reato,
perché mai non reintrodurla anche per il pericolo
di fuga, quasi che possa essere considerato un problema
veniale quello di un condannato che si sottragga all'esecuzione
di una pena di tre anni di reclusione? E perché non ripristinare
la custodia cautelare anche per i casi più eclatanti di pericolo
di inquinamento probatorio, particolarmente rilevanti
in relazione a tipologie di reato diverse da quelle delle
'direttissime', e che coinvolgono invece 'colletti bianchi' che
possono avvalersi di fitte rete di relazioni e di potere?
Ancora più in radice, la norma va a mio avviso cancellata per
il messaggio - pernicioso, ma purtroppo già diffuso anche tra
gli addetti ai lavori - che finisce involontariamente per
rafforzare: quello, cioè, per cui la
pena detentiva fino a tre anni in realtà non esiste, o comunque
non è cosa da prendere sul serio. Un messaggio, questo,
del tutto distonico anche rispetto alla giustissima prospettiva
di immaginare e attuare alternative effettive alla pena
detentiva: le quali, per poter funzionare, presuppongono tutte
la persistenza - almeno sullo sfondo - della prospettiva di
finire in carcere (anche, se necessario, per periodi ben
inferiori ai tre anni) in caso di inadempimento degli obblighi
ad esse inerenti.
La lotta per un volto più dignitoso, e umano, della pena non
passa per scorciatoie come quella oggi sperimentata, che
finiscono per indebolire la credibilità dell'intero sistema
penale e - ciò che più conta - la sua essenziale funzione di
tutela delle vittime del reato.