Andrea Pugiotto (Intervista realizzata da Francesca de Carolis)
Uno Stato che non rispetta la sua legalità
Una Città, n. 215 / 2014 Settembre
Il luogo comune che nessuno muore in carcere a fronte di una realtà di più di
mille ergastolani ostativi; il confine costituzionale fra forza e violenza che
impedisce che l’uso della prima sconfini in quello della seconda; un tema,
quello dell’ergastolo, su cui la volontà popolare non può esercitarsi, in quanto
di rilevanza costituzionale; il rischio che il problema gravissimo del
sovraffollamento fa correre: che il reo diventi vittima.
Quando e perché ha scelto di fare della questione carceraria e in particolare
dell'ergastolo non solo il suo filone principale di studio, ma anche una vera e
propria battaglia civile?
Provo a rispondere muovendo da un dato giuridico. Nel nostro ordinamento
penale esiste un principio secondo il quale, quando si ha il dovere giuridico di
impedirlo, non evitare un reato equivale a cagionarlo. Analogamente, avere una
competenza (cioè un sapere) e non fare nulla, è un grave peccato di omissione o,
per noi laici, una grave responsabilità personale. Nasce da qui, da questa
consapevolezza, l'urgenza non solo di studiare e di scrivere, ma anche di
trovare strumenti inediti ed efficaci in grado di veicolare il proprio sapere in
una battaglia di scopo.
Non accade spesso, tra i membri dell'Accademia...
Non saprei dire. E comunque, in questo, ognuno risponde solo a se stesso:
nel mio caso la circolarità tra l'impegno scientifico e l'impegno civile era un
esito pressoché obbligato. Da costituzionalista, infatti, ho sempre pensato il
diritto come violenza domata, e la Costituzione come regola e limite al potere.
Visti da tale angolazione, il carcere e le pene rappresentano indubbiamente un
campo d'indagine privilegiata, un banco di prova tra i più impegnativi per
misurare la distanza tra la dimensione ontica del diritto, la sua effettività, e
la dimensione deontica del diritto, il suo dover essere. O, se preferisce, tra
il diritto vivente e il diritto che insegno.
Iniziamo dall'ergastolo, al cui superamento lei ha dedicato un'attenzione tutta
particolare. Un tema impopolare, senza parlare del luogo comune difficile da
scalfire: "l'ergastolo in Italia non esiste più"...
Sul tema dell'ergastolo, ma vale in realtà per tutti i principali problemi
che ruotano attorno alle pene e alla loro esecuzione, è davvero larga la forbice
tra il senso comune e la realtà delle cose. Ecco perché è fondamentale la
parola, lo scritto, il dibattito pubblico, la capacità di creare momenti di
riflessione non reticente: tutte occasioni capaci di colmare la distanza
abissale tra l'opinione omologata, la doxa dominante, e la consapevolezza delle
cose, l'epistème. Quante persone sanno, ad esempio, che in Italia esistono non
uno ma più tipi di ergastolo? Quante sono al corrente che, al 22 settembre 2014,
dietro le sbarre si contavano 1.576 ergastolani dei quali ben 1.162 ostativi?
Parlo di ergastoli al plurale perché, accanto a quello comune contemplato
nell'art. 22 del codice penale, presentano un proprio regime autonomo ed una
propria ratio l'ergastolo con isolamento diurno (art. 72 c.p.) e l'ergastolo
ostativo (per i reati previsti all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario).
Di ergastolo nascosto si deve poi parlare per l'internamento dei rei folli negli
ospedali psichiatrici giudiziari che, di rinnovo in rinnovo, spesso si traduce
in una detenzione senza fine. Degli attuali 1576 ergastolani, molti sono reclusi
da oltre 26 anni, che pure è il termine raggiunto il quale è possibile accedere
alla liberazione condizionale, anche se si sta scontando una pena a vita. Altri
addirittura sono in carcere da più di 30 anni, che è la durata massima per le
pene detentive. Quanto agli ergastolani ostativi (e sono almeno 681), sono
condannati a morire murati vivi, perché per essi - salvo non mettano qualcuno al
loro posto, collaborando proficuamente con la giustizia - le porte del carcere
non si apriranno mai. Mi (e vi) domando: dobbiamo forse attenderne la morte in
carcere, per affermare che queste persone stanno scontando una pena senza fine?
L'ergastolo, però, è già stato sottoposto a giudizio, sia costituzionale, mi
riferisco alla sentenza n. 264 del 1974, che popolare con referendum radicale
del 1981. Tutte e due le vote ne è uscito confermato...
Quanto a quel voto popolare contrario all'abrogazione dell'ergastolo, come
per ogni altro referendum la vittoria del no non produce alcun vincolo
giuridico, perché solo la vittoria del sì - con conseguente cancellazione della
legge - è in grado di innovare l'ordinamento. Semmai, il fatto che la Corte
costituzionale abbia allora dichiarato ammissibile il quesito, ci dice che
l'ergastolo non è una pena costituzionalmente necessaria: le leggi il cui
contenuto è imposto dalla Costituzione, infatti, non possono essere sottoposte a
referendum abrogativo. Da ultimo, vorrei ricordare che anche la sovranità
popolare si esercita "nelle forme e nei limiti della Costituzione" (art. 1, 2°
comma) e se l'ergastolo è una pena illegittima, non basta a metterlo in
sicurezza un voto referendario.
Ma la Corte costituzionale, ricordavamo, ha escluso che il "fine pena mai" violi
la nostra Carta fondamentale...
Quella sentenza di rigetto, che risolveva un problema gigantesco con una
motivazione di sole tremila battute, giuridicamente, non preclude la
riproposizione della questione di legittimità dell'ergastolo. Da allora,
infatti, il quadro costituzionale è mutato: pensi, ad esempio, all'introduzione
in Costituzione nel 2007 del divieto incondizionato della pena di morte (art.
27, 4° comma), che molto ci dice sull'illegittimità di pene irrimediabili e che
eleva a paradigma la finalità risocializzatrice cui tutte le pene "devono
tendere", come enuncia l'art. 27, 3° comma. La stessa giurisprudenza
costituzionale, nel tempo, ha valorizzato in massimo grado questo vincolo di
scopo, che non può mai essere sacrificato integralmente ad altre diverse
finalità, arrivando anche, con la sentenza n. 161/1997, a dichiarare illegittimo
l'ergastolo per i minori. Infine, quella sentenza di quarant'anni fa diceva cose
che, oggi, andrebbero rilette con maggiore attenzione di quanto finora è stato
fatto.
Ci spiega?
La ratio decidendi di quella decisione è che l'ergastolo non viola la
Costituzione perché non è più pena perpetua, potendo il condannato a vita
beneficiare della liberazione condizionale, istituto che estingue la pena
restituendo il reo alla libertà. Con tutto il rispetto, si tratta di un sofisma.
Equivale a dire che l'ergastolo esiste in quanto tende a non esistere.
Rovesciato, quell'argomento dimostra che una reclusione a vita è certamente
incostituzionale: dunque, tutti i condannati che per le ragioni più varie hanno
scontato l'ergastolo fino a morirne, sono stati sottoposti a una pena che la
Costituzione respinge. È accaduto. Accade anche oggi. Continuerà ad accadere,
finché sopravvivrà la previsione legislativa di una pena perpetua.
Perché, allora, in tutti questi anni, l'ergastolo non è mai stato cancellato dal
codice penale?
Perché le pene, la loro tipologia, la loro durata, rappresentano un
formidabile "medium comunicativo", come dice Giovanni Fiandaca, manipolabile ad
arte e catalizzatore di ansie sociali, È un serbatoio cui la politica attinge a
piene mani per rispondere simbolicamente alla paura percepita dal corpo sociale.
Ma dal quale si tiene alla larga, quando si tratta di restituire al diritto
penale cornici edittali più ragionevoli di quelle attuali, o se si tratta di
mettere in discussione un sistema penale tolemaicamente costruito attorno al
paradigma della pena detentiva. Difficile, in questo contesto, che l'ergastolo,
cioè la massima tra le pene, possa essere cancellato da un voto, parlamentare o
referendario, entrambi suggestionabili ad arte.
Infatti lei ha indicato come strada alternativa l'incidente di costituzionalità
davanti alla Consulta. E a questo scopo ha elaborato un atto di promovimento
(pubblicato nella rivista Diritto Penale Contemporaneo e che è anche in
appendice al volume Volti e maschere della pena curato con Franco Corleone).
Perché questa strada dovrebbe riuscire dove hanno fallito legge e referendum?
Prevedere come i giudici costituzionali risponderebbero a rinnovati dubbi di
legittimità sull'ergastolo va oltre le mie capacità. Tuttavia, diversamente da
un voto politico, so che il loro giudizio andrà argomentato secondo coerenza
logica e giuridica, sarà guidato da un principio di legalità costituzionale che
ha una sua logica stringente non inquinabile da ragioni di opportunità.
Riducendo l'essenziale all'essenziale: i giudici delle leggi rispondono alla
Costituzione, non al consenso popolare. Compito del giudice che impugna la legge
è argomentare persuasivamente perché il carcere a vita, cioè a morte, si
collochi fuori dall'orizzonte costituzionale delle pene. In ciò la dottrina
giuridica può dare il suo contributo. Dopo di che, vale la massima "fai ciò che
devi, accada quel che può".
Può sembrare un atto di sfiducia nella logica democratica, fatta di partiti,
confronto parlamentare, leggi approvate a maggioranza...
Capisco l'obiezione ma la respingo. Nasce dall'ubriacatura di questi ultimi
vent'anni a favore di una mera democrazia d'investitura, quasi che gli strumenti
della sovranità popolare si risolvano esclusivamente nel voto periodico, inteso
come delega a una forza politica, a sua volta riunita attorno al capo di turno
che tutto prevede e a tutto provvede. La democrazia liberale, disegnata nella
nostra Costituzione, è molto più ricca e articolata. Prevede la rappresentanza
politica, ma anche la seconda scheda referendaria, il pluralismo associativo,
l'esercizio delle libertà civili, la rivendicazione dei propri diritti per via
giurisdizionale. La sovranità popolare, in altri termini, si esercita
continuamente attraverso tutti questi canali di partecipazione. Tra essi c'è
anche la via della questione di costituzionalità, laddove ne ricorrano le
condizioni di ammissibilità previste dalla legge.
La via giurisdizionale come forma complementare di partecipazione politica,
dunque?
In un certo senso è così. Per la condizione carceraria, ad esempio, il
processo di riforme introdotte nell'ultimo anno da Governo e Parlamento è stato
messo in moto da importanti decisioni giurisdizionali sui diritti dei detenuti,
pronunciate dalla Corte di Strasburgo e dalla Corte costituzionale, sollecitate
opportunamente da singoli detenuti o da giudici chiamati, altrimenti, ad
applicare norme illegittime. Diversamente, tutto sarebbe rimasto come prima.
Spero accada, e presto, anche per l'ergastolo.
Più in generale, comunque il diritto esige sanzioni per condotte penalmente
illecite, pene detentive, anche dure...
Premesso che la pena è un male necessario, senza il quale sarebbe a rischio
l'esistenza stessa dell'ordinamento e, con esso, le condizioni minime necessarie
a una convivenza pacifica, va fatta salva una precisazione, in verità decisiva.
La nostra Costituzione ammette la forza di cui lo Stato ha il monopolio ma nega
la violenza. E lo fa proprio con riferimento alle situazioni in cui il soggetto
è nelle mani dell'apparato statale: se è costretto a una qualunque restrizione
di libertà (art. 13, 4° comma), durante l'esecuzione della pena (art. 27, 3°
comma), quando è sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio (art. 32, 2°
comma). I tanti obblighi internazionali che pongono il divieto di trattamenti
crudeli, inumani, degradanti, e ai quali l'Italia è egualmente vincolata ora
anche per obbligo costituzionale (mi riferisco all'art. 117, 1° comma), chiudono
questo cerchio normativo. Ecco il punto: quando la pena minacciata dal
legislatore, irrogata dal giudice, eseguita dalla polizia penitenziaria sotto il
controllo della magistratura di sorveglianza, travalica il confine che separa la
forza dalla violenza, non è più una pena legale.
E questo è proprio quello che accade nelle nostre carceri sovraffollate, come ha
stabilito la Corte europea dei diritti dell'uomo, condannando l'Italia per il
divieto di tortura sancito dall'art. 3 della Cedu...
Esattamente. Anche qui urge una precisazione, per me decisiva. Affrontare il
problema "strutturale e sistemico", per dirla con i giudici di Strasburgo, di
galere colme fino all'inverosimile, non significa fare fronte a un problema
umanitario, né essere chiamati a un sussulto di civiltà o a un obbligo morale.
Quello che abbiamo davanti, e di cui il sovraffollamento è solo il lato più
visibile, è innanzitutto un problema di legalità. La sua soluzione, dunque, non
è una scelta dettata da buonismo o affidata a valutazioni di opportunità
politica. È, semmai, un vero è proprio dovere costituzionale cui non possiamo
sottrarci. Pena, altrimenti, un micidiale cortocircuito ordinamentale.
Quale?
Quello per cui, mentre condanna un soggetto ad espiare una pena per aver
violato la legge, è lo Stato che contestualmente viola la propria Costituzione,
la Cedu, l'ordinamento penitenziario e finanche il suo regolamento di
esecuzione. È un cortocircuito micidiale perché, a riconoscere che lo Stato non
rispetta la propria legalità sono i suoi stessi organi apicali: sul problema del
sovraffollamento carcerario, per esempio, i richiami più severi sono venuti dal
Presidente della Repubblica, dalla Corte costituzionale, dal Primo Presidente
della Corte di cassazione. La stessa Presidenza del Consiglio, con propri
decreti, ha proclamato nel 2010 e reiterato negli anni successivi lo stato di
emergenza in ragione dell'attuale condizione carceraria. Sono state addirittura
emanate apposite circolari ministeriali che riconoscono il problema dei troppi
suicidi dietro le sbarre, la violazione della capienza regolamentare nelle
carceri, il problema di una carente assistenza sanitaria per i detenuti. Se
questo è il quadro, corriamo il serio pericolo che il reo diventi vittima,
perdendo così la consapevolezza della propria condotta antigiuridica, percepita
come minuscola davanti a una illegalità statale tanto certa quanto vasta.
Lei fa molti incontri in carcere e in carcere, è entrato più volte. Che
percezioni ne ha ricavato?
Entrare in un carcere, anche se occasionalmente, è un'esperienza
sconvolgente. Varchi uno, due, tre, più cancelli che, ad ogni passaggio, si
richiudono rumorosamente alle tue spalle. Gli odori, i suoni, i colori, gli
spazi, i visi che incroci - del detenuto, dell'agente penitenziario, dei
familiari di detenuti, il più delle volte mogli, madri, sorelle fuori dal
carcere in attesa di entrare per i colloqui - ti si imprimono nel ricordo. È
come se tutti i tuoi sensi acuissero la loro capacità di percezione.
Fondamentalmente, è un'esperienza che ti mette in contatto con il dolore più
sordo, quello che sembra non avere né rimedio né speranza. Per quanto mi sia
sforzato, non riesco minimamente a realizzare che cosa siano, quotidianamente,
il tempo dietro le sbarre, l'assenza di spazio, la convivenza coatta tra
detenuti, l'amputazione della sessualità come libera scelta.
Dove trovare le parole per far capire a chi non ha visto, per raccontare...
Nella letteratura spesso riesco a trovare le parole capaci di raccontare del
carcere ciò che altrimenti non saprei personalmente narrare. Adriano Sofri, su
tutti, ha questa straordinaria dote. Penso ai suoi libri più carcerari: Le
prigioni degli altri (Sellerio), Altri Hotel (Mondadori, 2002), alcune pagine di
Piccola posta (Sellerio, 1999) e quelle sull'ergastolo in Reagì Mauro Rostagno
sorridendo (Sellerio, 2014). Tra le mie letture più recenti, ho trovato
coinvolgenti alcuni romanzi che ruotano attorno all'esperienza del carcere,
guardata con occhi diversi: lo sguardo del detenuto che è entrato e uscito di
galera (Sandro Bonvissuto, Dentro, Einaudi, 2012), lo sguardo dei figli di madri
detenute che hanno vissuto i loro primi tre anni di vita dietro le sbarre
(Rosella Postorino, Il corpo docile, Einaudi, 2013), lo sguardo dei genitori di
figli detenuti in regimi di massima sicurezza (Francesca Melandri, Più alto del
mare, Bur, 2012). Per capire l'ergastolo, poi, i libri di Nicola Valentino,
Carmelo Musumeci e - senza alcuna piaggeria - le testimonianze da lei raccolte
Urla a bassa voce (Stampa Alternativa, 2012) sono stati per me letture
fondamentali.
La scrittura e la lettura, in effetti, possono essere chiavi d'accesso a una
realtà, come quella del carcere, altrimenti sconosciuta...
È vero, ma c'è anche dell'altro. Le parole "libro" e "libertà" derivano
dalla medesima radice: liber. Ci aveva mai fatto caso? Io la trovo una
coincidenza fantastica. Non è una bizzarria, allora, se in altri paesi per ogni
libro letto in detenzione è prevista una riduzione della pena da scontare. Del
resto, non si è sempre detto che la lettura è una forma di evasione?