Giovanni Palombarini
L'Indice 2011
Recensione a Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista
Edizioni Gruppo Abele, Torino 2011
"C'è chi ritiene
l'abolizionismo una sorta di vascello che trasporta quantità variabili di
esplosivo". Così Vincenzo Ruggiero apre l'introduzione del suo ultimo libro,
Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista. Certo, non è
questa la stagione culturale più idonea a proporre all'attenzione del ceto
politico una simile tematica e le argomentazioni che la innervano. E però,
indipendentemente dalla condivisione delle conclusioni alle quali giungono oggi
gli esponenti di questa corrente di pensiero, è sempre utile richiamare
l'attenzione sulle ragioni di una critica radicale del sistema penale che essi
propongono. Il paese attraversa da anni una situazione drammatica per quanto
riguarda il cosiddetto problema dell'affollamento in carcere. In realtà, in un
contesto nel quale miti e sentimenti reazionari si intrecciano continuamente
all'indifferenza per i diritti umani dei ceti marginali, il tema della pena
propone un insieme di problemi che, al di là del sovraffollamento, riguardano da
vicino la condizione della democrazia. Sembrano in crisi non solo le dottrine di
giustificazione, sia quelle cosiddette "assolute" o della retribuzione, sia
quelle della prevenzione speciale, ma anche quel pensiero riformatore che
affianca all'utilità della pena, intesa come prezzo necessario per impedire
danni maggiori ai consociati, la sua funzione rieducativa, come descritta nella
costituzione repubblicana. Più in generale, i sistemi penali, a cominciare da
quello italiano, si caratterizzano oggi per la loro dismisura.
Da qualche anno si è aperta una riflessione rinnovata sulla funzione e sui
limiti dell'intervento penale, ma gli studiosi non sono giunti a conclusioni
condivise. Anche per questo è utile soffermarsi sulle riflessioni di Ruggiero.
La vicenda dell'"abolizionismo" è articolata, complessa e ricca di spunti di
riflessione. Inizialmente il movimento che si richiamava a tale concetto aveva
come obiettivo l'abolizione della schiavitù, della pena di morte e della
tortura. L'orizzonte si è poi allargato. Anche la cancellazione della pena
dell'ergastolo e dei ricoveri manicomiali definitivi sono entrate nel panorama
dei risultati da perseguire.
In tempi più vicini l'"abolizionismo penale", pur mantenendo al proprio interno
un'articolazione di analisi e di proposte, ha ampiamente superato quei limiti.
Attualmente si va da una sua prima componente che, partendo da una critica
radicale all'intero sistema penale, ha proposto un cambiamento totale delle
prospettive repressive (sostenendo la possibilità/necessità di rinunciare al
sistema della sofferenza legale) ad altre componenti che, pur condividendo la
valutazione secondo cui il sistema giuridico penale crea molti più problemi di
quelli che contribuisce a risolvere, propongono non l'abolizione tout court
della risposta penale, ma una prospettiva "altra" nell'analisi della criminalità
e delle sue ragioni, e uno studio nuovo, originale, della legislazione, che con
tali ragioni si misuri. Una teoria unificante dell'abolizionismo, dunque, non è
proponibile; e Ruggiero ne dà atto.
Ma se questa sintesi degli attuali orientamenti è corretta, sorgono spontanee
alcune domande, nelle due direzioni fondamentali appena ricordate.
Con riferimento all'ipotizzata rinuncia al diritto penale (che ha fra i suoi
scopi – va ricordato – quello di prevenire reazioni informali al delitto), quali
diversi strumenti di controllo sociale sarebbero ipotizzabili? E come si
potrebbe gestire lo spirito di vendetta che, almeno in occasione dei crimini di
sangue, percorre inevitabilmente la società? E con riferimento a quanto oggi
l'area più ampia dell'abolizionismo propugna, che cosa la differenzia dalle
filosofie penali riduzioniste, come quelle del diritto penale minimo (Luigi
Ferrajoli, Alessandro Baratta) che invocano la pena, e in particolare il
carcere, solo come ultima soluzione?
Nel trattare delle origini, delle contraddizioni e delle conquiste del pensiero
abolizionista, Ruggiero incrocia inevitabilmente questo tipo di problemi.
L'apparato filosofico che sostiene l'abolizionismo è sostanzialmente
contrassegnato dal rifiuto della distinzione fra bene e male, e trova interpreti
autorevoli secondo i quali nulla è in sé male essendo ogni cosa il prodotto di
un determinato assetto sociale o una componente dell'infinità della natura. Più
propriamente: ordine e disordine, bene e male, giustizia e ingiustizia sono
concetti vuoti se ignorano da un lato la prospettiva della scelta, dall'altro il
momento in cui il giudizio viene formulato. In ogni caso, se è vero che il male
è generalmente considerato uno dei problemi centrali delle società
contemporanee, si dovrebbe dare vita a una nuova etica i cui principi siano in
grado di accettare questo male, di comprenderne le ragioni e di integrarlo.
A partire da qui, da un'analisi approfondita di queste proposte, Ruggiero
esamina anche le risposte alle domande che si sono poco sopra formulate e
propone le critiche dell'abolizionismo alle varie posizioni che ne contrastano
l'essenza.
Per quel che concerne l'abolizionismo radicale, escluso il ricorso alla pena
intesa come forma di violenza e minaccia, meccanismo di produzione del terrore
che informa il tessuto della vita dei detenuti, si prospettano, da un lato, la
punizione come lutto dell'intera comunità (che pertanto deve, in qualche misura,
esserne partecipe) e, dall'altro, il controllo sociale come cordialità, nella
prospettiva di un modello di giustizia basato sull'idea di "incontro con lo
sconosciuto" e sull'"etica dell'ospitalità" (pur se un discorso del genere può
riguardare solo una sfera delimitata di illeciti: quelli ideologici, quelli la
cui natura consente meccanismi civilistici di compensazione e risarcimento,
quelli di ridotta gravità che consentono il dialogo fra le parti).
Per quel che concerne l'altro (meno drastico) orientamento, secondo Ruggiero il
punto di distinzione rispetto al riduzionismo è dato "dall'enfasi sulla
partecipazione, sull'autonomia e sugli elementi teorico-organizzativi che
rendono la pratica dell'abolizionismo simile a quella di un movimento sociale".
Accanto alle critiche, spesso puntuali, alle concrete caratteristiche dei
sistemi penali, a livello propositivo le suggestioni dell'abolizionismo si
riassumono nella necessità di dare al criminale una risposta sociale positiva
(il che peraltro, con le necessarie puntualizzazioni e distinzioni, non è
necessariamente escluso dalle teorie riduzioniste). E poi, a chi afferma che
l'intervento dello stato è inevitabile quando si tratta di rimuovere le mancanze
di rispetto alla libertà di qualcuno (per cui la coercizione è legittima in
quanto sanziona un atto che ha negato l'altrui libertà), si replica che
argomentazioni di questo tipo sono valide solo nelle società, difficilmente
individuabili, nelle quali l'equo accesso alla giustizia si accompagna all'equo
accesso alle risorse. E a chi sostiene che vi sono società nelle quali
l'ordinamento persegue tendenzialmente la libertà di tutti, ragion per cui non
lo si potrebbe rifiutare, si risponde che in ogni caso la legge penale riafferma
valori prescindendo dagli individui ai quali si rivolge, dai loro caratteri e
dalla loro storia.
Il libro affronta poi la questione del carcere per individuare gli avversari e
gli alleati teorici dell'abolizionismo (con una rassegna delle culture della
punizione, con attenzione a una serie di teorizzazioni, tra le quali quelle di
Kant e di Hegel), e il tema dei limiti alla sofferenza. Ma qui, rispetto alle
altre teorie critiche dell'attuale sistema penale, le distanze forse si
accorciano.
L'analisi dell'autore, che riprende la gamma degli argomenti delle varie
componenti dell'abolizionismo, conferma, anche se non esplicitamente, un
giudizio di a-scientificità di quella che è un'ipotesi morale e filosofica. Vi è
chi, a suo tempo, ha rilevato che "il motivo ispiratore [dell'abolizionismo] è
di natura decisamente volontaristica e moralistica, dichiaratamente originato da
un moto irrefrenabile di indignazione morale nei confronti della 'barbarie' del
diritto penale" (Massimo Pavarini, Il sistema della giustizia penale tra
riduzionismo e abolizionismo, in "Dei delitti e delle pene", 1985, n. 3).
È difficile dissentire da tale giudizio. Anche Ruggiero finisce per
riconoscerlo, laddove afferma che, in definitiva, ripercorrere i testi
abolizionisti ha lo scopo di collegare il loro radicalismo, il loro utopismo
"alle interpretazioni della criminalità e della legge che appartengono alla
tradizione culturale occidentale e alle sue opzioni, concrete e ragionevoli, di
ridurre la sofferenza".