Giuseppe Mosconi*
Indulto e amnistia, quante voci stonate
Il Mattino di Padova, 17 ottobre 2013
C'è decisamente qualcosa di torbido nel modo in cui si sta sviluppando il confronto tra le forze politiche dopo l'appello del presidente Napolitano per superare la situazione delle carceri e rientrare nella legalità richiestaci dall'Europa.
Il coro di contrarietà a indulto e amnistia è un insieme di voci stonate. Se da parte del Pdl è evidente l'intento di condizionare il provvedimento all'introduzione di quelle controriforme della giustizia, che da sempre costituiscono il suo progetto, da parte del Pd (specie ala renziana), il riferimento è alle necessarie riforme delle leggi penali (innanzitutto le note leggi carcerogene), senza le quali le misure amnistiali sarebbero un effimero boomerang.
Ma le voci si riaccordano attorno alla affermata necessità di rassicurare l'opinione pubblica, di non lasciare i "criminali per strada", di non dare la stura all'aumento della criminalità. Queste facili retoriche, pur con enfasi diverse, finiscono con concordare su un punto essenziale: dal carcere (almeno per il momento), non deve uscire nessuno, costi quel che costi.
Il sospetto che questa improbabile sintonia bipartisan sottenda la corsa all'accaparramento del consenso da parte dell'opinione pubblica è più che legittimo.
Al contrario non si possono ignorare alcuni aspetti di assoluta evidenza. L'indulto del 2006, intervenuto a 15 anni da un consimile precedente provvedimento, non ha affatto dato luogo ad un'impennata della criminalità, né tantomeno al dilagare della recidiva.
Studi serissimi (Torrente, Jacteau, 2008) hanno messo in luce l'attestarsi della recidività, a due anni dal provvedimento, attorno al 20%, ben al di sotto del 70%, strutturalmente confermato per chi esce dal carcere a pena conclusa. L'impennata di incarcerazioni rapidamente seguita a quell'indulto, a livelli decisamente superiori ai precedenti, non sono dunque riferibili a nuovi comportamenti criminosi da parte dei beneficiari, ma ad una stretta repressiva del tutto indipendente dall'andamento della criminalità, la cui natura strumentale riferita al declamato lassismo di quel provvedimento è più che sospettabile.
Di più un indulto che si limitasse ai reati entro i tre anni, con esclusione di alcune fattispecie tra cui, in primis, i reati dei colletti bianchi (quindi nessun cavallo di Troia per Berlusconi libero), altro non farebbe che rendere efficace la normativa in tema di misure alternative, che appunto fissa (abroganda ex Cirielli a parte) entro quel tetto la concedibilità dei benefici.
Ora da molto tempo oltre il 60% dei reclusi rientra in quei termini, mentre la sfera di applicazione delle misure si attesta attorno al 20%. Ed è questa strettoia a contribuire al sovraffollamento. A fronte di queste e molte altre simili considerazioni (ad esempio il comprovato calo dell'allarme sociale) c'è un elemento che può costituire la cartina di tornasole per la verifica dell'effettivo intento riformatore da parte di chi sostiene la necessità di introdurre prima le riforme delle leggi penali, abrogando soprattutto le tre leggi carcerogene, per poi eventualmente "festeggiare" con l'indulto. Perché non si cominciano a scarcerare, con un provvedimento amnistiale mirato, proprio quei soggetti che sono detenuti in virtù di quelle tre leggi?
Possibile che immigrati irregolari, tossicodipendenti, detenuti per reati bagatellari siano un "insulto alle vittime" (quali?) e una radicale minaccia al "patto sociale" (dov'è nella postmodernità?) se scarcerati in base all'indulto, mentre siano inevitabilmente e legittimamente scarcerabili se si introducessero, come auspicato, le riforme abrogative? Magia delle retoriche e delle immagini! Piuttosto, introdotto questo tipo di indulto, consolidiamone gli effetti prevenendone il prevedibile riassorbimento, attraverso la dimostrazione di una seria volontà riformatrice in materia penale.
*Ordinario di Sociologia del diritto all'Università di Padova e Presidente di Antigone Veneto