Lo stato feroce del 41 bis.
Intervista al gip Morosini
Francesco Ferro, calabriaora.it 11/07/2012
«Quello del 41 bis è un regime carcerario terribile, dove
il rispetto dei diritti umani è veramente a forte rischio. Dobbiamo
interrogarci sugli effetti di sistema che l’azione antimafia ha portato nel
nostro Paese. Rischiamo di essere uno Stato che a forza di guardare negli
occhi il mostro ’ndrangheta, rischia di diventare lui stesso il mostro». Le
parole sono del gip di Palermo, Piergiorgio Morosini, segretario nazionale
di Magistratura Democratica, intervenuto a Reggio alla quarta serata di
“Tabularasa - La frontiera”. Con il magistrato abbiamo affrontato le
polemiche legate al 41 bis e quelle sul sistema carcerario italiano.
Ha senso secondo lei in uno Stato di
diritto mantenere ancora in vita il carcere duro?
Ritengo che, ancora oggi, quelle del 41 bis in certi casi siano delle
ragioni necessarie per creare una barriera di impermeabilità rispetto alla
presenza in carcere di certi soggetti estremamente pericolosi che devono
essere messi nell’impossibilità di mandare ordini all’esterno. Allo stesso
tempo bisognerebbe capire se tutte le prescrizioni previste dalla normativa
sono compatibili con i diritti dei reclusi. Non dimentichiamo che gli Stati
Uniti nel 2007 negarono l’estradizione in Italia di un boss importante come
Gambino proprio perché i giudici americani ritenevano il 41 bis un sistema
detentivo che mette in forte discussione il rispetto dei diritti
fondamentali. Lo definiscono una tortura democratica.
Converrà allora che una riflessione va
fatta…
Certo. Uno Stato democratico di diritto anche nel momento in cui affronta
temi durissimi come quello del contrasto alla criminalità organizzata deve
mantenere dei principi di riferimento. E’ come se fosse un pugile che deve
combattere con una mano legata dietro la schiena. Quella è la mano dei
diritti. Lo Stato anche nella lotta alla ’ndrangheta deve mantenere
credibilità.
Da cosa è data la credibilità?
E’ rappresentata dal nocciolo duro delle garanzie dei cittadini imputati o
condannati. Questo fa credibili le istituzioni. E’ questo il modello che può
rendere la giustizia attraente agli occhi di quelle persone che si trovano
davanti al bivio drammatico rappresentato dalla scelta tra lo stare con la
legge o contro la legge. Lo Stato, se oltrepassa il limite dei diritti,
finisce per sfigurarsi assumendo il volto inaccettabile della crudeltà.
Ci spieghi.
Mi riferisco al rischio dell’arbitrio della discrezionalità non controllata
dalla legge. Come Stato dobbiamo vincere la crudeltà della mafia
rinunciando, però, alla crudeltà della mafia. Non dobbiamo usare le loro
stesse armi. Sarebbe l’errore più grande.
Il nostro sistema carcerario è una barbarie sotto gli occhi di tutti…
Le carceri calabresi, così come quelle italiane, sono organizzate in maniera
irrispettosa della dignità delle persone. E, come giudice penale, devo dire
che le scelte detentive devono essere fatte con estremo senso di
responsabilità. Il carcere condiziona gli affetti, la vita e le speranze non
solo del detenuto ma anche delle persone a lui vicine. E allora solo ragioni
forti possono giustificare la detenzione. In ogni caso il carcere ha un
senso solo se si dà modo al detenuto di rieducarsi e reinserirsi nella
società senza traumi. Altrimenti è un mero atto di forza che diventa odioso,
violento e moralmente inaccettabile soprattutto se costringe un cittadino a
vivere nel degrado. Noi abbiamo celle dove vivono otto persone in dieci
metri quadrati. E ci sono realtà dove trentasei persone utilizzano la stessa
doccia. Bene tutto questo non è da Paese civile.
E allora perché non si limitano le custodie
cautelari in carcere…
Si potrebbe, anzi si dovrebbe. Da noi gli Istituti di pena possono contenere
45mila persone mentre i detenuti sono 68mila. E, tra loro, il settanta per
cento sono tossicodipendenti o migranti. In molti casi si tratta di persone
condannate per reati di lieve entità. Questo è il risultato dell’ipocrisia
di una politica della tolleranza zero che, da anni, getta tanti disperati
nella pattumiera della emarginazione sociale che è il carcere.
Cosa pensa della detenzione preventiva?
Noi magistrati quando siamo chiamati ad applicare la misura cautelare
dobbiamo tenere conto anche del surplus di sofferenza di chi può essere
portato, in attesa di giudizio, a vivere una condizione di degrado che ti
segna per sempre. A questo punto ritengo sia necessario valutare misure
alternative più civili come i domiciliari o altro.
Quando giudica e condanna una persona pensa
che chi entra in una cella perde per sempre una parte di umanità?
E’ un grave problema di coscienza con cui faccio i conti quotidianamente. La
coscienza di un giudice non può restare indifferente di fronte a questa
situazione. Sotto tale peso c’é chi potrebbe pensare di lasciare la
magistratura penale proprio per non dovere fare scelte così grandi. Un
giudizio che decide l’esistenza di una persona è un atto delicatissimo,
assoluto.
Lei ha mai pensato di lasciare?
Io faccio il gip a Palermo e ci sto pensando da tempo. Perché
quotidianamente mi scontro con la mia coscienza e con l’etica della nostra
costituzione che vieta trattamenti inumani. E oggi fare arrestare significa
acconsentire ad una vita disumana.
Cosa ci dice della responsabilità dei
giudici. Anche voi sbagliate e quindi dovreste rispondere degli errori…
Molte delle proposte di legge avanzate hanno un chiaro intento intimidatorio
nei confronti della magistratura. Occorre individuare una normativa che non
comporti al giudice pressioni emotive al momento della decisione che
potrebbe portarlo a prendere decisioni prudenti e favorevoli alla parte più
forte del processo. Per il resto credo che il Csm abbia provveduto negli
ultimi anni a punire chi tra i magistrati ha commesso errori.