Claudia Mazzuccato

Dove la giustizia torna a essere una virtù

www.generativita.it/ Maggio 2014

In una memorabile lezione milanese alla Cattedra dei non credenti, Carlo Maria Martini e Gustavo Zagrebelsky si sono confrontati sulla domanda di giustizia. Un libricino – di quelli che contengono idee imponenti a dispetto della loro brevità – ha cristallizzato per un pubblico ancora più ampio quei pensieri così stimolanti[1]: da un lato, il riconoscimento del limite (e del pericolo) di ogni ricerca “speculativa” orientata verso un concetto assoluto di giustizia, con l’effetto che tale virtù decisiva viene ridotta a una scatola vuota che ciascuno – anche un dittatore sanguinario o una classe prepotente – può riempire a proprio piacimento (di contenuti facilmente riconducibili alle logiche – tuttora, ahimè, vivissime – della ritorsione retributiva); dall’altro, il riconoscimento che la giustizia non coincide con la ‘legalità’, con l’effetto, fra l’altro, che l’ingiustizia non si esaurisce nella mera trasgressione di una norma; il riconoscimento, infine, che la giustizia è una “speranza”, un’“aspirazione”, un’“esigenza che postula un’esperienza personale”[2].

La giustizia, insomma, non ha a che fare con le teorie o le forme astratte; essa ha a che fare – in modo drammatico e coinvolgente – con l’esistenza concreta degli esseri umani. Anche per la ricerca, faticosa e significativa, della giustizia vale ciò che si esperisce per l’amore: l’essere umano non raccoglie un concetto, ma sente un bisogno, un desiderio, una “speranza”, appunto. Di più, nel caso della giustizia come nel caso dell’amore, i contorni di questi due ‘beni’ umani essenziali diventano nitidi – anche se pungenti e dolorosi – proprio a partire dalla loro mancanza, dalla loro privazione. Rammenta Martini: “ciascuno di noi fa molto presto una qualche esperienza del senso di giustizia e per lo più, paradossalmente, tutto nasce da un’ingiustizia subita da noi o da chi ci è caro... Quando ci siamo sentiti trattare ingiustamente, è scoppiata dentro di noi una profonda ribellione, abbiamo gridato: non è giusto, non è vero, non vale, bisogna resistere con tutte le forze, anche contro la prudenza umana”[3].

Non sappiamo, non abbiamo ancora capito, cosa sia la giustizia, ma abbiamo imparato assai presto a conoscere le ingiustizie: “rovescia[ndo] il punto di partenza” e spostandoci dalla ricerca di un ideale di giustizia (il quale rischia, come si diceva, di rimanere insidiosamente vuoto) alla “percezione di un sentimento” – il “sentimento di ingiustizia” – scopriamo (più limpidamente di quanto non abbiano saputo indicare finora le filosofie e i sistemi giuridici) che “la giustizia ha a che fare con il lato del dolore, con l’inferno sulla terra delle nostre società, non con il lato del benessere, con il paradiso che gli uomini di potere fanno mostra di voler realizzare attraverso i loro programmi”[4].

Il capovolgimento di prospettiva è dirompente (e per ciò quanto mai utile): si tratta di ragionare sulla giustizia, restando al cospetto di “chi subisce”, accostando il sofferente, l’offeso, l’oppresso e il torturato senza dimenticare quelle categorie scomode di persone ‘afflitte’ nei cui ranghi compaiono l’incolpato, il punito a qualsiasi titolo, il carcerato. Si tratta di ragionare sulla giustizia e sulle sue istituzioni avvicinando quei territori aridi nei quali si percepisce “la fame e la sete della giustizia”, ascoltando il grido della domanda giustizia a partire dall’esperienza della sua privazione.

Da questo osservatorio ‘capovolto’, le cose assumono tratti inusuali e provocatori: da qui si vede come l’istituzione-giustizia abbia abilmente trascurato di ascoltare e aderire a quel grido interrogativo, lasciando per lo più vuote “le mani che si tendono al cielo”[5]; da qui si vede come (l’amministrazione del)la giustizia abbia assunto le fattezze della ritorsione, a scapito della verità, della responsabilità e della solidarietà; da qui si notano le tentazioni spicciole in cui cadono i policy makers convinti che l’aggressività delle politiche repressive e sicuritarie sia la ricetta per sanare il vulnus di un mondo diseguale e fragile; da qui si registra il progressivo guadagnar terreno delle soluzioni privatistiche ai problemi di giustizia, problemi liquidati in facili mercanteggiamenti negoziali dominati dalla trasformazione della sofferenza e dell’offesa in una perdita materiale da reintegrare monetariamente.

Da questo osservatorio, però, il forte richiamo del linguaggio irriducibile del dolore e dei sentimenti feriti consente di disporsi alla ricerca di modelli di giustizia che parlino quello stesso linguaggio irriducibile: modelli che rispondano, cioè, alla domanda di giustizia, senza schiacciarla e soffocarla dentro istinti vendicativi, astrazioni formalistiche e vuote, inefficaci modalità bellicose o scambi patrimoniali.

La restorative justice – resa in lingua italiana con ‘giustizia riparativa’ –, la cui adozione è raccomandata dalle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea[6], tenta (pur faticosamente e con risultati perfettibili) di rispondere in modo umano alla tormentata domanda umana di giustizia, senza tradirla.

Con la giustizia riparativa viene offerta la possibilità a perpetratori e offesi, rei e vittime, di incontrarsi e “partecipare attivamente insieme, in modo libero” ad un confronto impegnativo e volontario sugli effetti del crimine, con il coinvolgimento, ove opportuno, della comunità e con l’aiuto di mediatori/facilitatori: questa è, in sostanza, la definizione che si legge nei Basic Principles on the Use of Restorative Justice delle Nazioni Unite.

La giustizia riparativa apre quindi a una complementarietà del tutto inedita nel sistema penale, posto che finora quest’ultimo ci ha abituati alla separazione, sotto ogni profilo, del reo dalle vittime e dalla collettività. La “frattura” [7] viene replicata in ogni piega dell’iter giudiziario-repressivo tradizionale: dal posto ‘fisico’ assegnato all’uno e alle altre nell’aula processuale, alla natura della sentenza stessa che rigidamente decide di condanne o assoluzioni (dividendo con nettezza colpevoli e innocenti, senza lasciare spazio, quindi, a sfumature), giù fino alla pena configurata (e applicata) come segregazione cui verrebbe assegnato il compito di tutelare la vittima e i consociati, proprio grazie alla separazione materiale, morale e giuridica del colpevole dal resto del consesso umano.

Se il processo penale rende esplicite la differenza e la separazione, la restorative justice vuole ad ogni passo mostrare la dimensione, anche fisica, della comunanza.

La simultaneità di presenza in un contesto protetto, libero e volontario, nel quale potersi confrontare su quel che conta (anche soggettivamente e sul piano esistenziale) fuori da schemi imposti dall’esterno, consente di intravedere i risvolti altrimenti meno conoscibili – per le parti stesse – della vicenda criminale, il che conduce mediatori/facilitatori e parti ad andare molto vicino a ciò che potremmo persino chiamare la ‘verità’ di un certo episodio. Si tratta di una verità che si (ri)scrive necessariamente in modo corale in quanto in sé composita e plurima poiché fatta di azioni e reazioni, storie, vissuti e sentimenti di più persone. Simile verità è inavvicinabile da parte della giustizia penale ordinaria: essa ha una consistenza tutta particolare nella quale il crimine emerge non solo attraverso le norme trasgredite o le reazioni sociali prodotte, ma per il tramite, dapprima, delle narrazioni individuali delle parti e poi della narrazione complementare che scaturisce dal confronto e ricompone i contenuti parziali in una visione più ampia e relazionale, non per forza univoca, che abbraccia le verità personali. La ‘densità’ del crimine, invisibile al giudice, passa dall’esperienza di ciascuno lungo una diacronia che non comincia e non finisce con il reato, ma attraversa la vita intera. Al cospetto di quest’ultima, e spesso grazie ai ‘dettagli’ struggenti che la intridono, diviene possibile per rei e vittime un chiamarsi vicendevolmente a rispondere intorno a valori significativi che gettano nuova luce sulle norme giuridiche le quali, a loro volta, escono vivificate dal confronto giungendo, in molti casi, fino a motivare negli interessati sinceri comportamenti conformi. E’ un opera virtuosa – eppur drammatica e dura – in cui si sostanzia qualcosa di decisivo per il diritto penale di una democrazia.

Come ricordato, fra le novità di approccio recate dalle pratiche riparative vi è il capovolgimento di sguardo con cui si osserva il fenomeno criminale, accostato non dal lato formale-afflittivo della reazione penale, bensì dal lato dolorante e umido di lacrime di chi (reo, vittima, padre, madre, figlio, passante, vicino di casa, cittadino, straniero...) vive gettato nella tragicità di un’offesa subita/perpetrata e di un processo da celebrare i quali possono mutare il destino dell’esistenza; detto altrimenti, il fenomeno criminale viene colto con lo sguardo dell’essere umano catapultato nel bivio angosciante di un ‘prima’[8] che – per colpevoli e innocenti – pare irrimediabilmente compromesso e un ‘poi’ i cui contorni restano indefiniti e bui. Abbandonate le parole scientifiche e giuridiche, tanto rassicuranti quanto spesso troppo vuote di significati, il crimine è avvicinato qui con umiltà, attraverso l’esperienza – e le ferite vere – di chi vi si trova immerso e non può certo permettersi di rimanere imbrigliato nelle forme, nelle astrazioni, nelle procedure e nelle teorie. L’umiltà del mediatore (o del facilitatore) di un programma di giustizia riparativa nell’avvicinare il reato è imposta dalla prossimità alla sofferenza e alla tragedia che possono essere descritte, al più, con parole “fragili”, sebbene non incerte, piuttosto che con le formule solenni e distanti dei pronunciamenti dei tribunali. Incalzati dalla necessità di accertare la colpevolezza (e punire), questi ultimi contengono nel migliore dei casi buone statuizioni in punto di diritto, ma ben poco colgono delle articolate e diacroniche vicende sottostanti, sulle quali peraltro finiscono per incidere drammaticamente: “che ne sa – ammoniva Winfrid Hassemer – il giurista penale del ladro e del violentatore? Che ne sa del derubato e della donna violentata?”[9]. La “fragilità” delle parole della giustizia riparativa – sia chiaro – non va intesa come provvisorietà da ‘soluzione di compromesso’: tutt’altro. Le parole della giustizia riparativa sono parole profonde, chiamate a nominare sentimenti e valori tra i più elevati e importanti, ma simili parole devono essere capaci di ‘sancire’ ciò che è essenziale, senza ricorrere all’imposizione e devono, al contempo, saper includere simultaneamente ciò che conta per una parte e per l’altra.

Le pratiche di giustizia riparativa educano ad assumere una particolare attitudine nell’approssimare le “polarità” di una storia penalmente rilevante. Si tratta per un verso di un’inclinazione all’accoglienza di tutte le persone (anche di quelle gravemente colpevoli) in uno spazio (non solo fisico) “sicuro e confortevole”[10] e, per altro verso, di un atteggiamento ispirato al più profondo e rigoroso rispetto per la loro dignità. Autori e vittime vengono incontrati con uno stile improntato alla mitezza, osiamo dire alla ‘compassione’ (uno stile – si badi – per nulla giustificazionista). Compassione, riconoscimento e rispetto, tutela della dignità, della vita e della sicurezza: sono espressioni che si rinvengono, non a caso, nelle fonti internazionali relative alla posizione delle persone offese quali criteri orientativi ‘raccomandati’ per l’intervento a sostegno di queste ultime[11]. Simili disposizioni sottolineano come una vittima sia – prima di tutto – una persona che ha sofferto[12], il cui dolore deve trovare “solidarietà” e non solo le (pur importanti, ma praticamente inesistenti in Italia) reti istituzionali o informali di assistenza.

L’‘immaginario’ del ‘riparare’ rende efficacemente l’idea del lavoro svolto in un programma di restorative justice: un’analisi di ciò che si è guastato – in altre parole un incontro con l’offesa perpetrata e i suoi effetti – e un successivo intervento per ‘aggiustare’, ‘ricucire’, sistemare.

La pena si sconta in una mortifera passività, la riparazione delle conseguenze del reato, invece, si fa: invero essa abbisogna di volontarietà e commitment, come sottolineano a più riprese le fonti internazionali in materia.

Persino la vicenda più grave che produce eventi irreparabili offre pieghe misteriose in cui andare a scavare per trovare una maniera di testimoniare, fattivamente “in modo libero” – mediante un facere concreto – la comprensione non formale del disvalore dell’atto compiuto e dell’evento provocato.

Il proposito di riparare presuppone un ‘misurare’ la frattura e le distanze da riempire. Quando simile frattura appare incolmabile, perché irreparabile è la conseguenza del crimine, i cammini di riparazione scendono nei rivoli più intimi dove trovano i “ricordi vissuti” e le verità personali calamitate nelle sfumature. Anche l’atto riparativo, dunque, consiste a sua volta in un ‘dettaglio’ che condensa su di sé e poi veicola messaggi intraducibili, in apparenza insignificanti per chi non c’era, esattamente come insignificanti sono i gesti e gli sguardi dei protagonisti di un film o di un romanzo per lo spettatore dell’ultimo minuto o il lettore della sola ultima pagina.

Al crescere della gravità del crimine, cresce la natura simbolica (non materiale) della riparazione la quale si sposta significativamente verso un gesto che vorrebbe ripristinare non un prima irreversibilmente calato in un fatto ormai accaduto e quindi incancellabile, bensì una (pur gracile) fiducia inter-personale, decisiva per godere ancora di una qualche sicurezza.

La riparazione delle conseguenze del reato si fa, non si sconta. E la si fa per qualcuno: il gesto riparativo è il segno di un’avvenuta condivisione; è un’offerta che chiede di essere accolta, prima ancora che accettata. L’impegno riparativo presuppone un ‘volto’ cui essere ri-volto, all’interno di un singolare ‘scambio’ che assomiglia più al ‘dono’ che all’accordo negoziale e nulla ha, invece, del compromesso. La riparazione si iscrive in una logica che, in linea con la filosofia della restorative justice, genera una comunanza in grado di restituire dignità a chi dà e a chi riceve.

La giustizia riparativa si ispira alla cultura della democrazia e dei diritti umani: nel trattare le faccende penali, lo stile peculiare che la caratterizza sollecita a rinvigorire una sensibilità non ‘burocratica’ che mai si lascia abituare al male e alla sofferenza. Ecco forse perché i programmi di restorative justice hanno saputo, per ora, conservare un afflato ideale che ha permesso di non cadere nelle trappole tese dalle istanze neo-repressive (in cui sono precipitate in pieno, al contrario, le teorie del controllo sociale) o negli eccessi e fughe in avanti delle pur importanti prospettive abolizioniste.

L’apertura alla realtà complessa del crimine, nella complementarietà e simultaneità di sguardo e racconto dei suoi protagonisti, non ha spinto a reclamare ‘più pena’, bensì ad attenersi a un modello dialogico, cioè a dire ‘democratico’. Del resto i concetti contenuti nelle definizioni internazionali e veicolati da termini quali “partecipare attivamente”, “insieme”, “consentire liberamente” “corrispondere a bisogni individuali e collettivi” sono propri della democrazia, mentre non altrettanto può dirsi per le associazioni mentali che propone il diritto penale tradizionale, con le sue pene ‘sofferte’ (come si dice nell’eloquente gergo penitenziario) e il loro carico di violenza e dolore.

Le applicazioni della giustizia riparativa sono diversificate, anche se ancora oggi quantitativamente limitate, soprattutto se paragonate alla diffusione delle pratiche punitive tradizionali in tutto il mondo.

La restorative justice ha però mostrato di saper affrontare con efficacia crimini della più diversa natura: dai crimini internazionali al reato bagatellare. Si pensi alla straordinaria esperienza dalla Truth & Reconciliation Commission sudafricana, nella quale il ricorso a pratiche riparative (amnistia condizionata alla full disclosure della verità sui crimini perpetrati in relazione all’apartheid) ha consentito una transizione pacifica verso la democrazia e ha dato concerto avvio al cammino (ancora lungo) di ricucitura dei legami sociali rotti dalla segregazione razziale.

In Italia, i programmi di giustizia riparativa rappresentano una piccolissima, ma assai significativa, ‘boccata d’ossigeno’ nell’asfissiante e desolante panorama della giustizia penale, centrato ancora sulla pena privativa della libertà, stretto nella morsa delle lentezze dei procedimenti giudiziari e inchiodato a terribili responsabilità giuridiche e umanitarie a causa della mostruosa condizione – disumana e degradante – dei penitenziari.

La mediazione penale e gli altri programmi di giustizia riparativa trovano applicazione oggi soprattutto in quei ‘sotto-sistemi’ penali innovativi, quali la giustizia minorile e il sistema della competenza penale del giudice di pace, in cui si è finalmente imboccata la via di una risposta intelligente e risocializzativa alla commissione di un reato. Qualche timidissimo spazio si è poi aperto nell’ambito delle misure alternative alla detenzione. Molto resta da fare, specialmente nel campo della giustizia ordinaria per adulti, ma è forse promettente il riferimento alla mediazione reo/vittima che compare in una recentissima proposta di legge delega approvata in via definitiva dal Parlamento ai primi di aprile.

[1] C.M. Martini – G. Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino 2003.

[2] Cfr. G. Zagrebelsky, L’idea di giustizia e l’esperienza dell’ingiustizia, in Martini – Zagrebelsky, La domanda di giustizia, p. 16, passim.

[3] C.M. Martini, La giustizia della croce, Martini – Zagrebelsky, La domanda di giustizia, p. 54.

[4] G. Zagrebelsky, Il difficile compito di fare giustizia, estratto da “Lezioni Norberto Bobbio” – Università di Torino, 15 novembre 2004, pubblicato su La Repubblica 16.11.2004.

[5] Cfr. ancora Zagrebelsky, L’idea di giustizia, p. 41.

[6] United Nations, Economic and Social Council, Basic Principles on the Use of Restorative Justice Programmes in Criminal Matters, Risoluzione n. 12/2002; Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, Raccomandazione 99(19) del settembre 1999, concernente la Mediation in penal matters; Direttiva 2012/29/UE del Parlmanento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI.

[7] La confutazione di una giustizia penale intesa come ritorsione del male e dunque come riproposizione, mediante la pena, della “frattura” sociale generata dall’illecito, è centrale nell’opera di Luciano Eusebi: cfr., da ultimo, la riforma ineludibile del sistema sanzionatorio penale, in Rivista italiana di Diritto e procedura penale, 2013, pp. 1307-1328; Id., la risposta al reato e il ruolo della vittima, in Diritto penale e processo, 2013, pp. 527-531; Id., Dirsi qualcosa di vero dopo il reato: un obiettivo rilevante per l’ordinamento giuridico?, in Criminalia, 2010, pp. 637-655.

[8] A. Ceretti, Mediazione penale e giustizia. In-contrare una norma, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. III, Criminologia, Milano, Giuffrè, 2000, p. 713 ss..

[9] W. Hassemer, Einfűhrung in die Grundlagen des Strasfrechts, p. 19, su cui G. Forti, L’immane concretezza, cit., p. 37 ss.

[10] Consiglio d’Europa, Raccomandazione 99(19), § 27.

[11] Onu, Declaration of Basic Principles of Justice for Victims of Crime and Abuse of Power, 1985; Unione Europea, Direttiva 2012/29/UE (25 Ottobre 2012) “che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e sostituisce la Decisione Quadro 2001/220/GAI”; Consiglio d’Europa, Raccomandazione (2006)8 sull’assistenza alle vittime. E’ interessante notare come le raccomandazioni ora richiamate contengano tutte un riferimento, più o meno ampio, alla giustizia riparativa (o alla mediazione reo/vittima) quale utile risorsa, fra altre, per offrire un idoneo sostegno alle vittime di reato.

[12] “Victim”, secondo la Dichiarazione delle Nazioni unite, è chi “individually or collectively, have suffered harm, including physical or mental injury, emotional suffering, economic loss or substantial impairment of their fundamental rights, through acts or omissions that are in violation of criminal laws operative within Member States, including those laws proscribing criminal abuse of power”.