COMMENTO ALLA LEGGE 27/5/98 N.165 (CD. LEGGE SIMEONE)

 

PREMESSA

 

Il presente commento non ha altra pretesa se non quella di offrire una “esegesi a caldo “ della cd.Legge Simeone,al fine di individuare i primi supporti interpretativi nella applicazione  di  una normativa che avrà un impatto immediato nella realtà penale e penitenziaria del nostro Paese e nella gestione degli Uffici Giudiziari,in particolare quelli di Procura e di Sorveglianza.

Si procederà, dapprima, ad una analisi delle singole disposizioni e si concluderà con alcune considerazioni di carattere generale, al fine di inquadrare la normativa in esame nel complessivo sistema penale e penitenziario e nelle sue prospettive di sviluppo e di riforma.

 

ART.1 (Esecuzione delle pene detentive)

 

    L’introduzione, nell’art.656 5°comma C.P.P. ,di un generale meccanismo di sospensione “ex officio”dell’esecuzione delle pene detentive anche residue fino a tre anni e,in casi particolari, fino a quattro anni, con contestuale avviso al condannato della possibilità di presentare istanza per l’ottenimento dei  benefici penitenziari ( l’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47 O.P.,la detenzione domiciliare ex art.47 ter O.P.,la semilibertà nei casi previsti dal 1° comma dell’art. 50 O.P. ,la sospensione dell’esecuzione della pena e l’affidamento in prova in casi particolari  ex artt.90 e 94  L.309/90 ) si ispira a finalità di giustizia sostanziale.

Invero, il previgente meccanismo di sospensione ad istanza di parte aveva determinato nella prassi esecutiva frequenti ed ingiustificate disparità di trattamento tra quei soggetti che,grazie ad una adeguata assistenza legale ed alla tempestiva conoscenza di una imminente esecuzione penale a loro carico,potevano paralizzare l’esecuzione della pena detentiva e potevano accedere alle misure alternative alla detenzione e quei soggetti che,sprovvisti di tale assistenza e ignorando la spada di Damocle gravante sulla loro testa,venivano arrestati e,una volta incoata l’esecuzione penitenziaria non più sospendibile (con l’eccezione dell’ipotesi di cui al 2° comma dell’art.47 bis O.P.), nelle more della definizione del procedimento di sorveglianza  finivano di fatto ,specie nei casi di pene detentive brevi,con l’espiare,in tutto o in parte, la pena in carcere.

Se è pertanto condivisibile la ratio che ispira il nuovo meccanismo introdotto dal legislatore,sono tuttavia prevedibili notevoli difficoltà cui andrà incontro il suo pratico funzionamento.

Anzitutto appare assai difficilmente superabile la difficoltà che incontreranno gli uffici di Procura nel discernere i casi di sospensione dell’esecuzione delle pene detentive,anche residue,fino a quattro anni ai sensi degli artt.90 e 94 L.309/90,in assenza di una istanza dell’interessato corredata dalla documentazione delle USSL attestante lo stato di tossicodipendenza e l’idoneità del programma terapeutico.

Di fronte a tale difficoltà, non mi pare proponibile l’idea di sopperire alla mancanza  delle allegazioni di parte, instaurando d’ufficio una apposita istruttoria da parte del P.M., al fine di accertare la sussistenza delle condizioni di cui agli artt.90 e 94 L.309/90 o almeno di un loro fumus ( es. acquisendo copia integrale della sentenza di condanna nella speranza di trovarvi elementi utili in tal senso ovvero invitando l’interessato a fornire documentazione,con ulteriore appesantimento del già complicato meccanismo ) ,sia perché tale istruttoria non è prevista dalla legge e non si concilia con il carattere di necessaria prontezza che è proprio dell’esecuzione penale,sia perché andrebbe svolta indiscriminatamente nei confronti di tutti i soggetti con pene  tra i tre e i quattro anni,con conseguente dispendio di energie in molti casi inutile,sia perché comunque non è detto che una siffatta attività istruttoria riesca in tempi ragionevoli a dissipare l’incertezza in ordine alla sussistenza dei presupposti di legge.

Stando così le cose e salvo che l’interessato non si attivi motu proprio, nel breve tempo della messa in opera del titolo esecutivo,producendo la necessaria documentazione ( il che riproporrebbe, pur limitatamente a questi casi,la discriminazione tra i soggetti “informati” e soggetti “disinformati”) credo che le Procure dovranno scegliere tra due possibili alternative:

l’una è quella ,stante l’incertezza,di sospendere tutte le pene fino a quattro anni ,con la conseguenza di una sorta di interpretatio abrogans della norma nella parte in cui prevede il limite di tre anni come limite generale del meccanismo sospensivo e quello di quattro anni come limite speciale in casi particolari,invertendo tale rapporto e rischiando,altresì, di incoraggiare istanze “strumentali” e tossicodipendenze “cartacee”;

l’altra ,che ritengo il male minore,è quella di non sospendere ,in mancanza di idonea documentazione asseverante,la esecuzione delle pene anche residue tra i tre e i quattro anni,,rendendo anche qui inoperante una porzione del dettato normativo e recuperando, però, la tutela  dell’ius libertatis del condannato, che trovasi nelle condizioni previste dagli artt.90 e 94 L.309790,attraverso il meccanismo ex post previsto dall’art.47 bis 2° comma O.P.,oggi assorbito nell’analoga previsione di cui agli artt.91, 4°comma, e 94,2° comma della L.309/90.

 Devesi,poi,rilevare la lacuna in cui è incorso il novello legislatore che ha dimenticato, nel disciplinare il meccanismo sospensivo ex art.656 C.P.P.,di avere egli stesso elevato a quattro anni il tetto di ammissibilità della detenzione domiciliare.La conseguenza di tale difetto di coordinamento è che,con riferimento alle pene anche residue tra i tre e i quattro anni,non sarà possibile sospendere l’esecuzione ex art.656 C.P.P.,sicchè il condannato, che trovasi nelle condizioni di cui al 1°comma dell’art.47 ter O.P.,dovrà metter piede in carcere foss’anche per un sol giorno,con la possibilità successiva di accedere all’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare introdotta al comma 1-quater dello stesso art.47 ter. Alla luce del dettato normativo tale conseguenza non sembra evitabile,a meno che si voglia sostenere la possibilità in via analogica che il Magistrato di Sorveglianza applichi provvisoriamente la detenzione domiciliare anche prima dell’inizio dell’esecuzione e semprecchè sia messo nelle condizioni concrete di farlo tempestivamente e cioè prima che il P.M. abbia emesso l’ordine di carcerazione e che lo stesso abbia avuto esecuzione.

 Altro problema di notevole rilievo teorico-pratico è quello di individuare la natura dell’atto di consegna al condannato del l’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione,con contestuale avviso della possibilità di presentare istanza entro il termine perentorio di 30 giorni decorrente dal momento di tale consegna,problema dalla cui soluzione discendono importanti corollari relativi all’applicabilità della disciplina delle notificazioni e ai rimedi esperibili in caso di mancata consegna.

Dalla lettera della norma e dall’iter parlamentare delle modifiche del testo legislativo tale consegna sembra doversi configurare come una traditio materiale di documenti nelle mani proprie del condannato,non surrogabile con forme equipollenti di conoscenza legale.

Tale tesi trova riscontro nella comparazione con il testo dell’abrogato 2° comma dell’art.656 che prevedeva la notificazione, e non la consegna, al condannato dell’ordine di esecuzione dell’ingiunzione a costituirsi in carcere,sicchè può argomentarsi che il legislatore ubi voluit dixit.

Se tale è la configurazione dell’atto di consegna previsto dal 5°comma dell’art.656,dovrebbe escludersi l’applicabilità del regime delle notificazioni e,in particolare,l’applicabilità del rito degli irreperibili in caso di mancata consegna.

In tal caso,nel caso cioè  che non si riesca,per i motivi più vari, ad  effettuare la consegna materiale, è da immaginarsi che in pratica  il soggetto verrà inserito in un elenco - non di “catturandi”,non essendo tale situazione equiparabile alla latitanza-bensì di “consegnandi”,nella speranza che i vari uffici di polizia,non disdegnando una attività da ufficiali giudiziari,siano tutti muniti sul territorio nazionale di una copia dei documenti ....in attesa di cogliere l’attimo fuggente per la consegna !

L a farraginosità di un siffatto sistema comporterà il rischio  di una incentivazione di condotte elusive dei condannati  per sottrarsi all’esecuzione penale e di una conseguente moltiplicazione di situazioni di “limbo” in cui si troveranno  soggetti   “ sospesi  di fatto” sine die ,in attesa di  consegna.

E’ di tutta evidenza che un sistema così descritto non si concilia con le esigenze fondamentali di prontezza e di effettività dell’esecuzione penale,esigenze che lo stesso novello legislatore avverte, laddove prescrive nell’ultimo periodo del 5° comma dell’art.656 C.p.p.che, in caso di mancata presentazione dell’istanza l’esecuzione della pena, dovrà avere corso immediato.

Non resta,a mio sommesso parere,che superare la lettera della norma e l’argomento giuridico-formale ed accedere ad una diversa interpretazione sistematica che,proprio in funzione della tutela di tali fondamentali esigenze, ammetta,in caso di fallito tentativo di consegna materiale all’interessato,forme diverse di conoscenza legale dei decreti di esecuzione e di sospensione e dei contestuali avvisi , desumendole dalla disciplina delle notificazioni , onde determinare in tempi non biblici la decorrenza del termine dei trenta giorni per la presentazione delle eventuali istanze di benefici penitenziari.

Il 6° comma dell’art.656 c.p.p. prevede poi che tali istanze ,corredate ai sensi del 5° comma dalle indicazioni  e dalla documentazione necessarie, siano presentate al P.M. e  trasmesse dal stesso , unitamente a tale documentazione, al Tribunale di Sorveglianza competente in relazione al luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero e che il Tribunale di sorveglianza debba decidere entro 45 giorni dal ricevimento dell’istanza ( tale termine ordinatorio suona un po’ironico,ove si consideri che, nella attuale realtà giudiziaria specie dei Tribunali metropolitani, i tempi di definizione dei procedimenti di sorveglianza nei confronti dei condannati liberi superano già i due o i tre anni! ).

E’ intanto da chiedersi quali siano le indicazioni e la documentazione necessarie di cui deve essere corredata l’istanza e se tale onere di allegazione sia previsto a pena di inammissibilità. In tal senso è da rilevarsi che dall’esame delle norme che disciplinano i singoli benefici penitenziari ed alle quali l’art.656 non può che rinviare per desumerne tali indicazioni e  documentazione necessarie, è dato evincere che soltanto nei casi di cui agli artt.90 e 94 della L.309/90 il legislatore prevede allegazioni fattuali e documentali cui l’istante è onerato a pena di inammissibilità.

Dal che devesi ricavare che negli altri casi è da escludersi l’inammissibilità dell’istanza per mancato soddisfacimento di tale onere e che lo stesso in tali casi assuma la valenza pedagogica di un invito alla serietà nella prospettazione della domanda,alla collaborazione ed alla responsabilizzazione  del condannato nel procedimento esecutivo che lo riguarda.

E’,poi,da chiedersi se,limitatamente ai casi in cui l’onere di allegazione è previsto a pena di inammissibilità,sia configurabile un sindacato del P.M. in ordine al suo assolvimento, esercitabile prima della trasmissione dell’istanza ai sensi del 6°comma,con la conseguenza ,in caso di suo esito negativo,dell’ immediata revoca dell’ordine di sospensione dell’esecuzione ovvero se tale sindacato debba essere sempre demandato in via esclusiva al Tribunale di Sorveglianza ai sensi dell’8° comma  dell’art.656.

 Invero, tale ultima disposizione prevede che il P.M. revoca immediatamene il decreto di sospensione dell’esecuzione, qualora l’istanza sia intempestiva o il Tribunale di Sorveglianza la dichiari inammissibile o la respinga.

 A me pare che,al di la’ della lettera della norma che sembrerebbe limitare il vaglio del P.M. alla sola verifica della tempestività della presentazione dell’istanza, non debba escludersi,per ragioni sistematiche di prontezza ed effettività dell’esecuzione penale, la possibilità che il P.M. estenda il suo sindacato anche al corredo documentale della stessa,purchè si limiti ad una verifica dei profili di regolarità formale (accertando l’esistenza della documentazione prescritta e la autenticità della sua provenienza) e non scenda nell’esame di profili di merito del tutto estranei alla sua competenza funzionale (es.valutando la sussistenza dell’attualità dello stato di tossicodipendenza certificato o dell’idoneità del programma terapeutico attestato).

La disposizione di cui all’8°comma devesi ,poi,integrare prevedendosi la possibilità che la revoca immediata consegua, oltre che alla declaratoria di inammissibilità dell’istanza pronunciata dal Tribunale di Sorveglianza,anche a quella pronunciata  con decreto monocratico ai sensi dell’art.666,2°comma, c.p.p.

Proseguendo, il 7°commadell’art.656 prevede assai opportunamente,onde evitare le strumentali manovre dilatorie invalse nella prassi, la non reiterabilità della sospensione dell’esecuzione per la stessa condanna,anche se è riproposta nuova istanza ,sia in ordine a diversa misura alternativa, sia in ordine alla medesima diversamente motivata.

Il 9°comma introduce, poi, due norme di sbarramento nell’operatività del meccanismo sospensivo:

la lettera a) esclude la sospensione dell’esecuzione nei confronti dei  condannati per i delitti di cui all’art.4bis O.P.;

la lettera b)la esclude nei confronti di coloro che ,per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva.

Sub a) può osservarsi che tale  preclusione si colloca nel solco del sistema del doppio binario consolidatosi nella normativa penitenziaria e che il novero dei reati ostativi contemplati dall’art.4 bis O.P. non comprende,però, altri gravi reati,come la violenza sessuale,di particolare allarme sociale, o come la corruzione e la concussione, rispetto ai quali la coscienza sociale oggi diffusa rifiuta trattamenti privilegiati o misure di favore.

Sub b) la ratio della preclusione è facilmente individuabile nella persistenza di esigenze cautelari correlate allo stato di custodia cautelare in carcere e inerenti al pericolo di recidiva e/o al pericolo di fuga,le quali,come è evidente,non si conciliano con la sospensione dell’esecuzione.

Il 10°comma prevede,inoltre, che ,nel caso di condannato in arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire,il P.M. sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e trasmette gli atti al Tribunale di Sorveglianza il quale provvede senza formalità in ordine all’eventuale applicazione della detenzione domiciliare, che ,nelle more di tale decisione, il condannato permane nel medesimo stato detentivo in cui trovasi ,con equiparazione del tempo trascorso in tale stato alla espiazione della pena e,infine, che ,in tale lasso di tempo, agli adempimenti previsti dall’art.47 ter  O.P. provvede il Magistrato di Sorveglianza.

Tale norma merita di essere criticata sotto molteplici profili.

Devesi intanto contestare il fondamento stesso di una sorta di presunzione di continuità tra gli arresti domiciliari e la detenzione domiciliare che appare  implicita nella norma in esame,attesa la disomogeneità tra le due misure che hanno natura ,presupposti e finalità affatto diversi : l’una è misura coercitiva  a carattere cautelare che si esaurisce nella dimensione endoprocessuale,l’altra  è misura alternativa alla detenzione a carattere espiativo che si proietta nell’esecuzione penale.

Gravi perplessità suscita,poi, la previsione secondo cui il Tribunale di Sorveglianza decide in tali casi “senza formalità”,ponendosi  tale assenza di formalità,ivi potenzialmente compresi il contraddittorio delle parti regolarmente citate nel procedimento di sorveglianza e l’esercizio del diritto di difesa,in forte contrasto,sia con la fondamentale disposizione contenuta nell’art.2 della legge delega del 1987 sul processo penale,sia con gli orientamenti della Corte Costituzionale che ha esteso le garanzie della iurisdictio plena anche a procedimenti  di contenuto minore come nel caso contemplato  dalla sentenza n.53 del ’93.. 

 Problematica appare,altresì,l’individuazione della natura dello”stato detentivo” ( e della relativa disciplina) in cui il condannato permane fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza,non più “arresti  domiciliari”,essendo concluso il processo di cognizione ed essendone affidata la gestione esecutiva al Magistrato di Sorveglianza,né ancora “detenzione domiciliare”,non essendo prevista in tal caso un’applicazione provvisoria di tale misura alternativa,palesandosi allora una sorta di stato anodino,una specie di limbo tra il processo e la pena.

Si aggiunga che, nello schema della norma, l’esame del Tribunale di sorveglianza in ordine all’eventuale applicazione della detenzione domiciliare è indipendente da un’istanza dell’interessato,il che rende tale meccanismo distonico rispetto alle esigenze di collaborazione e di responsabilizzazione del condannato nel procedimento di sorveglianza di cui si è parlato in precedenza.

Infine,devesi  rilevare la questione della riferibilità alla fattispecie in esame della preclusione di cui al 9° comma lettera a).

La tesi affermativa può trovare un appliglio nel primo periodo del 10°comma che richiama la situazione considerata dal 5°comma cui fa proprio riferimento il 9°comma ,ma tale richiamo testuale potrebbe essere letto in senso opposto, configurandosi la fattispecie del 10°comma come derogatoria rispetto al meccanismo sospensivo di cui al 5°comma.

Al di là delle ragioni testuali “interne”alle norme,va considerata la ragione sistematica “esterna”dell’intentio generale del legislatore di precludere i meccanismi di favore ai condannati per i reati più gravi.

 

ART.2 (Affidamento in prova al servizio sociale)

 

Il nuovo testo del 2° comma dell’art.47 O.P. conclama la duplice natura che l’affidamento in prova al servizio sociale,a seguito della sentenza del 22/12/89 n.569 della Corte Costituzionale, ha già assunto nel nostro ordinamento, ,sia come “probation giudiziale”senza l’ “assaggio penitenziario” previsto dal testo originario,sia come “probation penitenziario” che presuppone,invece, l’osservazione scientifica della personalità  ed il trattamento rieducativo in istituto.

Vale la pena osservare che l’atteggiarsi dell’affidamento in prova al servizio sociale concesso “dalla libertà”come una misura “sostitutiva” della originaria pena detentiva,ancorchè disposta post iudicatum,dovrebbe indurre il legislatore a rivedere i rapporti tra il processo di cognizione ed il procedimento di sorveglianza,introducendo la possibilità di applicare la sanzione alternativa già  nell’ambito del giudizio di cognizione.

Il novellato 4°comma dell’art.47 O.P.,prevede,in caso di istanza di affidamento in prova al servizo sociale proposta dopo l’inizio dell’esecuzione penale, l’attribuzione al Magistrato di Sorveglianza di un potere di sospensione provvisoria dell’esecuzione della pena e di conseguente liberazione del condannato,in presenza di determinati requisiti che configurano un tipico giudizio di natura cautelare, che in subjecta materia trova il suo precedente nella fattispecie contemplata dall’art.684 C.P.P.in tema di rinvio dell’esecuzione ex artt.146 e 147 C.P.

Infatti,l’esercizio di tale potere interinale,che si colloca in una fase preprocedimentale, è  subordinato all’offerta di concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova (fumus boni iuris) ed al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato detentivo ( periculum in mora) ed è ,altresì ,condizionato dall’assenza del pericolo di fuga.

Può ritenersi che le concrete indicazioni in ordine ai predetti requisiti  formino oggetto di un vero e proprio onere di allegazione a carico dell’istante, il che non toglie,a mio avviso,che tali indicazioni possano risultare aliunde,ad esempio ricavati da precedenti fascicoli ovvero prospettati dall’equipe  penitenziaria di osservazione e trattamento o ancora acquisiti d’ufficio dallo stesso Magistrato di Sorveglianza,il quale credo debba comunque svolgere un minimo di attività istruttoria al fine di verificare se le indicazioni offerte trovano un riscontro obiettivo nella realtà,nonché al fine di accertare la sussistenza o meno del pericolo di fuga.

In ordine al fumus boni iuris è da ritenere che debba riguardare sia i presupposti di ammissibilità sia quelli di merito previsti  per la concessione dell’affidamento in prova.

In ordine al periculum in mora deve escludersi che possa consistere in un generico pregiudizio per la libertà del soggetto sempre riscontrabile in re ipsa,sibbene deve sostanziarsi in un concreto e grave pregiudizio derivante dalla protazione dello stato detentivo e,come tale,deve riguardare beni di elevato rango giuridico,come,a titolo esemplificativo,nel caso di probabile perdita del posto di lavoro o nel caso di  totale sacrificio della spes libertatis del condannato derivante dai prevedibili tempi di definizione del procedimento di sorveglianza in relazione all’entita’ della pena detentiva in espiazione.

  Così configurata la sospensione provvisoria  dell’esecuzione disposta dal Magistrato di Sorveglianza ai sensi del 4°comma dell’art.47  O.P.,è evidente la sua diversità rispetto a quella disposta dal P.M. ai sensi del 5°comma dell’art.656 C.P.P.,,sia in considerazione del diverso momento esecutivo in cui intervengono,sia soprattutto in ragione della natura dei presupposti e del carattere del l’accertamento.

La sospensione disposta dal  P.M. presuppone,come si è visto prima, un accertamento vincolato in ordine a requisiti di contabilità penale e di regolarità formale ,mentre la sospensione disposta dal Magistrato di Sorveglianza comporta un giudizio discrezionale in ordine a presupposti di natura sostanziale che involgono valutazioni prognostiche e finalità cautelari.

Da tale diversità non mi pare, però, che possa trarsi argomento per ammettere che il condannato che abbia già fruito della sospensione ex art.656 C.P.P. possa ottenere successivamente la sospensione ex art.47 O.P.,pur ricorrendone i presupposti.

Invero il 7°comma dell’art.656 sancisce il principio,che a mio avviso  nel sistema della legge ha un carattere generale,secondo cui la sospensione dell’esecuzione per la stessa condanna non può essere disposta più di una volta.

Infatti ,in linea con tale principio,l’ultimo periodo del 4°comma dell’art.47 O.P. prevede che,dopo la sospensione disposta dal Magistrato di Sorveglianza ed in caso di non accoglimento dell’istanza di affidamento in prova  da parte del Tribunale di Sorveglianza,non è concedibile altra sospensione,quale che sia l’istanza successivamente proposta.

Mi pare,invece,che, nell’ipotesi in cui il P.M. non abbia disposto a monte la sospensione dell’esecuzione ed il Magistrato di Sorveglianza,incoata l’esecuzione, non abbia ravvisato i presupposti per la sospensione provvisoria , limitandosi a trasmettere l’istanza  di misura alternativa al Tribunale di Sorveglianza,la pronuncia di rigetto dell’istanza non debba avere efficacia preclusiva della possibilità di ottenere successivamente la sospensione ai sensi del 4° comma dell’art.47 O.P.,non avendo il condannato ancora bruciato l’unica “atout”disponibile e ben potendo verificarsi che i requisiti di tale sospensione,difettando nelle fasi precedenti,si presentino in una fase succesiva,come nel caso di maturazione successiva del quantum di pena necessario per l’ammissibilità del beneficio o nel caso del sopraggiungere dei fatti costitutivi del periculum in mora.   

Nella evidenziata diversità tra i due tipi di sospensione può,invece, trovare giustificazione il fatto che il legislatore - semprecchè non si sia trattato di una mera svista -  non abbia ripetuto nella fattispecie di cui al 4° comma dell’art.47 O.P. la preclusione relativa ai delitti di cui all’art.4 bis O.P.,che pertanto rientrano nell’ambito di operatività del meccanismo sospensivo,potendosi al più sostenere che, in tali casi, l’accertamento dei requisiti previsti dalla legge debba essere ancor più attento e rigoroso.

Circa gli effetti della sospensione provvisoria dell’esecuzione disposta dal Magistrato di Sorveglianza ex 4° comma dell’art.47 O.P.,devesi sottolineare che il condannato riacquista in pieno lo status libertatis e,nel silenzio della norma,non appaiono imponibili prescrizioni comportamentali,onde dovrebbe escludersi la possibilità di una revoca della sospensione per condotte intervenute medio tempore.

Si apre così una parentesi nell’esecuzione penale la cui durata,considerati i tempi usuali del procedimento di sorveglianza specie nelle realtà giudiziarie metropolitane,potrà  essere in pratica anche assai  lungo.

Tali considerazioni avrebbero dovuto indurre il legislatore a preferire la diversa soluzione della applicazione provvisoria della misura alternativa-soluzione altrove adottata dallo stesso novello legislatore al comma 1-quater dell’art.47ter O.P. riguardante la detenzione domiciliare-con il duplice vantaggio di non interrompere l’incoata esecuzione e di evitare il “vuoto prescrizionale” cui si  è prima accennato. 

Devesi,poi, meditare sul fatto che  il sistema scaturente dalla nuova normativa tenderà a spostare l’effettivo asse decisionale dall’organo collegiale all’organo monocratico,essendo prevedibile che difficilmente il Tribunale di Sorveglianza smentirà la decisione adottata, seppur in via provvisoria, dal Magistrato di Sorveglianza che è uno dei componenti del Collegio,sicchè quest’ultimo rischierà  di ridurre il suo ruolo ad una funzione di  mera ratifica.

   Si consideri,altresì,che l’attribuzione al Magistrato di Sorveglianza di nuove competenze,in via interinale e preprocedimentale,in ordine alla concedibilità delle misure alternative,comporterà una proliferazione di attività decisorie,con i conseguenti rischi di maggiori disparità di giudizi e di orientamenti giurisprudenziali,nonché di minore adeguatezza della valutazione prognostica,pur provvisoria ma con efficacia operativa immediata,in quanto fondata su precarie basi cognitive e informative e privata del contributo delle parti processuali e dell’apporto degli esperti non togati. Si aggiunga,infine,l’altro grave rischio-connesso a tale aumento di competenze-di distogliere definitivamente il Magistrato di Sorveglianza dalla dimensione carceraria e dal compito essenziale ,assegnatogli dall’ordinamento,di tutore della legalità penitenziaria e dei diritti dei detenuti,funzione questa già in crisi ,se si discute oggi,nell’ambito della cultura non solo giuridica,della possibilità di istituire un difensore civico dei detenuti.

 

 

ART.3 (Affidamento in prova in casi particolari)

 

L’abrogazione dell’art.47 bis O.P. discende da una esigenza  di “ripulitura testuale” del corpus normativo,avendo l’istituto dell’affidamento in prova in casi particolari per tossicodipendenti trovato la sua collocazione nella appropriata sedes materiae del testo unico sugli stupefacenti ed essendo ivi  regolato con l’analoga disciplina contenuta negli artt.91,92 e 94 della L.309/90.

 

ART.4 (Detenzione domiciliare)

 

Le finalità di deflazione carceraria sottese alla legge in esame trovano nella misura alternativa della detenzione domiciliare uno strumento elettivo.

Infatti,tali finalità sono perseguite dal legislatore soprattutto attraverso un allargamento dell’area di operatività di tale misura.

Nel 1°comma dell’art.47 ter O.P. il tetto di ammissibilità della detenzione domiciliare è innalzato da tre a quattro anni e nello stesso comma sono ampliati i suoi presupposti di merito.

In particolare, nell’ipotesi della lettera a) l’età della prole convivente è elevata  a dieci anni e così pure nell’ipotesi di cui alla lettera b) che recepisce il contenuto della sentenza del 13/4/90 n.215 della Corte Costituzionale,norme ispirate ad uno spiccato favor familiae ed alla preminente esigenza della tutela dei figli minori, il cui sostentamento e la cui educazione possono essere gravemente pregiudicati dallo stato detentivo della madre o, in assenza od impossibilità di questa, da quello del padre.

Nel comma 1-bis dell’art.47 ter è introdotta una forma “sui generis” di detenzione domiciliare che può essere applicata per le pene,anche residue,fino a due anni,indipendentemente dalle condizioni di cui al 1°comma dello stesso articolo,nei casi in cui non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale,con la condizione  generale  dell’idoneità della misura ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati e con il limite speciale derivante dalla preclusione nei confronti dei condannati per i reati di cui all’art.4 bis O.P..

Tale detenzione domiciliare “sui generis”,che costituisce il principale nucleo della strategia deflattiva delle pene detentive brevi approntata dal legislatore,solleva,a mio avviso, seri dubbi di incostituzionalità.

Invero,lo snaturamento della misura  sganciata dai suoi presupposti caratterizzanti, nonchè la previsione della non affidabilità del soggetto in prova al servizio sociale e dell’idoneita’ della misura de qua ad evitare il pericolo della recidiva,quali unici parametri motivazionali per la concessione del beneficio, rendono problematica la compatibilità della nuova figura di detenzione domiciliare con i principi costituzionali in materia.

In particolare,appare vulnerato il fondamentale principio sancito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.306 del ’93,secondo cui il legislatore - nei limiti della ragionevolezza - può ,di volta in volta, per varie ragioni di politica criminale e penitenziaria,far tendenzialmente prevalere ora l’una ora l’altra delle essenziali finalità della pena (quella di prevenzione generale e di difesa sociale,con i connessi caratteri di afflittività e retributività,e quelle di prevenzione speciale e di rieducazione,con il carattere di una certa flessibilità in funzione della risocializzazione del reo),ma a condizione che nessuna di esse ne risulti totalmente sacrificata.

Invero,nella fattispecie in esame,il legislatore,per ragioni di politica penitenziaria in senso deflattivo,da un lato ,ha indebolito la dimensione generalpreventiva,afflittivo-retributiva e di difesa sociale della pena,indebolimento non compensato dalle ragioni umanitarie (di famiglia,di salute,di età,di lavoro etc.)connesse ai presupposti di cui al 1°comma dell’art.47 ter da cui si prescinde,dall’altro lato,ha appiattito il principio di prevenzione speciale al solo aspetto neutralizzativo ,obliterando totalmente la dimensione rieducativa e risocializzativa della pena,come può desumersi proprio dalla previsione della non ricorrenza dei presupposti dell’affidamento in prova al servizio sociale.

Infatti,nel novero di tali presupposti,non viene in rilievo quello di ammissibilità inerente ai limiti di pena sempre soddisfatti,come è evidente, nella fattispecie che ci occupa, essendo il tetto dell’affidamento più elevato,né quello di merito inerente alla prevenzione del pericolo di recidiva che è comune ad entrambi i benefici,bensì  viene in rilievo proprio il requisito della positiva prognosi di rieducabilità  del condannato attraverso le prescrizioni della misura alternativa.

Svuotata del suo contenuto umanitario,rieducativo e risocializzante,la detenzione domiciliare,per le pene detentive anche residue fino a due anni ,si atteggia così ,nell’ipotesi del comma1-bis, come misura deflattiva in funzione di mero controllo sociale e,ove applicata  con spirito indulgenziale  e con tendenziale automatismo giudiziale,rischierà di realizzare una sorta di indulto strisciante per via giudiziaria.

Proseguendo nell’esame del nuovo testo dell’art.47 ter,il comma 1-ter  introduce,nei casi in cui potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt.146 e 147 C.P., la possibilità che il Tribunale di Sorveglianza applichi la detenzione domiciliare anche se la pena supera il limite dei quattro anni previsto dal 1°comma ,stabilendo in tali   casi un termine di durata della misura applicata,ulteriormente prorogabile.

Tale possibilità di applicare la detenzione domiciliare senza limiti di pena appare assai opportuna nei casi di rinvio facoltativo,specie per grave infermità fisica,essendo irragionevole,come accadeva nel sistema previgente per le pene superiori a tre anni, che laddove la pena detentiva sia sospendibile,con conseguente remissione del condannato in libertà,la stessa non possa per gli stessi motivi essere trasformata in una misura di minore contenuto afflittivo come la detenzione domiciliare, che realizzi una forma pur attenuata di controllo sociale resa compatibile con le condizioni,specie sanitarie, del soggetto e consenta allo stesso di continuare ad espiar pena,come prevede ora.,con disposizione invero del tutto pleonastica, l’ultimo periodo del comma 1-ter.

Appare,invece,discutibile la previsione della detenzione domiciliare nei casi di rinvio obbligatorio,sia perché l’art.146 C.P.prevede la sospensione di “ogni pena” diversa da quella pecuniaria,sicchè il rinvio obbligatorio diventa così facoltativo come può desumersi dalla stessa contraddittoria formulazione del presupposto previsto dal comma 1-ter in cui si adopera la forma verbale “potrebbe essere disposto”riferito anche al rinvio obbligatorio, sia perché ,una volta applicata la misura alternativa,non mi pare ammissibile che l’eventuale violazione delle sue prescrizioni venga sanzionata mediante il ripristino della pena detentiva ,onde in tali casi si avrà una sorta di detenzione domiciliare “minus quam perfecta”.

Continuando nell’esegesi della norma, è da ritenersi che, una volta scaduto il termine di durata dell’applicazione della detenzione domiciliare,nelle more della definizone del giudizio di proroga,la misura debba medio tempore proseguire.

E’,altresì,da ritenere,in mancanza di un divieto espresso,che la preclusione nei confronti dei condannati per i reati di cui all’art.4bis O.P.non valga nel caso della detenzione domiciliare prevista dal comma 1-ter,configurandosi la stessa come misura succedanea dell’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena,in ordine al quale tale preclusione non opera.

 Il comma 1-quater dell’art.47 ter, di cui in precedenza si è gia’ parlato,introduce,in corso di esecuzione, il potere del Magistrato di Sorveglianza di applicazione provvisoria della detenzione domiciliare,limitatamente ai casi in cui ricorrono i requisiti di cui ai commi 1 e 1-bis e con conseguente esclusione dell’ipotesi di cui al comma 1- ter.

Tale esclusione appare,invero,poco comprensibile,ove si consideri che, in tale ipotesi,il Magistrato di Sorveglianza, dispone comunque del potere, in certo senso maggiore, di sospensione provvisoria dell’esecuzione della pena ex art.684 C.P.P.

L’ultimo periodo del comma 1-quater prevede,inoltre, l’applicazione delle disposizioni di cui al 4°comma dell’art.47 O.P.,in quanto compatibili.

Tale richiamo conferisce natura cautelare alla fattispecie de qua,sicchè i requisiti di cui ai commi 1 e 1 bis dovranno essere valutati dal Magistrato di Sorveglianza nella stessa ottica del giudizio ex art47,4 comma,ossia con riferimento sia al fumus boni iuris in ordine ai presupposti di ammissibilità e di merito della detenzione domiciliare,sia al periculum in mora sotto l’ aspetto del grave pregiudizio derivante dalla protrazione della detenzione carceraria e dell’assenza pericolo di fuga.

Invero,mutatis mutandis,le disposizioni di cui al 4°comma dell’art.47 appaiono sostanzialmente compatibili con la fattispecie di cui al comma 1-quater dell’art.47 ter.

Ci si può,semmai,interrogare se la regola prevista dal 4°comma dell’art.47 della non reiterabilità della sospensione provvisoria dell’esecuzione per la stessa condanna sia estensibile per relationem anche all’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare.Penso che la non reiterabilità del meccanismo di cui al comma 1-quater dell’art.47 ter debba ragionevolmente sostenersi con riferimento ai casi di cui al comma 1-bis,in considerazione della natura “sui generis” della detenzione domiciliare in tali casi ed alla luce della disposizione del comma 9 bis dell’art.47 ter che vieta,in caso di revoca, la reiterabilità della concessione di tale beneficio.

Non mi pare,invece,che a tale conclusione possa pervenirsi nei casi di cui al 1°comma dell’art.47 ter,in considerazione della mancanza di un esplicito divieto normativo ed in ragione della natura degli interessi ivi contemplati meritevoli di particolare tutela anche in via provvisoria.

Altro problema  riguarda la possibilità di  ottenere l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare da parte del condannato che abbia già fruito della sospensione provvisoria dell’esecuzione ex art.656 C.P.P. ovvero della sospensione provvisoria ai sensi del 4° comma dell’art.47,possibilità che ,in mancanza di  una contraria disposizione normativa,non mi pare si  debba escludere.

La lettera b) dell’art.4 della legge in commento abroga,poi, il 3° comma dell’art.47 ter,in quanto il meccanismo che era ivi previsto risulta ora  assorbito dal nuovo sistema.

La lettera c) modifica il 4° comma dell’art.47 ter adeguando il riferimento normativo alla specifica disposizione del nuovo codice di procedura penale,non più l’art.254 quater del vecchio codice,bensì l’art.284 del nuovo codice di rito.

La lettera  d) estende coerentemente la revoca della detenzione domiciliare per sopravvenuta cessazione delle condizioni di legge ai casi del nuovo comma 1- bis.

Il   comma 9- bis dell’art.47 ter ,cui si è in prima accennato,stabilisce,infine, che se la detenzione domiciliare prevista dal comma 1-bis è revocata  ai sensi dei commi precendenti ,e cioè dei commi 6 e 7,la pena residua non può essere sostituita con altra misura.

Tale speciale disposizione ,che conferma il carattere extra ordinem della detenzione domiciliare de qua,se è comprensibile nei casi di revoca “sanzionatoria” previsti dal 6° comma ,non trova,invece, giustificazione nei casi di revoca  “incolpevole”per sopravvenuta cessazione delle condizioni di legge ai sensi del 7° comma,appositamente escluso dal divieto generale di cui al 2° comma dell’art.58 quater O.P., sia perché tali condizioni possono successivamente ripresentarsi,sia soprattutto perché ,in mancanza d un comportamento rimproverabile al soggetto,non si vede la ragione di precludere,ricorrendone i presupposti,l’applicabilità di altra misura.

  Tra tali misure non  mi pare,comunque,che possa ricomprendersi  la liberazione anticipata,sia in considerazione del suo carattere non sostitutivo,sia alla luce  della norma generale contenuta nel citato art.58 quater che la esclude dal novero delle misure alternative precluse da una precedente revoca.

 

ART.5 (Ammissione alla semilibertà)

 

La lettera a) modifica il terzo periodo del 2°comma dell’art.50 O.P.nel senso di eliminare il riferimento alla previa osservazione in istituto, che non costituisce più un presupposto indefettibile dell’affidamento in prova al servizio sociale, sostituendo tale riferimento con la previsione della mancanza dei presupposti per l’affidamento.

Dalla lettura del nuovo testo si deve arguire che tali presupposti, la cui mancanza costituisce la premessa dell’ammissibilità succedanea della semilibertà  anche in deroga al requisito della metà pena,siano i presupposti di merito dell’affidamento in prova al servizio sociale e non quelli di legittimità,vertendosi ,nella fattispecie in esame, proprio nei casi previsti dall’art.47 O.P.,ossia nei casi in cui la pena anche residua non sia superiore a tre anni .

La lettera b),sostituendo il 6°comma dell’art.50,stabilisce che nei casi previsti dal 1°comma,ossia quando la pena non è superiore a 6 mesi, la semilibertà può essere altresì disposta successivamente all’inizio dell’esecuzione della pena e che in tali casi si applica l’art.47,4°comma,O.P.,in quanto compatibile.

Tale norma,da un lato,afferma pleonasticamente qualcosa di evidente,giacchè se la semilibertà è ammissibile, per le pene non superiori a 6 mesi , già prima dell’inizio dell’esecuzione attraverso il meccanismo sospensivo ex art.656 C.P.P.,a maggior ragione lo è  anche dopo tale inizio, dall’altro lato,limitando l’applicabilità del meccanismo di sospensione provvisoria ai sensi del 4°comma dell’art.47 ai soli  casi previsti dal 1°comma dell’art.50,a contrario irragionevolmente esclude dall’ambito di operatività di tale meccanismo i casi in cui,pur essendo la pena superiore a 6 mesi, la semilibertà è tuttavia ammissibile,avendo il condannato raggiunto il requisito della metà pena o vertendosi nella fattispecie succedanea    

prevista dal 2°comma dell’art.50.

 

ARTT.6,7  e 8 (Assistenti sociali,operatori amministrativi e copertura finanziaria)

 

Gli ultimi articoli della legge Simeone prevedono un significativo,ancorchè insufficiente,aumento degli assistenti sociali  e degli operatori amministrativi,al fine di fronteggiare il notevole aumento del carico di lavoro dei Centri di Servizio sociale conseguente all’allargamento, per effetto della riforma, della cd. area penale esterna.

 L’impatto che la riforma avrà su tale area non è facilmente prevedibile in termini quantitativi, ma si deve segnalare il rischio che,moltiplicandosi,gli interventi di servizio sociale si inflazionino e si burocratizzino,rivolgendosi ad una serie indiscriminata di soggetti,compresi i cd.”iperintegrati”,invece di selezionare e di concentrare le già insufficienti risorse disponibili verso il recupero dei soggetti socialmente deboli,come  i tossicodipendenti e gli emarginati,che di tali interventi hanno maggiormente bisogno,con conseguente allargamento della forbice della diseguaglianza sociale.

Si deve poi segnalare, con viva preoccupazione, il disinteresse del legislatore che nulla ha previsto in ordine all’impatto e gli effetti che la riforma Simeone avrà sui già oberati Uffici di Sorveglianza - il cui carico di lavoro si è nell’ultimo quinquennio,ad organici invariati,almeno triplicato - ove si consideri che, secondo stime attendibili ancorchè approssimative, è di circa 17.000 il numero dei detenuti con pene residue fino a tre anni,concentrati soprattutto nelle grandi aree metropolitane,che potranno avanzare istanze di sospensione provvisoria dell’esecuzione,le quali immediatamente perverranno sui tavoli dei Magistrati di Sorveglianza per essere decise in via  d’urgenza ed in sede preprocedimentale.

A tale lacuna ha cercato di porre rimedio in extremis un provvido ordine del giorno approvato dal Senato,con cui si è impegnato il Governo ad un’opera di riorganizzazione e di potenziamento degli Uffici di Sorveglianza in termini di personale,di strutture logistiche e informatiche e di strumenti operativi,senza la quale si rischia in tempi ravvicinati  un tracollo di tali uffici.

Infine,circa la copertura finanziaria consola almeno la costatazione che il legislatore non abbia pensato alla demagogica formula del costo zero,come nella recente riforma del giudice unico.

 

CONSIDERAZIONI FINALI

 

La legge Simeone si caratterizza, nel complessivo sistema penale e penitenziario,per il metodo ,più volte adoperato in passato,di utilizzare la legislazione penale penitenziaria e,in particolare, le misure alternative alla detenzione come strumenti per  conseguire,di volta in volta in chiave restrittiva o ampliativa, finalità contingenti di politica criminale e penitenziaria,nel caso di specie per  evidenti finalità di deflazione carceraria.

 In altri termini,il legislatore,in mancanza delle condizioni politiche per un provvedimento generale di tipo clemenziale ed in assenza di una politica di edilizia penitenziaria dai tempi non geologici,ha ritenuto che l’unico modo per decongestionare le carceri fosse quello di allargare le maglie dell’ordinamento penitenziario e di riaprire le valvole di sfogo dei benefici penitenziari compresse negli anni ’90 dalla cd. legislazione controriformistica.

Ora la legge in esame,se è comprensibile in tale intento generale di ridurre il sovraffollamento degli istituti penitenziari e se è apprezzabile in talune specifiche disposizioni,in particolare quelle che intendono ovviare ad ingiustificate disparità di trattamento nel procedimento di sorveglianza,comporta però seri rischi : da un lato di arrecare pregiudizio al  principio di certezza dela pena ,oggi fortemente sentito dall’opinione pubblica,mediante una dilatazione della discrezionalità giudiziale più incontrollata e indiscriminata, dall’altro lato, di compromettere il contenuto rieducativo e trattamentale delle misure alternative,riducendole a misure di tipo deflattivo  e in funzione di mero controllo sociale,con la probabilità che, non incidendo  tali misure sulle cause della devianza,la stessa si ripeta nella inesorabile spirale della recidiva,con ritorno in carcere e nuovo sovraffollamento!

Invero,un intervento di riforma novellistica come quello in esame,se non inserito in un disegno globale di riforma del sistema penale e penitenziario e se non accompagnato da una serie di altri interventi organici e strutturali,rischia,da un lato,di mancare gli stessi obiettivi di decongestione carceraria che si prefigge,dall’altro lato,soprattutto,di compromettere seriamente le essenziali finalità che la Costituzione,nell’interesse dei cittadini,assegna alla pena e che le leggi di ordinamento penitenziario affidano alle cure della Magistratura di Sorveglianza (compito ben diverso da quello di braccio giudiziario dell’apertura dei cancelli delle carceri),rendendo la pena sempre più incerta e diseguale,sempre meno tempestiva ed efficace e minando le basi stesse della funzionalità e  credibilità dell’intero sistema giudiziario e della fiducia dei cittadini nella giustizia.

Credo che i tempi siano maturi per pensare a soluzioni alternative che vadano al di là del “deja- vu” di una politica penale e penitenziaria “a fisarmonica”,altalenante tra opposte e non conciliate esigenze.

Credo che si debba avere il coraggio di imboccare strade nuove,di esplorare nuovi percorsi,di sperimentare nuove idee,come il superamento della rigida tipologia sanzionatoria fondata sul primato della costosissima pena detentiva da concepire come “extrema ratio” e non più come “unità di misura” di tutte le pene, l’introduzione delle “pene alternative” ( le sanzioni interdittive principali, le prestazioni di pubblica utilità.,il probation giudiziale,la stessa detenzione domiciliare, le nuove tipologie di pene patrimoniali etc), la riqualificazione delle misure alternative alla detenzione attraverso “nuovi contenuti prescrittivi” in funzione rieducativo-risocializzativa e riparativo-riconciliativa nei confronti della parte offesa, il rilancio del principio costituzionale della finalità rieducativa della pena e dell’azione trattamentale penitenziaria,mirata e differenziata,da rivolgere a tutti i condannati,in un carcere non sovraffollato e ben ordinato  in cui trovino piena attuazione i contenuti,mai pienamente realizzati, della  illuminata riforma penitenziaria del 1975,che ,pur emendabile, resta una pietra miliare della nostra civiltà giuridica. 

 

                                                             NICOLA MAZZAMUTO

                                                    MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA DI PALERMO

                                                                                                                                                                                                                      .