La sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 2012
Patricia Marcucci 07/12/2012 polizialocale.com
Con sentenza
n. 251 del 5 novembre 2012, pubblicata in data 15 novembre 2012, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 69 comma 4 c.p., nella parte in cui vieta la prevalenza dell’attenuante ex art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309/1990 sull’aggravante della
recidiva reiterata ex art. 99 comma
4 c.p., per violazione dei principi
di uguaglianza ex art. 3
cost., proporzionalità delle pene e
rieducazione del condannato ex art.
27 cost.
Vediamo la formulazione delle norme.
Articolo 69 cp
Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti
1.Quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tien conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti.
2.Se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tien conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti.
3.Se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta se non oncorresse alcuna di dette circostanze.
4.Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato.
Articolo 99 cp
Recidiva
1.Chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro (106), può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo.
2.La pena può essere aumentata fino alla metà:
1) se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole ;
2) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente ;
3) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena.
3.Qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate al secondo comma, l’aumento di pena è della metà.
4.Se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo comma, è di due terzi.
5.Se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma,
non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto.
In nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla ommissione del nuovo delitto non colposo.
Articolo 73 DPR 309/90 TU in materia di stupefacenti
commi 1-4 omissis
5. Quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente rticolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000.
commi 5 bis-7 omissis
Sulla formulazione dell’art 99 cp in materia di recidiva nonché su quella dell’art 69 comma 4 cp in materia di comparazione delle circostanze ha profondamente inciso la legge cd ex Cirielli n. 251/05 che, introducendo il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sull’aggravante della
recidiva reiterata (art 99 c 4 cp), aveva fatto intravedere la possibilità del sorgere di una recidiva obbligatoria (ex art 69 comma 4 cp) oltre a quella di cui all’art 99 comma 5 cp.; in pratica, nelle ipotesi di recidiva reiterata ex art 99 c 4 cp, le eventuali attenuanti che il Giudice ritenga di poter
concedere (in primis quelle generiche, ed in particolare, per ciò che concerne la disciplina degli stupefacenti, del fatto di lieve entità ex art 73 comma 5 DPR 309/90), non possono MAI essere ritenute PREVALENTI sulle aggravanti, ma soltanto equivalenti. Trattasi di disposizione fortemente limitativa dell’autonomia del Giudicante che, nell’applicazione della pena al caso concreto, anche laddove ravvisasse i presupposti per l’irrogazione delle attenuanti, non potrebbe effettuare il bilanciamento a favore del reo ma, al limite, soltanto giungere a dichiarare un’equivalenza di circostanze fra le aggravanti (recidiva reiterata) e le attenuanti. Sul punto era intervenuta la Corte Costituzionale che, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 192/2007, aveva sottolineato come il legislatore del 2005 non avesse introdotto alcuna ulteriore ipotesi di recidiva obbligatoria e come la norma andasse correttamente interpretata nel senso che spetta al Giudice verificare nel caso concreto se, sulla base dei parametri di cui all’art. 133 c.p., debba essere contestata ed applicata la recidiva, in quanto la reiterazione del reato sia indice della maggiore pericolosità del reo e dell’inefficacia special-preventiva del quantum sanzionatorio in precedenza comminato; solo qualora il Giudice ritenesse di contestarla al reo, perché il disvalore della recidiva gravi sulla quantificazione della pena da infliggere, è escluso che la stessa possa andare a bilanciamento delle circostanze eterogenee, dovendo essere effettivamente applicata.
La citata sentenza pertanto esclude qualunque tipo di automatismo nell’applicazione della recidiva anche relativamente alle ipotesi di recidiva pluriaggravata e reiterata, e tale concetto è ripreso anche dalla Corte di Cassazione (in particolare sez unite penali sent n. 35738 del 2010 e sez unite penali sent n. 20798 del 2011), laddove chiarisce che il presupposto per l’applicazione dell’aggravante di cui all’art 99 c 4 cp consta nella valutazione che il Giudice effettua sul singolo caso in relazione all’efficacia deterrente che l’applicazione della pena ha sortito circa la determinazione a delinquere del reo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti ed avuto riguardo ai parametri contenuti nell’art 133 cp. Si ribadisce pertanto che l’applicazione delle suddette aggravanti (recidiva pluriaggravata e reiterata, art 99 c 3 e 4 cp) deve ritenersi facoltativa da parte del Giudice, nell’ambito della discrezionalità conferita al medesimo nel momento applicativo della pena (giudizio di pericolosità della condotta e del suo autore, tipo di reato, gravità ed offensività dei comportamenti etc..) e nel rispetto dei criteri di cui all’art 133 cp, dovendosi escludere qualunque tipo di applicazione obbligatoria della norma.
In materia di sostanze stupefacenti e psicotrope, è stata più volte sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 comma 4 c.p. nella parte in cui non consentiva all’attenuante di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309/1990 (fatto di lieve entità) di prevalere sull’aggravante della
recidiva reiterata, per contrasto sia con il principio di ragionevolezza ex art. 3 cost. sia con il principio della funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27 cost, poichè in maniera del tutto irragionevole tratta allo stesso modo, sotto il profilo sanzionatorio, fatti di obiettiva scarsa
pericolosità e fatti che invece creano notevole allarme sociale (id est il piccolo spacciatore di strada recidivo ed il grande narcotrafficante). La Consulta con l’ordinanza n. 409/2007 aveva ritenuto inammissibili le questioni sollevate, non avendo i giudici remittenti effettuato un preventivo ed indefettibile tentativo di interpretazione delle norme codicistiche in senso conformativo al dettato costituzionale: questa Corte ha già scrutinato questioni di legittimità costituzionale in tutto simili a quelle odierne, dichiarandone l’inammissibilità per non avere i giudici rimettenti verificato – nell’assenza di indirizzi consolidati – la praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi, o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie (sentenza n. 192 del 2007).
Identica posizione è stata assunta nelle ordinanze n. 33, 90 e 257 del 2008.
Con la sentenza oggi pubblicata la Consulta cambia rotta. Il caso.
Con ordinanza del 24 ottobre 2011 il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma, e 27, secondo (recte: terzo) comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito
dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione, cd ex Cirielli), nella parte in cui esclude
che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza)
possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99 4 comma cp.; un soggetto è accusato del reato previsto dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, per avere illegalmente detenuto e ceduto 0,40 grammi di cocaina. All’imputato è contestata la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, avendo subìto quattro condanne per fatti commessi dall’ottobre del 2006 al febbraio del 2010, relativi a vari episodi di cessione illecita di sostanze stupefacenti.
Ricostruiti i fatti che avevano condotto all’arresto dell’imputato e ricordato che questi ha ammesso l’addebito, il Tribunale di Torino sostiene che l’episodio per il quale si procede è attenuato a norma del quinto comma del citato art. 73: elementi conferenti in tal senso sono indicati nel quantitativo della sostanza stupefacente di cui all’imputazione, nel prezzo di vendita irrisorio, nelle modalità della vendita stessa, nelle caratteristiche dell’acquirente, persona non «vulnerabile», e in quelle dell’imputato, che si trova in condizioni di vita difficili e ha ammesso
l’addebito. Circostanze che, a ben vedere, dovrebbero prevalere sull’aggravante della recidiva reiterata, consentendo l’accesso all’attenuazione di pena prevista dall’art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309/1990. Il divieto di bilanciamento delle circostanze attenuanti con la recidiva aggravata di cui
all’art. 69 comma 4 c.p., invece, impone l’applicazione necessaria dell’aggravamento della pena per la recidiva reiterata, con determinando una condanna sproporzionata e quindi sostanzialmente ingiusta. Secondo i Giudici torinesi “Il rilievo sarebbe tanto più evidente nella disciplina penale del traffico di stupefacenti, dove le disposizioni di cui al primo e al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 «rispecchiano due situazioni enormemente diverse dal punto di vista criminologico», in quanto «al comma 1 è prevista la condotta del grande trafficante, che dispone di significative risorse economiche e muove quantitativi rilevanti di sostanze stupefacenti senza mai esporsi in luoghi pubblici», laddove al comma 5 è contemplata «la condotta del piccolo spacciatore, per lo più straniero e disoccupato, che si procura qualcosa per vivere svolgendo “sulla strada” la più rischiosa attività di vendita al minuto delle sostanze stupefacenti». Sulla base di queste differenze, il legislatore ha sanzionato la seconda condotta «con una pena detentiva che, nel minimo edittale, è pari ad appena un sesto della pena prevista per la prima»; e secondo il
Tribunale di Torino l’assetto normativo per il quale «una circostanza attenuante riduce la pena edittale minima da sei a un anno di reclusione, costituisce un unicum nel nostro sistema penale»;
perciò la questione di legittimità costituzionale è stata proposta con «specifica limitazione» al rapporto tra l’art. 69, comma quarto, cod. pen. e la disposizione del quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.”
In particolare, la norma censurata sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza ex art 3 Cost, comportando l’applicazione di pene identiche a violazioni di rilievo penale enormemente diverso: il recidivo reiterato implicato nel grande traffico di stupefacenti (art. 73, comma 1, d.P.R. n.
309 del 1990) al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche verrebbe punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato autore di uno «spaccio di strada» di minime quantità al quale siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e quella prevista dal quinto comma dell’art. 73: «l’enorme differenza oggettiva, naturalistica, criminologica delle due condotte viene completamente obliterata in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti penali del loro autore». Risulterebbe, inoltre, violato il principio di offensività ex art. 25 comma 2 cost. che, nella sua formulazione, implica «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo», nonché quello di proporzionalità della pena nelle sue due funzione retributiva e rieducativa ex art. 27 cost.: la pena edittale minima per il piccolo spaccio del recidivo reiterato è più grave di quella prevista, ad esempio, per la partecipazione ad associazioni terroristiche o mafiose (artt. 270-bis e 416-bis cod. pen.), per la concussione (art. 317 cod. pen.), per le lesioni dolose con pericolo di vita della vittima (art. 583, primo comma, cod. pen.), per la rapina aggravata e l’estorsione (artt. 628 e 629 cod. pen.), per la violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.) e per l’introduzione illegale di armi da guerra nel territorio dello Stato (art. 1, legge 2 ottobre 1967, n. 895). È indubbio, allora, che una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso da un lato non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice: essa gli apparirà solo come brutale e irragionevole vendetta dello stato, suscitatrice di ulteriori istinti antisociali.
La Corte Costituzionale, condividendo l’impostazione del Tribunale di Torino, rileva che l’estensione del bilanciamento delle circostanze anche a quelle autonome o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del colpevole è stata voluta dal legislatore del 1974 per consentire il riequilibrio di alcuni eccessi di penalizzazione e rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse dai reati base; ipotesi che solitamente vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base, come nel caso regolato dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990. Rispetto a questo tipo di circostanze, il criterio generalizzato dell’art. 69 comma 4 c.p. ha mostrato delle incongruenze, inducendo il legislatore a intervenire con regole derogatorie, come per esempio per l’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Deroghe che rientrano nell’ambito delle scelte del legislatore e che sono sindacabili da questa Corte soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale.”
Prosegue la Corte “La manifesta irragionevolezza delle conseguenze sul piano sanzionatorio del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata è resa evidente dall’enorme divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per il reato circostanziato e per la fattispecie base prevista dal primo comma della disposizione citata e dagli effetti determinati dal convergere della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dallo stesso art. 73: nel caso di recidiva reiterata equivalente all’attenuante, il massimo edittale previsto dal quinto comma per il fatto di “lieve entità” (sei anni di reclusione) diventa il minimo della pena da irrogare; ciò significa che il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di “lieve entità” (un anno di reclusione) viene moltiplicato per sei nei confronti del recidivo reiterato, che subisce così di fatto un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata, che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.”… “Le rilevanti differenze quantitative delle
comminatorie edittali del primo e del quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 rispecchiano, d’altra parte, le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio decisamente più mite assicurato al fatto di “lieve entità”, la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di «minima offensività penale» (Cass. pen., sezioni unite, 24 giugno 2010, n. 35737), esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato. Due fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e ciò «determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale» (sentenza n. 249 del 2010).”
Sotto il profilo della censurabilità della norma per contrasto con l’art 3 Cost (principio di uguaglianza) la Consulta rileva come “È da aggiungere che, come ha rilevato il rimettente, la norma censurata dà luogo anche a una violazione del principio di uguaglianza perché il recidivo reiterato, cui siano riconosciute le attenuanti generiche, autore di un fatto “non lieve” da punire con il minimo edittale della pena stabilita dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, riceve lo stesso trattamento sanzionatorio – quest’ultimo irragionevolmente più severo – spettante al
recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di “lieve entità”. Del resto, che si tratti di fatti sostanzialmente diversi, e quindi tali da non poter essere assoggettati alla stessa pena, emerge anche dalla considerazione che, come hanno ritenuto le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 23 giugno 2011, n. 34475), l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti «costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell’art. 73», che forma oggetto della previsione dell’art. 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990, costituisce un reato diverso da quello oggetto del primo comma dello stesso articolo 74, relativo a un reato associativo analogo ma punito assai più gravemente perché concerne fatti di non “lieve entità”.”.
Per ciò che concerne il contrasto della norma censurata con la finalità rieducativa della pena, ex art 27 Cost (“che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (sentenza n. 341 del 1994))”, continua la Corte:
“La disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza «una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze» (sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame, il divieto legislativo di soccombenza
della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di “lieve entità”. L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012). La legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per «un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale» (sentenza n. 249 del 2010), non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni, e questo scrutinio nel caso in esame rivela il carattere palesemente sproporzionato del trattamento sanzionatorio determinato dall’innesto della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.”.
Nel caso di specie, conclude la Consulta, il trattamento sanzionatorio che ne deriva è incompatibile con i principi costituzionali di ragionevolezza, proporzionalità e finalità rieducativa della pena e ne va pertanto dichiarata l’illegittimità; la Corte censura infatti la norma sotto tutti e 3 i
profili evidenziati dal Giudice remittente.
Se dal punto di vista formale i rilievi della Consulta paiono ineccepibili, sotto altri profili però le conseguenza pratiche si appalesano contraddittorie; infatti, se appare illogico e certamente non conforme a Costituzione trattare allo stesso modo, sul piano sanzionatorio, il piccolo spacciatore di strada ed il narcotrafficante, in entrambi i casi non consentendo –per effetto dell’art 69 comma 4- la soccombenza dell’aggravante della recidiva rispetto all’attenuante costituita dal fatto di lieve entità, laddove le due situazioni si prefigurano decisamente diverse per mplicazioni giuspenalistiche nonché di contenuto afferente alla loro efficacia general preventiva (una cosa è infatti il disvalore
sociale attribuito al piccolo spacciatore più volte colto in flagranza con modeste quantità di droga, altra questione è il narcotrafficante più volte condannato per grossi traffici illeciti: se nei confronti del secondo pare ragionevole non ammettere la prevalenza dell’attenuante sull’aggravante, nel caso del primo risponde a criteri di retribuzione e proporzione della pena ed efficacia specialpreventiva ammetterlo) e quindi pare altrettanto ragionevole che sia il Giudice, nell’ambito della comparazione delle circostanze ed effettuato il giudizio di bilanciamento per l’applicazione
della pena, a valutare sull’opportunità della loro applicazione, che inciderà sull’an e sul quantum della pena da applicare nel momento valutativo e decisionale del suo operato (stabilendo o meno la prevalenza dell’una sull’altra), dal punto di vista della communis opinio, del comune sentire, la
questione si pone in una prospettiva diversa; infatti per il cittadino comune anche il piccolo spacciatore, che quotidianamente assedia parchi e giardini pubblici, che staziona nei luoghi più a rischio delle città, che rappresenta elemento di disagio e di comune delinquenza, ebbene anche
questo soggetto, nell’opinione del quivis de populo (anche se certamente non è il fine giurista ma comunque è un soggetto inserito nella collettività) merita la punizione “esemplare” perché, nell’ambito di quella sicurezza urbana così descritta dal DM 5 agosto 2008 ed interpretata dalla Corte Costituzionale nelle numerose sentenze in materia (fra tutte la 196/2009 e la 115/2011), quei comportamenti che nel quotidiano turbano l’honeste vivere e la fruibilità degli spazi pubblici, generando sensazione di insicurezza, in particolare tutta una serie di situazioni che turbano il quieto vivere della popolazione, quali l’accattonaggio, lo spaccio di stupefacenti, il commercio abusivo, l’imbrattamento ed il danneggiamento di beni pubblici, la prostituzione, insomma tutta una serie di fenomeni, rientranti nel concetto di “sicurezza urbana” come codificato nel DM citato, che possono costituire “turbamento” al corretto svolgersi della vita cittadina ed alla corretta fruizione
della cosa pubblica da parte dei cives, ancora una volta questi comportamenti e queste situazioni rappresentano, per il cittadino, la vera tangibile delinquenza che ha tutti i giorni davanti agli occhi, che gli impedisce di godere tranquillamente degli spazi pubblici e di sentirsi sicuro, quella forma di delinquenza che incide sul suo quotidiano, deteriorandolo, e che vorrebbe vedere eliminata.
Ancora una volta, non può che concludersi evidenziando come, al di là delle costruzioni teoriche, la certezza della pena (anche nel quantum) e della sua esecuzione rappresentino lo strumento con miglior efficacia specialpreventiva che un sistema penale possa vantare per dirsi credibile.