Luigi Manconi
Il paradosso crudele del carcere
La Repubblica, 9 gennaio 2014
A ben vedere, l'esistenza del carcere e la sua prima giustificazione, la sua amministrazione e l'ideologia che produce si fondano su un paradosso crudele. Che si esprime nella formula: "Privazione della libertà per motivi di giustizia". L'idea che la libertà e la giustizia non marcino di pari passo, sottobraccio, ma l'una si serva - al fine di affermarsi - della cancellazione dell'altra fa a pugni con quella che sembrerebbe un'ovvia verità.
Ossia che giustizia e libertà si integrino l'una nell'altra e si legittimino reciprocamente. Eppure da qualche secolo è così: la giustizia si serve della privazione della libertà per imporsi di fronte alla violazione delle leggi penali. L'alternativa, nel passato, erano le pene corporali e, non ultima, la pena di morte, dispensata all'ingrosso prima dell'invenzione del carcere. E dunque, per questo, fosse pure solo per questo, la "privazione della libertà per motivi di giustizia" dobbiamo tenercela ben stretta, sapendo cosa potrebbe sostituirla.
Intanto, però, quel carcere che si vorrebbe strumento di legalità, macina anche il suo contrario: palesi ingiustizie, violazioni di diritti fondamentali, e talvolta veri e propri crimini, per azione o per omissione. È questo che ci spinge a non considerare concluso il processo di civilizzazione delle pene, che ci obbliga a pensare come sia possibile liberarsi dalla necessità del carcere, che ci esorta a progettare sanzioni diverse da quella rappresentata dalla privazione della libertà, e diverse modalità di mediazione dei conflitti. La crisi economica e la progressiva erosione del welfare universalista hanno reso sempre più improbabile la grande promessa rieducativa scritta in Costituzione, ma non cancellano la dignità della persona detenuta e i suoi diritti. La stessa legittimazione del diritto penale è nella sua differenza dalla vendetta che si scatenerebbe in sua assenza. Dunque, il diritto di punire si giustifica solo quando sa essere rispettoso di chi, quella punizione, subisce, qualunque sia il reato di cui si sia macchiato in precedenza. Poi sta all'intelligenza della politica, quando non possa fare a meno di trattenere in carcere qualcuno, offrirgli quelle opportunità di "emancipazione" che gli consentano di prepararsi un'altra vita, quando quella pena sarà infine conclusa.
Poi, c'è il carcere come è. Nella sua concreta e sordida materialità, nella sua infinita sporcizia, nella sua assoluta insensatezza. Ovvero totale mancanza di senso, di un qualunque significato razionale e funzionale. Il carcere come luogo di procedure di degradazione dei corpi e di annichilimento della dignità della persona. Lo spazio di una immensa miseria materiale e immateriale (altissimo tasso di analfabetismo) e insieme di una "disperata vitalità" (numerosissimi giornali realizzati all'interno e corsi di scrittura creativa, laboratori teatrali e televisioni a circuito chiuso). Ma ciò che va notato, soprattutto, è la trasformazione del carcere nella principale agenzia di stratificazione e diseguaglianza sociale del nostro paese. Fino ad alcuni decenni fa, il carcere aveva come compito principale quello di contenere i detenuti socialmente pericolosi: questi ultimi, secondo la valutazione del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, sono oggi una piccola minoranza; e, all'interno della popolazione carceraria, un terzo è rappresentato da tossicomani, un terzo da stranieri, e un terzo da individui ai margini del (oppure oltre il) sistema di cittadinanza. Persone dipendenti da tutte le dipendenze e da tutte le patologie, malati psichici e senza fissa dimora, borderline e cittadini già garantiti e ora precipitati nella scala sociale. Il carcere e altri luoghi del sorvegliare-punire assolvono a funzioni che la crisi del welfare state abbandona o trascura: laddove non arriva più la protezione pubblica, interviene la cella, il centro di identificazione e di espulsione, il dormitorio e la mensa della Caritas, i servizi psichiatrici, l'Opg.
Il carcere è sempre più il reclusorio delle povertà. Ed è fatale che si radicalizzi una tendenza che sempre il sistema penitenziario ha coltivato: quella alla infantilizzazione del recluso. Si pensi che il principale strumento attraverso il quale il detenuto si rivolge all'amministrazione, chiede una visita medica o l'acquisto di cibo, un colloquio col direttore o col magistrato di sorveglianza, lamenta un disagio o rivendica un diritto, è un facsimile che il linguaggio carcerario definisce domandina. Non domanda, bensì domandina. Passa attraverso quella richiesta definita con termine bambinesco qualunque relazione tra il recluso e il mondo dei liberi. E questo è solo uno dei molti segni di quel processo di riduzione in stato di minorità, che sembra essere lo scopo essenziale e la natura profonda della privazione della libertà. Il detenuto-bambino è tale perché non padrone di sé e dipendente da altri. A partire dalle prime e fondamentali libertà. Quella di disporre del proprio corpo e quella di disporre del proprio tempo. Il detenuto-bambino può muoversi entro limiti assai circoscritti e decisi da altri e non può "andare dove vuole". Così come non può decidere dell'impiego di quella risorsa primaria e qualificante che è il tempo. Non è lui a decidere a che ora svegliarsi e addormentarsi, a che ora mangiare e a quale riposarsi. Lo decidono altri. Lo decide l'Autorità Adulta. In attesa di una crescita che, molto probabilmente, non arriverà mai.