Glauco Giostra

 

Questione carceraria, insicurezza sociale e populismo penale
http://nuovarea.it/ Questione Giustizia, 27 giugno 2014


1. Un approccio sciaguratamente emotivo e populistico

Sconsolatamente istruttivo: mi pare vada così qualificato il dibattito sulla nostra situazione carceraria da quando la scudisciata etica, prima ancora che giuridica, ricevuta da Strasburgo[1] ha costretto molti ad occuparsene o, meglio, a parlarne. Che un argomento per tanto tempo e con tanto sollievo rimosso venga affrontato con mal celato fastidio da quanti nel carcere non vedono mai un problema, bensì la soluzione di tanti problemi, non mette conto neppure di rimarcare. Semmai si prova un certo imbarazzo ad ascoltare le contrite giaculatorie di chi, con mimica impostata a compartecipe dolore, prima si dichiara indignato per l’immonda realtà carceraria e poi, richiesto di indicare soluzioni, conclude sconfortato che, purtroppo, si tratta di un male necessario e che tutte le proposte sul tappeto sono assolutamente impraticabili. Taluno, per la verità, soggiunge in tono salvifico – quasi fosse un’originale intuizione - che una soluzione c’è: costruire più carceri.

Si potrebbe far notare che la Raccomandazione (99) 22 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, riguardante il sovraffollamento carcerario, ha suggerito di cercarne i rimedi in un ampio ricorso alle misure alternative e alla depenalizzazione, nonché – in casi di emergenza – ai provvedimenti di amnistia e di indulto. Decisamente sconsigliata, invece, la creazione di nuove strutture penitenziarie: un rimedio inappropriato ed anzi controproducente – vi si legge - poiché, là dove sono stati intrapresi vasti programmi di costruzione di nuovi penitenziari, si è spesso registrato, parallelamente all’ aumentata ricettività, un incremento della popolazione carceraria.

Si potrebbe aggiungere che la costruzione di nuove carceri è da noi ancor meno raccomandabile, se si considera che, come è notorio, le mura dei nostri penitenziari sono impastate di reati, spesso ancor più gravi di quelli che vi si devono espiare.

Si potrebbe anche ricordare che il graduale ricorso alle misure alternative non soltanto produrrebbe di per sé un decongestionamento della situazione carceraria, incrementando il numero dei detenuti “in uscita”, ma garantirebbe un minor afflusso “in entrata”, se è vero che l’espiazione di parte della pena con modalità alternative alla detenzione assicura un drastico abbattimento della recidiva: dal 68,4% di coloro che espiano l’intera pena in carcere si passa al 19% degli ammessi alle misure alternative, sino all’1% di coloro che sono stati anche immessi in un circuito lavorativo[2]. E’ infatti un dato acquisito della criminologia moderna che il carcere, tanto più nelle attuali condizioni di invivibile luogo dove regna la sopraffazione e dove la più frequente forma di protesta è l’autolesionismo, rischia di esercitare una pedagogia criminale (c.d. effetto dei pari), risolvendosi in una sorta di mola su cui affilare gli arnesi del delitto. Gli altri Paesi europei, sino a poco tempo fa, ricorrevano alle misure alternative in percentuali mediamente decuplicate rispetto alla nostra esperienza[3], circostanza che, anche al netto delle differenze dei vari ordinamenti e del sistema delle agenzie sociali di sostegno negli altri Stati, non può non avere un significato tanto inequivoco, quanto preoccupante.

Considerazioni e dati che i renitenti ad ogni riforma penitenziaria riescono in genere scrupolosamente ad ignorare; quando proprio non gli riesce di eluderli, fanno ricorso al knockout argument: ogni breccia aperta nel carcere creerebbe un grave problema di sicurezza sociale. Obiezione suggestiva, ma destituita di fondamento.

Le indagini di vittimizzazione hanno ormai consentito di appurare che, nei Paesi occidentali almeno, i condannati detenuti costituiscono soltanto il 2-3 % di coloro che delinquono, e che quindi la liberazione dei più meritevoli tra questi ha poco a che fare con la sicurezza sociale. Qualche anno fa la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ordinato allo Stato della California di liberare 46.000 detenuti (sostanzialmente l’intera nostra popolazione penitenziaria nella sua dimensione fisiologica)[4] per risolvere un problema di sovraffollamento, peraltro meno drammatico del nostro. Prima di adottare un così rilevante provvedimento, la Suprema Corte, consapevole che una così drastica misura non poteva non implicare difficili giudizi predittivi in ordine al suo impatto sociale, ha acquisito i dati statistici di precedenti esperienze e le valutazioni di sociologi e criminologi. Sulla base delle prove esaminate e delle analisi degli esperti, la Suprema Corte ha concluso che ogni impatto negativo sulla sicurezza pubblica sarebbe stato compensato dai benefici derivanti dalla riduzione del sovraffollamento. Anzi, avrebbe avuto conseguenze positive, ove lo Stato avesse avuto cura di rilasciare anticipatamente solo quei detenuti che presentavano il minor rischio di recidiva e di fare ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione, gestibili dalla comunità.

2. Governo dell’insicurezza sociale e politica criminale

Sarebbe inutile addurre altri argomenti per dimostrare un dato ormai acquisito da tutti i più accreditati studi sociologici: non vi è alcuna correlazione tra il tasso di incarcerazione e il livello di criminalità e di sicurezza sociale. Più interessante è capire quali siano le ragioni di questi atteggiamenti ostili ad ogni riforma che non si rassegni a ridurre la risposta punitiva a mera segregazione. Che si debba trattare di ragioni profonde e “imperative” lo dimostra il vistoso iato tra le argomentazioni addotte per supportarle e i dati di realtà. Con grossolana sintesi si potrebbe dire che tutti gli indizi portano ad una oscura spelonca psicologica abitata dall’insicurezza sociale, dal senso di vulnerabilità, dalla paura. La stessa spelonca psicologica da cui provengono, ciclicamente, le folate allarmistiche che spingono alle novellazioni sicuritarie: insomma, le cause che impediscono di dare adeguata soluzione al problema del sovraffollamento carcerario sono le stesse che lo hanno determinato.

La questione carceraria si inscrive - con peculiarità affatto speciali- nell’ampio orizzonte di disarmata precarietà schiuso dalla globalizzazione: lo Stato-nazione non è più in grado di sviluppare una propria politica economica, né di garantire la rassicurante cinta protettiva del welfare. Il cittadino percepisce uno Stato imbelle, costretto a smantellare progressivamente le protezioni sociali e lavorative che nella seconda metà del secolo scorso gli erano state assicurate. Vive sballottato dalle correnti della baumaniana “società liquida”, senza una bitta a cui ancorarsi, avvertendo un cronico senso di provvisorietà e di permanente pericolo. Avviluppato nella «matassa delle paure» (Marc Augè), il cittadino si è ormai rassegnato a ridurre le proprie istanze di protezione sociale alla mera tutela della sua incolumità, rispetto alla quale ritiene che lo Stato possa ancora offrirgli garanzie.

Questo “subconscio collettivo” di irrimediabile insicurezza costituisce un giacimento inesauribile di redditizie opportunità politiche. Gli stentorei manifesti programmatici imperniati sulla fermezza della repressione e sulla tolleranza zero si rivelano puntualmente un ottimo strumento di procacciamento di consensi. Tanto che ci si imbatte spesso in politicanti che tutto ignorano, tranne quanto sia remunerativa la retorica della sicurezza pubblica. Quasi ad ogni stagione meteorologica ne corrisponde una sicuritaria in cui viene agitato l’allarme di turno (pedofilia, stupefacenti, sequestri di persona, furti in appartamento, immigrazione clandestina, omicidio colposo stradale, ecc.). Il potere politico, non volendo, non potendo, non sapendo apprestare i rimedi socio-economici o culturali, mette mano (o promette di metter mano) alla fondina legislativa. E le “munizioni” sono sempre le stesse: più pene, più carcere, più reati, meno garanzie processuali, meno benefici penitenziari. Si tratta di un investimento a costo zero, a bassissimo rischio e ad alto rendimento in termini di elettorali.

Il fenomeno non è soltanto domestico, naturalmente. Nei Paesi occidentali è diffuso e studiato. Da noi però ha una carattere endemico, perché la “politica verbale” - fatta di preannunci, rodomontate programmatiche, spot, promesse, ipertrofia legislativa - non è solo una componente della politica penale, ma tende sostanzialmente ad esaurirla. Fenomeno acuito dalla frequenza degli appuntamenti elettorali, durante i quali fisiologicamente la cifra demagogica di ogni soluzione ventilata o adottata cresce a dismisura.

Nel nostro Paese, poi, a questa “politica verbale” si accompagna, risultandone ad un tempo causa ed effetto, o comunque oggettivamente sinergica, una “informazione verbale”, in cui troppo spesso le parole commentano le parole. Un’informazione, oltretutto, molto più sensazionalistica e allarmistica che negli altri Paesi[5], massicciamente occupata da notizie relative ai più efferati misfatti, con morbose “zoomate” che indugiano sul dolore delle vittime o dei loro congiunti. Una informazione banalizzante, emotiva ed ansiogena, quasi sempre disgiunta da un attento studio del dato di realtà e da una intelligenza del suo significato: non si potrebbe predisporre terreno più adatto su cui far prosperare il “populismo penale”. Intendendo, con questa locuzione, la tendenza politica ad apprestare placebo legislativi che fingano di rimuovere le cause delle ansie collettive suscitate da episodi di cronaca nera, ma che in realtà mirano soltanto a captare facili consensi.

Si pensi al termine “svuotacarceri”, con il quale sono stati giornalisticamente etichettati i provvedimenti che hanno di recente cercato di evitare la permanenza o l’ingresso in carcere di chi non avrebbe dovuto, in base alla nostra Costituzione e al buon senso, né restarvi, né entrarvi. Il “messaggio” mediatico, diretto a suscitare ansiosa attenzione, ha spacciato l’idea di una sorta di cieco “sversamento” nella società del pericoloso contenuto dei penitenziari. Si sarebbe dovuto dire che i nuovi provvedimenti avrebbero riguardato percentuali ad una sola cifra sul totale dei condannati; che ne avrebbero fruito soggetti, la cui pericolosità, per la modesta entità della pena da espiare e per la meritevolezza accertata caso per caso, era da ritenersi molto bassa; che studi criminologici, esperienze comparative e dati statistici riferiscono che l’espiazione non carceraria abbatte drasticamente l’indice di recidiva; che i liberandi rappresentavano la parte meno pericolosa e più meritevole dei detenuti condannati, che a loro volta, come già osservato, costituiscono una percentuale irrisoria degli autori di reato in libertà. Soprattutto, si sarebbe dovuto ricordare che una prudente decarcerazione mirata avrebbe evitato a tutti noi di continuare ad essere – davanti al tribunale della nostra coscienza, prima ancora che a quello di Strasburgo - responsabili pro quota di trattamento inumano nei confronti di persone private della libertà .

Ma, nell’odierna informazione fast-food, le parole-concetto contano più della realtà che rappresentano e ne segnano in qualche modo il destino: mai come oggi nomen est omen. “Svuotacarceri” ha dato corpo ai timori collettivi e linfa alla demagogia politica, che li blandisce e li strumentalizza.

3. Un recente caso antologico: l’allarmistico dibattito sulla liberazione anticipata speciale

Per rendersi conto delle conseguenze di questo sciagurato «governo dell’insicurezza sociale», si potrebbe prendere in esame il più contestato tra i provvedimenti adottati di recente in materia penitenziaria: la liberazione anticipata speciale[1]. Un’analisi delle polemiche che hanno accompagnato la sua introduzione e determinato la sua modifica può risultare molto utile per cogliere nello specimen, ma con valore generale, i deleteri effetti prodotti da un certo «populismo penale».

Come è noto, il decreto legge n. 146/2013 ha introdotto l’istituto della liberazione anticipata speciale, che nella sua versione originaria consisteva nell’accreditamento, a chiunque dal 1° gennaio 2010 sino al 23 dicembre 2015 avesse già fruito o fruisse della riduzione di pena ex art. 54 Ord. penit., di uno «sconto» ulteriore pari a trenta giorni per ogni semestre.

Una soluzione opinabile, sia per il significato che il legislatore ha inteso attribuirle, sia per i contenuti. Dal primo punto di vista, appare tutt’altro che convincente attribuire a questo nuovo istituto natura di rimedio compensativo «della violazione dei diritti dei detenuti in conseguenza della situazione di sovraffollamento carcerario»; come pure non sembra sostenibile che la sua adozione fosse «indispensabile ai fini dell’adeguamento alle indicazioni della sentenza Torreggiani», circostanza che avrebbe indotto «ad individuare il termine di efficacia nel 1° gennaio 2010, data in cui si è determinata la situazione di emergenza detentiva». A risolutiva confutazione di queste affermazioni, contenute nella relazione accompagnatoria del decreto legge, basti pensare che può fruire della liberazione speciale chi non ha subìto alcun trattamento inumano ai sensi dell’art. 3 Cedu e, viceversa, che può non fruirne chi lo abbia subìto (o perché l’ha sofferto prima del 1° gennaio 2010 o perché non ha meritato la riduzione di pena ordinaria ex art. 54 Ord. penit.).

Quanto ai contenuti, a suscitare la riserva più forte è il carattere ingiustificatamente temporaneo della misura, che la espone a forti dubbi di costituzionalità; ma opinabili appaiono anche l’entità dell’abbuono aggiuntivo e il differente requisito di meritevolezza che si richiedeva per i condannati ex art. 4-bis Ord. penit.[2]: eccessivo il primo, ingiustificato, oltre che di inafferrabile consistenza, il secondo.

Motivate e salutari sarebbero state, dunque, nel corso dei lavori di conversione del decreto, le critiche costruttive intese a migliorare questa importante novità normativa[3]. Abbiamo assistito, invece, ad allarmistiche e sgangherate rappresentazioni nelle quali non è facile distinguere la componente di analfabetismo giuridico da quella della strumentalizzazione demagogica; saremmo senz’altro inclini ad attribuire maggior peso alla seconda, se non si fosse anche arrivati ad affermare che il nuovo istituto avrebbe ingiustamente favorito i condannati a pene lunghe: una giuridicolaggine smentita proprio dall’opinabile scelta legislativa di attribuirgli una operatività temporalmente delimitata. É vero, semmai, proprio il contrario: tanto il condannato a trenta anni di reclusione, quanto il condannato a sei anni avrebbero potuto (e possono) al massimo fruire – a parità di meritevolezza soggettiva - di uno sconto aggiuntivo di pena non superiore ad un anno. Ma il tossico della mistificazione, una volta inoculato nelle vene mediatiche, non conosce antidoto efficace.

Il messaggio più devastante, comunque, dal punto di vista dell’allarme sociale, è stato quello secondo cui la nuova disciplina della riduzione speciale, se convertita in legge senza modifiche sul punto, avrebbe determinato l’indiscriminata fuoriuscita di mafiosi e di pericolosi criminali: quelli, cioè, condannati per uno dei reati di cui all’art. 4-bis Ord. penit.. Come è noto, questo articolo è uno dei totem securitari, a mettere in discussione il quale si rischia il linciaggio mediatico. É un «favo» informe di titoli di reato aggrappati intorno al «tutore» dei delitti di mafia, gli unici che secondo l’insegnamento della Corte costituzionale potrebbero giustificare astratte presunzioni assolute di pericolosità[4].

Ma nel caso di specie l’art. 4-bis Ord. penit. sembra invocato più a sproposito di sempre. Al momento dell’emanazione del decreto legge n. 146/2013 anche i responsabili dei delitti di cui all’art. 4-bis avevano già potuto beneficiare, se meritevoli, di riduzioni di pena (ex art. 54 Ord. penit.); e naturalmente lo sconto maturato era – questo sì – tanto più cospicuo, quanto più lungo era il periodo di detenzione inflitto. Il decreto legge si limitava a stabilire (art. 4, comma 4) che, quegli stessi soggetti beneficiari, soltanto limitatamente al periodo 2010-2013,soltanto se in tale periodo avessero meritato ed ottenuto riduzioni di pena ordinaria,soltanto nel caso in cui avessero «dato prova, nel periodo di detenzione, di un concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della personalità», avrebbero potuto avvantaggiarsi di un mese di riduzione aggiuntiva per ogni semestre compreso in quell’arco temporale. Quindi, se i tanti profeti di imminenti calamità sociali avessero fatto un po’ di conto, si sarebbero avveduti che nella più ‘drammatica’ delle ipotesi la nuova norma avrebbe consentito, nell’immediato, ad un condannato per un reato di cui all’art. 4-bis, ove in tempi non sospetti avesse già meritato riduzioni di pena e medio tempore dato prova di un concreto recupero sociale, di poter uscire otto mesi prima del previsto. Eppure il messaggio mediatico al momento dell’entrata in vigore del decreto legge de quo fu sostanzialmente di questo tenore: pur di «svuotare» le carceri stanno mettendo fuori anche pericolosi mafiosi.

É persino irriguardoso attribuire agli allarmati ed allarmanti oppositori della norma la convinzione che un condannato ex art. 4-bis Ord.penit., soggetto socialmente innocuo alla scadenza naturale della pena, si sarebbe tramutato in pericoloso criminale ove dimesso con qualche mese di anticipo. Vi sono evidentemente ragioni altre, come si diceva. Pur concedendo che alcuni, in buona fede, subiscano il riflesso condizionato di quel «subconscio collettivo» in forza del quale l’unica transizione di persone rassicurante è quella dalla libertà al carcere, è difficile allontanare la sensazione che spesso sia stato agitato quell’inconsistente pericolo per acquisire lettori o consensi.

4. (segue) ..e le sue deleterie conseguenze

Quali che siano le ragioni alla base del fuoco di sbarramento opposto al nuovo istituto, è interessante esaminarne gli effetti: analisi che consente di studiare «in sedicesimo» i meccanismi che hanno determinato la legislazione degli ultimi lustri e l’indifendibile situazione carceraria che ci ha esposto al ludibrio dell’Europa.

Poiché chi ha vibratamente avversato la liberazione anticipata speciale a causa della sua applicabilità anche ai condannati per i reati elencati nell’art. 4-bis Ord. penit. è riuscito a presentarsi come il paladino della difesa sociale, automaticamente i proponenti rischiavano di passare per irresponsabili disposti a mettere a repentaglio la pubblica sicurezza, pur di dare miope esecuzione ad una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per una valutazione speculare (il timore di perdere consensi) a quella che animava gli oppositori (la speranza di acquisirne), le forze politiche che avevano sostenuto la norma ne hanno proposto la modifica[5], escludendone l’applicabilità ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis Ord. penit.

Il resto è cronaca: una cronaca che dimostra come un «non problema» possa causare tanti problemi.

Anzitutto, sotto il profilo della giustizia sostanziale molti condannati si vedono preclusa, pur avendola meritata, una opportunità di anticipato reinserimento sociale. Né potranno darsene una spiegazione riflettendo sulla maggiore gravità del proprio reato a confronto con quelli commessi dagli altri condannati ammessi al beneficio: molte fattispecie concrete rientranti nel composito elenco dell’art. 4-bis Ord. penit. sono incomparabilmente meno gravi di altre che non vi sono incluse[6].

Un senso di ingiustizia «comparativa» non può non essere avvertito anche tra i condannati per il medesimo delitto ostativo: alcuni di questi, infatti, hanno chiesto ed ottenuto il beneficio nel periodo di conversione del decreto legge; altri lo hanno chiesto nel medesimo periodo senza che sia intervenuta, per cause indipendenti dalla loro volontà, la pronuncia del magistrato di sorveglianza; altri, pur avendone maturati i presupposti, non hanno fatto richiesta prima della conversione in legge, per le più varie ed accidentali ragioni. Non è facile stabilire chi abbia diritto alla concessione del beneficio. Ed infatti si registrano in giurisprudenza tutte le soluzioni astrattamente possibili, con gravi disparità di trattamento tra identiche situazioni soggettive.

Incertezze e contrasti giurisprudenziali si registrano, altresì in ordine alla situazione di condannati per più reati, almeno uno dei quali ricompreso nell’elenco dell’art. 4-bisOrd. penit.. Il dubbio, non nuovo[7], riguarda la possibilità di concedere la riduzione speciale quando la pena per il reato ostativo si possa considerare scontata.

Di certo, comunque, che la modifica restrittiva, escludendo una parte quantitativamente significativa di potenziali beneficiari, ha ridotto in modo marcato l’efficacia «decongestionante» della misura rispetto alla situazione carceraria e, forse, anche le possibilità che la Corte europea dei diritti dell’uomo ritenga sufficienti le provvidenze apprestate dallo Stato italiano per farvi fronte.

Infine, non si può non segnalare la probabilità che un prezzo così alto per il sistema potrebbe rivelarsi anche inutilmente pagato, attesa l’assai dubbia costituzionalità della previsione eccettuativa de qua. Riesce difficile, infatti, immaginare come si possa giustificare, rispetto agli artt. 3 e 27, comma 3 Cost., l’esclusione dal beneficio speciale di soggetti che sono stati o saranno ritenuti meritevoli dell’omologo beneficio ordinario: non appare probabile, quindi, che rimanga indenne da censure una norma che, a parità di positiva partecipazione all’opera rieducativa, «premi» in minor misura alcuni condannati in ragione del titolo del reato. Tanto più se si tiene presente che la stessa Corte costituzionale ha sottolineato con forza come la soluzione «di inibire l’accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per determinati gravi reati» comporti «una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena», «salvando» con malcelato imbarazzo le preclusioni imposte dall’art. 4-bis Ord. penit., in considerazione del fatto che non è comunque esclusa «la possibilità (…) di fruire della riduzione di pena per la liberazione anticipata»[8]. É facile prevedere, dunque, che intervenga una pronuncia di incostituzionalità dell’art. 4 della legge di conversione 20 febbraio 2014, n. 10 del decreto legge n. 146/2013, nella parte in cui esclude dal beneficio i condannati per i reati previsti dall’art. 4-bisOrd. penit.. Si apriranno allora delicatissimi problemi di giustizia sostanziale e di diritto intertemporale, con inevitabile confusione e affanno giurisprudenziale per la rivalutazione dei benefici negati in base all’illegittimo divieto.

5. Il governo dell’insicurezza sociale e gli «automatismi carcerari»

Quella rievocata è solo l’ultima vicenda legislativa - e neppure la più importante tra le decine che l’hanno preceduta - in cui le ansie securitarie hanno prevalso sulle esigenze di giustizia e di coerenza del sistema: il solito «populismo penale» si è preoccupato di risospingere le paure della gente, spesso dopo averle non disinteressatamente risvegliate, dentro le rassicuranti mura del carcere. Lo strumento è sempre lo stesso: l’«automatismo carcerario», se è consentito compendiare in questa locuzione tutti quei meccanismi legali che, pur in presenza dei requisiti soggettivi (meritevolezza) e oggettivi (entità della pena da scontare) che consentirebbero ad un condannato di lasciare il carcere o di non entrarvi, vietano al giudice di disporre misure diverse dalla detenzione intramuraria in ragione del titolo del reato commesso o dello status (es. recidivo) del condannato. Una politica criminale fortemente discutibile sul piano costituzionale, di certo miope ed ingiusta. Non solo si disincentiva ogni sforzo del condannato in vista del reinserimento sociale; non solo si dimostra una ingiustificata sfiducia nella magistratura di sorveglianza deputata a verificare la sussistenza dei presupposti oggettivi e della meritevolezza soggettiva; non solo si concorre a determinare il sovraffollamento carcerario, ma – ed è l’aspetto più grave - si accetta che stia in carcere chi dovrebbe o potrebbe non esserci: nessuna tipologia di reato o di status, infatti, può consentire di escludere a priori che un soggetto possa essere, nel caso concreto, meritevole della liberazione anticipata o della misura alternativa alla detenzione carceraria, che invece gli vengono ope legis interdette. Del resto, le presunzioni assolute di pericolosità servono proprio ad imporre il carcere anche quando il giudice nel caso concreto non lo riterrebbe necessario. Lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale per la custodia cautelare «obbligatoria», in ordine alla quale la posizione della Corte costituzionale non potrebbe essere più nitida e più ferma[9].

Gli «automatismi carcerari» non sono soltanto fortemente discutibili in sé, ma producono effetti deleteri. Anzitutto, una volta introdotta una presunzione assoluta di pericolosità per un certo reato, questa esercita, come l’esperienza doviziosamente dimostra, una sorta di vis attractiva: non appena si manifesta una reale o immaginaria emergenza la presunzione si estende ad altre figure di reato à la page, giustapponendo sovente esigenze e fattispecie molto eterogenee. In secondo luogo, questi agglomerati normativi che si formano per sedimentazioni progressive hanno una particolare forza inerziale: quando il legislatore - re melius perpensa o più spesso per la insostenibilità delle conseguenze - vuole rivedere le sue scelte, deve affrontare due tipi di difficoltà.

Se si accinge ad un’opera di sfoltimento delle ipotesi ostative, incontra fatalmente la resistenza psicologica derivante da un diffuso riflesso condizionato: poiché l’intero agglomerato normativo viene principalmente identificato con l’ipotesi di reato più grave, relativa alla criminalità organizzata di tipo mafioso, espungere qualche sia pur marginale figura criminosa viene percepito come un abbassare la guardia nel contrasto alla mafia.

Il secondo genere di resistenza alla rimozione di tali automatismi deriva da una distorsione percettiva legata alla ragione della loro introduzione: se questa era finalizzata ad evitare che tornassero anticipatamente in libertà i responsabili di taluni allarmanti delitti, allora rimuovere l’automatismo significherebbe rimetterli in libertà. Va da sé che si tratterebbe, invece, non già di ammettere alle misure alternative alla detenzione tutti i condannati per il reato non più ostativo, bensì soltanto di evitare che tutti i condannati per quel reato siano aprioristicamente esclusi dalla possibilità di fruirne, anche se meritevoli. Ma per il potere politico, il «percepito» dall’elettorato conta più della realtà.

6. Una giustizia ingiusta

La crescita, non sempre spontanea, dell’insicurezza sociale conduce non soltanto ad una politica criminale carcerocentrica, ma anche ad una giustizia diseguale.

Se, come si è detto, la società ormai è rassegnata a reclamare soltanto tutela contro le aggressioni violente all’incolumità personale e al patrimonio, la risposta penale finisce per essere incentrata prevalentemente, se non addirittura in via esclusiva, su alcune tipologie di reato e su determinate componenti della popolazione.

Tutto il nostro sistema penale, a mo’ di inguardabile Giano, mostra un volto draconiano ai soggetti deboli della società ed un volto indulgente, se non talvolta ammiccante, ai poteri forti. A cominciare dal diritto penale sostanziale che prevede ipertrofiche risposte punitive per alcuni reati a fronte di risibili «buffetti» sanzionatori per altri, non sempre meno socialmente gravi[10]. Per proseguire con il processo penale, nel quale la marcata «policromia» iniziale delle notizie di reato iscritte nell’omonimo registro si riduce progressivamente con l’avanzare del processo (esercizio dell’azione penale, decreto che dispone il giudizio, sentenze), sino alla condanna a pena detentiva da eseguire, che concerne un’assai ristretta cerchia di reati: una sorta di darwinismo giudiziario, infatti, seleziona coloro che, per maggiore forza economica, politica o sociale, riescono nel corso del processo a sottrarsi alla condanna o comunque alla esecuzione di una pena detentiva. Per finire con il carcere, che sta lì ad attestare «fisicamente» una realtà, che un tempo si sarebbe qualificata «classista»: uno sguardo alla «etnologia sociale» di provenienza della popolazione penitenziaria è più eloquente di qualunque discorso. Con un sistema penale carcerocentrico come il nostro, con più di sessantamila detenuti, i ristretti per corruzione sono 9, per concussione 28, per peculato 46, per reati societari 3[11].

Sono dati, questi, che tra l’altro smentiscono la disinvolta affermazione con cui solitamente si liquida il problema del sovraffollamento carcerario, ritenendolo un effetto inevitabile dell’alto indice di criminalità italico (dato, peraltro, contraddetto dalle statistiche): proprio nei settori in cui certamente abbiamo non invidiabili primati di devianza, come nel settore dei reati contro la pubblica amministrazione, il nostro tasso di carcerazione dei responsabili è incomparabilmente inferiore a quello di altri Paesi, notoriamente meno corrotti del nostro. A mortificante esempio: in Italia gli evasori in carcere sono 156, in Germania 8.601; rispetto alla popolazione penitenziaria i condannati per reati economici e fiscali in Italia costituiscono soltanto lo 0.4%, a fronte di una media europea del 4.1%[12]. Anche a voler tener conto di inevitabili approssimazioni nella comparazione di dati non del tutto omogenei, si tratta di una forbice statistica di inoppugnabile eloquenza.

7. Premessa per una nuova politica penale

Se le considerazioni che precedono hanno un qualche fondamento, dei recenti provvedimenti legislativi in materia penitenziaria non basta dire, come pure è stato giustamente fatto, che sono importanti, ma insufficienti. Bisogna avvertire che recano conquiste, purtroppo, precarie. Al primo reato commesso da soggetto in misura alternativa o al primo riacutizzarsi, reale o mediatico, di un certo fenomeno criminale, si riapriranno i consueti scenari: cubitali titoli di giornali e spettacolarizzazione televisiva del dolore confermeranno molti cittadini nei loro latenti timori, alimentadoli; timori che troveranno non disinteressata udienza in quei politici specialisti nel cogliere ogni opportunità demagogica offerta dalla nostra «democrazia emotiva». Le cose potranno davvero e stabilmente cambiare soltanto quando ci sarà una maggioranza politica forte nei numeri e culturalmente coesa, che non debba e non intenda mercanteggiare una sacrosanta riforma con qualche trattamento discriminatorio o con qualche ingiustificato aumento di pena.

Un potere politico che - sostenuto da una stampa meno sensazionalistica e più tecnicamente provveduta – sia in grado di spiegare che la criminalità non si fronteggia infierendo sui criminali già individuati e puniti, ma ponendo le premesse socio-economiche per ridurre al minimo le ragioni del delinquere e fornendo alle forze di polizia risorse, personale e strumenti per prevenire, contrastare e accertare le manifestazioni delittuose. In grado di far comprendere che le misure alternative alla detenzione che accompagnano il percorso di recupero del condannato non rappresentano un modo per rendere ineffettiva la pena, bensì per renderne effettiva la funzione assegnatale dalla Costituzione. In grado di ricordare alla collettività che la speranza di attenuazioni graduali dello stato detentivo motiva psicologicamente il condannato a sottrarsi alle suggestioni di coloro che gli prospettano il sodalizio criminale come l’unico modo per tutelarsi, dentro e fuori del carcere. In grado di affermare che l’evasione o l’azione criminosa di un soggetto ammesso ad una misura alternativa (evenienza statisticamente molto rara, ancorché amplificata a dismisura dai media) non è necessariamente frutto di un errore del magistrato che l’ha concessa o, ancor meno, di una disfunzione del sistema, ma è il tributo che si paga ad una scelta di politica penale che, dati alla mano, offre enormi vantaggi anche in termini proprio di sicurezza (drastico abbattimento delle ipotesi di recidiva). In grado di chiarire su quali principi si basa la propria politica della pena, quali possibili prezzi comporti, quali inaccettabili effetti produrrebbe un diverso approccio fobo-demagogico al problema. Compito quest’ultimo che sarà reso agevole dal ricordo dell’attuale esperienza: un sistema infarcito di discriminazioni, preclusioni, obblighi di carcere, senza nessun apprezzabile vantaggio in termini di sicurezza, con il rischio incombente che i penitenziari esplodano, con la certezza di essere additati dagli altri Paesi come lo Stato in cui viene endemicamente praticato un trattamento penitenziario inumano e degradante.

Beninteso, non si auspica un buonismo a buon mercato: alcuni misfatti meritano pene severe, prolungatamente privative della libertà, cui la società è costretta a ricorrere per punire e per difendersi. Ma niente può mai autorizzare lo Stato a togliere, oltre alla libertà, anche la dignità e la speranza.

[1] Ma a conclusioni non dissimili si giungerebbe spostando l’attenzione sulle polemiche che hanno accompagnato il preannuncio di un rimedio compensativo fondato su una riduzione della pena, proporzionata alla durata del trattamento detentivo inumano e degradante sofferto durante la sua espiazione. Polemiche che hanno ottenuto il risultato, non sappiamo se di sopprimere o di manipolare l’embrione legislativo, certo di differire dannosamente il parto di un provvedimento che ci consentirebbe di affrontare con maggiori possibilità di successo e con minore impatto economico il redde rationem cui saremo chiamati il 28 maggio 2014 davanti alla Corte di Strasburgo.

[2] Mentre per tutti gli altri condannati la concessione della riduzione «speciale» era ammessa «sempre che nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio abbiamo continuato a dare prova di partecipazione all’opera di rieducazione» (art. 4, comma 2, dl n. 146/2013), per i condannati di cui all’art. 4-bisOrd. penit., «soltanto nel caso in cui abbiano dato prova , nel periodo di detenzione , di un concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della personalità» (art. 4, comma 4, dl n. 146/2013).

[3] Ad esempio, si sarebbe potuto proporre di diminuire l’entità della riduzione speciale aggiuntiva, prevedendola, però, stabilmente, senza limitarla all’attuale segmento temporale, ingiustificabile nel dies a quo, non meno che nel dies ad quem.

[4] V. postea nota 14.

[5] Atteggiamento comprensibile, ma non condivisibile, almeno se si vuole cambiare veramente la politica criminale di questo Paese: v. postea par.7.

[6] Basti pensare, per avere una idea della insostenibilità della scelta derogatoria introdotta in sede di conversione, che sarebbe ostativo alla fruizione della liberazione anticipata speciale il reato di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando dei tabacchi lavorati esteri e non quello di omicidio.

[7] É un dubbio, infatti, che puntualmente si ripropone ogniqualvolta venga espiata una pena per un cumulo di reati, alcuni dei quali soltanto ostativi alla fruizione del beneficio che il condannato, a giudizio della magistratura di sorveglianza, nel caso concreto meriterebbe.

[8] Corte cost., sentenza 11 novembre 1993, n. 306, nella quale puntualmente si precisa che «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di «tipi di autore», per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita».

[9] Con ben sei pronunce di illegittimità, riguardanti l’art. 275, comma 3 cpp, la Corte costituzionale ha costantemente affermato che le presunzioni assolute della necessità del carcere sono «arbitrarie e irrazionali» tutte le volte «in cui sia «agevole» formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenza 10 aprile 2010, n. 139). Solo per i delitti di mafia, considerate le loro peculiarissime connotazioni criminologiche, la presunzione assoluta può contare su una congrua «base statistica», che la rende plausibile per la generalità dei casi: questo il costante ragionamento della Consulta (ordinanza 18-24 ottobre 1995, n. 450), peraltro non privo di qualche affanno argomentativo, ma comunque avallato dai giudici di Strasburgo (Corte europea dei diritti dell’uomo, 6 novembre 2003, Pantano c. Italia).

[10] Si pensi, per un esempio del primo tipo, al sequestro di persona a scopo di estorsione punito con la reclusione da venticinque a trenta anni (art. 630 cp), cioè con un minimo edittale irrazionalmente superiore a quello, di anni ventuno (art. 575 cp), previsto per l’omicidio, come ha rilevato la stessa Corte costituzionale (sent. n. 68/2012), occupandosi di una fattispecie in cui un presunto debitore per una partita di stupefacenti non pagata era stato trattenuto in casa con la forza. Per contro, i responsabili di disastri finanziari e societari che lasciano segni indelebili nel tessuto sociale, come la cronaca degli ultimi tempi si è impegnata ad attestare, sono puniti, a querela, con una pena da sei mesi a tre anni (art. 2622 cc).

[11] Dati aggiornati 7 maggio 2014, forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ministero della giustizia.

[12] Space I, Council of Europe annual penal statistics, Survey 2011, Strasburgo, 3 maggio 2013, Institut de criminologie et droit pénal dell’Università di Losanna, M. F. Aebi e N. Delgrande, table 6, pp. 96-97.