19/01/13 http://www.personaedanno.it/
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"IL DANNO DA DETENZIONE INUMANA"- Fabio FIORENTIN |
IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA DETENZIONE “INUMANA” (saggio tratto da “LA PROVA E IL QUANTUM NELLA RESPONSABILITA’ CIVILE”/Utet, di prossima uscita SOMMARIO : 1. La fattispecie generatrice dell’illecito: la detenzione “inumana”. 1.1. I parametri che identificano una violazione dell’art. 3 CEDU. 2. Le forme di tutela giurisdizionale. Il “sistema multilivello". 3. La risarcibilità del danno da detenzione “inumana” nel diritto interno. 4. La quantificazione del danno e la sua indennizzabilità in sede europea.
1. La fattispecie
generatrice dell’illecito: la detenzione “inumana”.
La detenzione contraria al senso di umanità, quale lesione della dignità dell’essere umano, costituisce la fattispecie generatrice dell’illecito da cui nasce il diritto al risarcimento del danno. Si tratta di una costruzione di matrice giurisprudenziale, che si incentra sulla violazione dell’art. 3 CEDU e quindi sulla lesione della dignità della persona detenuta per effetto di un trattamento inumano o degradante. Nel panorama europeo, il leading case è rappresentato dalla sentenza CEDU 25 aprile 1978 Tyrer/United Kingdom, con la quale la Corte europea precisa quando si è in presenza di una detenzione che assume il carattere della tortura e del trattamento inumano e degradante (v. per una esaustiva rassegna delle fonti, Bartole, Conforti e Raimondi, 2001): the applicant did not suffer any severe or long-lasting physical effects, his punishment – whereby he was treated as an object in the power of the authorities – constituted an assault on precisely that which it is one of the main purposes of Article 3 (art. 3) to protect, namely a person’s dignity and physical integrity (CEDU, sent. 25.04.1978, Tyrer/United Kingdom). La presenza di un trattamento degradante (ill-treatment) implica sempre – secondo la CEDU - la presenza di una lesione della dignità umana. Non può costituire alcuna giustificazione per i Governi la sussistenza di condizioni di sovraffollamento o altre problematiche di natura logistica o finanziaria: The Court (…) reiterates that irrespective of the reasons for the overcrowding, it is incumbent on the respondent Government to organise its penitentiary system in such a way as to ensure respect for the dignity of detainees, regardless of financial or logistical difficulties (CEDU, sent. 27.03.2008, Sukhovoy/Russia). Attraverso l’utilizzo dei parametri mediante i quali è possibile definire le nozione di tortura o di trattamento inumano o degradante, la Corte di Strasburgo accerta, nel caso concreto, la presenza di una lesione della dignità umana ai sensi dell’art. 3, CEDU ed accorda, eventualmente, un equo indennizzo (su tale profilo, v. infra par. 4). Occorre precisare che gli atti o le modalità organizzative che costituiscono oggettivamente tortura o trattamento inumano o degradante, possono consistere in esecuzioni penali, trattamenti sanitari e attività di polizia che incidono sulla libertà degli individui e che producono non solo lesioni fisiche, ma anche sofferenze psichiche e morali. Non rileva, ai fini dell’accertamento della lesione, l’elemento soggettivo – cioè la volontà del Governo nazionale di adottare trattamenti oggettivamente contrari alla dignità del detenuto: Premesso che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo obbliga gli Stati a garantire ai detenuti condizioni compatibili con il rispetto per la dignità umana e che le misure di reclusione applicate non debbano determinare sofferenze di intensità superiore al livello comunque inerente alla detenzione, la Corte rileva che nel caso di specie si sono determinate, a causa del sovraffollamento, delle sconcertanti condizioni materiali di detenzione non compatibili con un sufficiente spazio personale. Tali condizioni, seppure non determinate dall’intenzione di porre in essere comportamenti degradanti o umilianti, devono considerarsi, in associazione alla durata per la quale si sono protratte (quindi mesi), in contrasto con l’art. 3 Convenzione Cedu in quanto equiparabili a trattamenti degradanti (CEDU, sez. III, sent. 15.06.2010, n. 35555, Ciupercescu/Romania). E ancora: L'absence, dans le chef des autorités nationales, d'une volonté d'humilier ou de rabaisser l'intéressé n'exclut pas définitivement un constat de violation de l'article 3; cette disposition peut aussi bien être enfreinte par une inaction ou un manque de diligence de la part des autorités publiques (CEDU, sent. 17.09.2009, Scoppola/Italia). Il rispetto della dignità umana e il divieto di tortura o di trattamenti contrari al senso di umanità rappresentano, in definitiva, un principio fondamentale, una fattispecie di jus cogens, il cui rispetto assoluto non ammette alcuna eccezione: La Cour réaffirme d'emblée que l'article 3 de la Convention consacre l'une des valeurs les plus fondamentales des sociétés démocratiques. Il prohibe en termes absolus la torture et les traitements ou peines inhumains ou dégradants, quels que soient les circonstances et les agissements de la victime (Labita c. Italie [GC] no 26772/95, § 119, CEDH 2000-IV), même dans les circonstances les plus difficiles, tels la lutte contre le terrorisme et le crime organisé (CEDU, Ramirez Sanchez c. France [GC], no 59450/00, § 115, CEDH 2006 IX). La Corte EDU ricorda che l’art. 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Esso proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti, quali che siano i fatti commessi dalla persona interessata ( CEDU, sent. 28.2.2008, Saadi c/Italia [GC], n. 37201/06, § 127; CEDU, sent. Labita c/Italia [GC], n. 26772/95, § 119, CEDU 2000-IV). Esso impone, inoltre, allo Stato di assicurarsi che le condizioni detentive di ogni detenuto siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad un disagio o ad una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano adeguatamente assicurate (CEDU, sent. Kudła c/Polonia [GC], n. 30210/96, § 92-94, CEDU 2000-XI). Per costituire una lesione del diritto europeo suscettibile di censura occorre peraltro, secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza EDU, che la violazione abbia attinto una soglia minima di gravità (su tale profilo, v. ulteriormente par. 1.1.): La Cour rappelle par ailleurs sa jurisprudence selon laquelle, pour tomber sous le coup de l'article 3, un mauvais traitement doit atteindre un minimum de gravité. L'appréciation de ce minimum est relative par essence ; elle dépend de l'ensemble des données de la cause, notamment de la durée du traitement et de ses effets physiques ou mentaux, ainsi que, parfois, du sexe, de l'âge, de l'état de santé de la victime, etc. (voir, parmi d'autres, Enea précité, § 55) (CEDU, Ramirez Sanchez c. France [GC], no 59450/00, § 115, CEDH 2006 IX).
1.1. I parametri che identificano una violazione dell’art. 3 CEDU. L’insieme di condizioni che rende il trattamento inumano e degradante è rappresentato dalla durata del trattamento, dai suoi effetti fisici e psichici in relazione al sesso, l’età, le condizioni di salute dell’interessato. In tale contesto interpretativo, il dato relativo alla presenza di uno spazio minimo vitale risulta certamente il profilo di più agevole riscontro e può divenire elemento da solo sufficiente da far pervenire all’accertamento del mancato rispetto dell’art. 3, CEDU, quando sia inferiore o uguale a 3 mq (Aleksandr Makarov c/Russia, n. 15217/07, § 93, 12 marzo 2009; si vedano anche Lind c/Russia, n. 25664/05, § 59, 6 dicembre 2007; Kantyrev c/Russia, n. 37213/02, §§ 50-51, 21 giugno 2007; Andreï Frolov c/Russia, n. 205/02, §§ 47-49, 29 marzo 2007; Labzov c/Russia, n. 62208/00, § 44, 16 giugno 2005, e Mayzit c/Russia, n. 63378/00, § 40, 20 gennaio 2005). Va osservato comunque che la Corte europea, anche in tali eclatanti fattispecie di violazione dell’art. 3 CEDU, indica ulteriori elementi che avevano determinato, nel caso concreto, una “detenzione inumana”. Con una recente sentenza, la Corte di giustizia europea ha stabilito che condizioni di eccessivo affollamento delle camere di detenzione integrano una forma di detenzione inumana che, per la sua stretta inerenza al divieto di tortura, costituisce posizione non sacrificabile in assoluto e suscettibile di indennizzo (“equa soddisfazione”, nella terminologia CEDU). La Corte di Strasburgo ha utilizzato, quale parametro per la verifica delle condizioni detentive, le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (CPT), secondo cui ciascun detenuto dovrebbe poter trascorrere almeno otto ore al giorno fuori della cella e che lo spazio disponibile per ciascun detenuto nelle celle dovrebbe essere di 7 mq, con una distanza di 2 metri tra le pareti e di 2,50 metri tra il pavimento e il soffitto (in più occasioni la Corte ha fatto riferimento ai parametri del CPT nella sua giurisprudenza: si veda, in particolare, CEDU, sent. Kalachnikov c/Russia, n. 47095/99, CEDU 2002-VI): (…) La Corte ricorda che l’articolo 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Esso proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti, quali che siano i fatti commessi dalla persona interessata (Saadi c/Italia [GC], n. 37201/06, § 127, 28 febbraio 2008, e Labita c/Italia [GC], n. 26772/95, § 119, CEDU 2000-IV). Esso impone allo Stato di assicurarsi che le condizioni detentive di ogni detenuto siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad un disagio o ad una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano adeguatamente assicurate (Kudła c/Polonia [GC], n. 30210/96, § 92-94, CEDU 2000-XI) (CEDU, sentenza 16.07.2009, Sulejmanovic c. Italia). La Corte ha precisato, peraltro, di non potere quantificare, in modo preciso e definitivo, lo spazio personale che deve essere concesso ad ogni detenuto ai sensi della Convenzione. Esso può, infatti, dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all’aria aperta o le condizioni mentali e fisiche del detenuto (CEDU, sent. 19.07.2007, Trepachkine c/Russia, n. 36898/03, § 92, in Bianco, 2008). (…) 41. Ciononostante, in alcuni casi, la mancanza di spazio personale per i detenuti era talmente flagrante da giustificare, da sola, la constatazione di violazione dell’articolo 3. In quei casi, in linea di principio, i ricorrenti disponevano individualmente di meno di 3 m2 (Aleksandr Makarov c/Russia, n. 15217/07, § 93, 12 marzo 2009; si vedano anche Lind c/Russia, n. 25664/05, § 59, 6 dicembre 2007; Kantyrev c/Russia, n. 37213/02, §§ 50-51, 21 giugno 2007; Andreï Frolov c/Russia, n. 205/02, §§ 47-49, 29 marzo 2007; Labzov c/Russia, n. 62208/00, § 44, 16 giugno 2005, e Mayzit c/Russia, n. 63378/00, § 40, 20 gennaio 2005). 42. In compenso, in casi in cui la sovrappopolazione non era così eccessiva da sollevare da sola un problema sotto il profilo dell’articolo 3, la Corte ha notato che, nell’esame del rispetto di questa disposizione, andavano presi in considerazione altri aspetti delle condizioni detentive. Tra di essi figurano la possibilità di utilizzare privatamente i servizi igienici, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base (si vedano anche gli elementi risultanti dalle regole penitenziarie europee adottate dal Comitato dei Ministri, citate nel precedente paragrafo 21). Così, anche in casi in cui ogni detenuto disponeva di uno spazio variabile dai 3 ai 4 m2, la Corte ha concluso per la violazione dell’articolo 3 dal momento che la mancanza di spazio si accompagnava ad una mancanza di ventilazione e di luce (Moisseiev c/Russia, n. 62936/00, 9 ottobre 2008; si vedano anche Vlassov c/Russia, n. 78146/01, § 84, 12 giugno 2008; Babouchkine c/Russia, n. 67253/01, § 44, 18 ottobre 2007; Trepachkine, succitata, e Peers, succitata, §§ 70-72) (CEDU, sent. 16.07.2009, Sulejmanovic c. Italia). Tuttavia, in linea di principio, la riscontrata mancanza di spazio personale per i detenuti inferiore a 3 mq è stata ritenuta – da un recente arresto - circostanza tale da integrare ex se violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU: (…) 43. Nel caso di specie, il ricorrente afferma di essere stato detenuto, dal 30 novembre 2002 all’aprile del 2003, in una cella di 16,20 m2, che divideva con altre cinque persone. Stando ai documenti prodotti dal Governo (precedente paragrafo 17), la cella assegnata al ricorrente era stata occupata da sei detenuti solo a partire dal 17 gennaio 2003. La Corte osserva che, anche ammettendo che fosse stato così, resta il fatto che, per un periodo di oltre due mesi e mezzo, ciascun detenuto avrebbe disposto in media solo di 2,70 m2. Essa ritiene che una tale situazione abbia inevitabilmente causato disagi e inconvenienti quotidiani al ricorrente, costretto a vivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima ritenuta auspicabile dal CPT. A giudizio della Corte, la flagrante mancanza di spazio personale di cui il ricorrente ha sofferto è, di per sé, costitutiva di un trattamento inumano o degradante. 44. Ne consegue che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione a causa delle condizioni in cui il ricorrente è stato detenuto fino all’aprile 2003 (CEDU, sentenza 16.07.2009, Sulejmanovic c. Italia). Nel caso in cui lo spazio disponibile per detenuto sia superiore a tale “soglia critica”, entra in gioco una valutazione ponderata di tale elemento con altri fattori che influenzano la qualità della detenzione: (…) 51. Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che, per il periodo in cui il ricorrente disponeva di oltre 3 m2 di spazio personale – periodo in cui la sovrappopolazione carceraria non era quindi così eccessiva da sollevare da sola un problema sotto il profilo dell’articolo 3 –, il trattamento cui è stato sottoposto l’interessato non abbia raggiunto il livello minimo di gravità richiesto per rientrare nella previsione dell’articolo 3 della Convenzione. 52. Pertanto, le condizioni detentive del ricorrente dopo il mese di aprile del 2003 non hanno comportato una violazione di tale disposizione. (CEDU, sentenza 16.7.2009, Sulejmanovic c. Italia). Occorre, tuttavia, considerare che due giudici dell’assise europea hanno formalizzato dissenting opinions nel senso di osservare criticamente che, nel caso di specie, la Corte non avesse considerato la pluralità di indicatori dai quali desumere la sussistenza di un trattamento contrario al senso di umanità e, in particolare, il parametro della soglia di “minima gravità” del pregiudizio causato all’interessato, che integra la violazione dell’art. 3 CEDU: (…) Nel presente caso, il ricorrente non denuncia nessun altro elemento (mancanza di luce, aria, igiene, ecc.) oltre all’insufficienza dello spazio a sua disposizione quando rimaneva chiuso in cella. Inoltre, l’interessato ha beneficiato di periodi di attività fuori della cella più lunghi di quelli raccomandati dal CPT. Ne concludo che – nel caso specifico del ricorrente, tenuto conto anche della sua età e del periodo relativamente breve della sua detenzione – il « minimo di gravità » non è stato raggiunto (CEDU, sentenza 16.7.2009, Sulejmanovic c. Italia, opinione dissenziente del giudice Zagrebelsky). La Corte europea è ritornata successivamente ad un approccio multifattoriale: Pour établir une violation de l'article 3, la Cour se sert du critère de la preuve « au-delà de tout doute raisonnable », qui peut cependant résulter d'un faisceau d'indices, ou de présomptions non réfutées, suffisamment graves, précis et concordants (Ramirez Sanchez, précité, § 117,). Les mesures privatives de liberté s'accompagnent inévitablement de souffrance et d'humiliation. S'il s'agit là d'un état de fait inéluctable qui, en tant que tel et à lui seul n'emporte pas violation de l'article 3, cette disposition impose néanmoins à l'État de s'assurer que tout prisonnier est détenu dans des conditions compatibles avec le respect de la dignité humaine, que les modalités de sa détention ne le soumettent pas à une détresse ou à une épreuve d'une intensité qui excède le niveau inévitable de souffrance inhérent à une telle mesure et que, eu égard aux exigences pratiques de l'emprisonnement, sa santé et son bien-être sont assurés de manière adéquate ; en outre, les mesures prises dans le cadre de la détention doivent être nécessaires pour parvenir au but légitime poursuivi (Frérot c. France, no 70204/01, 12 juin 2007, § 37, et Renolde c. France, no 5608/05, §§ 119-120, 16 octobre 2008) (CEDU, sent. 20.04.2011, Payet/Francia). Come si è accennato, la giurisprudenza della Corte è consolidata nel ritenere che le condizioni detentive non devono sottoporre l’interessato ad un disagio o a restrizioni di intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione (CEDU, sent. Kudła c/Polonia [GC], n. 30210/96, §§ 92-94, CEDU 2000-XI) e che, per essere censurato ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione EDU, la sofferenza deve attingere una soglia minima di gravità. La valutazione di tale minimo coefficiente è, tuttavia, relativa; essa dipende dall’insieme degli elementi della situazione concreta e, in particolare dalla durata del maltrattamento e dalle sue conseguenze fisiche o mentali nonché, talvolta, dal sesso, dall’età e dallo stato di salute della vittima (si vedano, tra le altre, Price c/Regno Unito, n. 33394/96, § 24, CEDU 2001-VII, Mouisel c/Francia, n. 67263/01, § 37, CEDU 2002-IX, e Gennadi Naoumenko c/Ucraina, n. 42023/98, § 108, 10 febbraio 2004). La ricordata sentenza Sulejmanovic si muove entro tale prospettiva: (…) Le condizioni non erano tali da comportare immancabilmente o probabilmente un danno per la salute mentale e fisica del ricorrente o per la sua integrità. Esse erano tuttavia palesemente e nettamente fuori dalle regole raccomandate dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (CPT) per quanto riguarda lo spazio a disposizione di ciascun detenuto. Nelle particolari circostanze del caso, l’inumanità della situazione risiede nel fatto che lo Stato non ha dimostrato di avere adottato misure compensative supplementari per attenuare le condizioni estremamente gravose derivanti dalla sovrappopolazione del carcere. Esso avrebbe potuto prestare particolare attenzione alla situazione, ad esempio concedendo altri vantaggi ai detenuti. Ciò sarebbe servito a far passare loro il messaggio che lo Stato, pur dovendo far fronte ad un’improvvisa crisi carceraria, non era indifferente alla sorte dei detenuti e intendeva creare condizioni detentive che, tutto sommato, non facessero pensare al detenuto come a nient’altro che un corpo da dover sistemare da qualche parte. Nel caso di specie, la mancanza di attenzione da parte dello Stato aggiunge una punta d’indifferenza all’acuta sofferenza causata dalla punizione, sofferenza che andava già quasi oltre l’inevitabile (Kudła c/Polonia [GC], n. 30210/96, § 92, CEDU 2000 XI). (CEDU, sentenza 16.7.2009, Sulejmanovic c. Italia, opinione concordante del giudice Sajò). 2. Le forme di tutela giurisdizionale. Il “sistema multilivello". Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, amplia la prospettiva della protezione dei diritti fondamentali nello spazio europeo. La nuova fonte pattizia sancisce, infatti, che l’Unione si fonda su un insieme di valori, taluni dei quali non espressamente menzionati nei trattati precedenti: dignità, eguaglianza, tolleranza, giustizia, solidarietà (art. 2, Trattato dell'Unione Europea). A tale, solenne proclamazione consegue l'obbligo per gli Stati aderenti e per le istituzioni europee di adeguare i propri ordinamenti e - più in generale – la propria politica alla tutela di quei valori, anche nelle relazioni internazionali (art. 3, p. 5, Trattato UE). L'attribuzione di pieno valore giuridico alla Carta dei Diritti fondamentali dell'Uomo (art. 6, TUE) e l’adesione dell’Unione alla CEDU (art. 12, TUE) determina un radicale cambiamento di prospettiva, che vincola direttamente gli ordinamenti interni al rispetto della dignità e dei diritti delle persone, con particolare riguardo per i soggetti che risultano particolarmente a rischio. Tra le "Osservazioni", indirizzate dall' Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa al Parlamento europeo ai fini dell'attuazione di una migliore protezione dei diritti fondamentali, si trovano alcune importanti enunciazioni, che investono direttamente la questione della tutela dei diritti delle persone in stato di limitazione della libertà personale. In particolare, si raccomanda il ravvicinamento delle legislazioni con riguardo alle disposizioni relative a “standard minimi di detenzione" (minimum standards in prison conditions: cfr. relazione Turco 24 febbraio 2004, recante "Proposta di raccomandazione del Parlamento europeo destinata al Consiglio sui diritti dei detenuti nell’Unione europea"). E' auspicato che gli strumenti adottati in materia non siano limitati ai soli casi “transfrontalieri” ma siano suscettibili di applicarsi a tutte le persone coinvolte in procedimenti penali negli Stati membri, "creando un elevato zoccolo comune di diritti per tutti coloro che si trovano nel territorio dell’UE." E', inoltre, raccomandata la stipula di accordi internazionali di assistenza giudiziaria e di estradizione con gli Stati terzi che in tema di diritti fondamentali, al fine di prevenire "ogni rischio di trattamenti inumani e degradanti." Sul piano giudiziario, la prevista adesione dell’Unione alla CEDU, la forza vincolante attribuita alla Carta dei diritti fondamentali e il - pur limitato - ampliamento dei poteri della Corte di Giustizia, rappresentano convergenti fattori destinati a potenziare il ruolo e gli spazi di intervento dei giudici delle Corti europee e nazionali. Ne deriva che, nello spazio europeo, la tutela dei diritti è sempre più affidata ad un sistema “multilivello” in cui si intersecano gli ordinamenti nazionali, l’ordinamento comunitario e l’ordinamento CEDU (Fiorentin e Delli Priscoli 2010, 238). Nel diritto interno, l'art. 4, l. 26.7.1975, n.354, stabilisce che «i detenuti e gli internati esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla presente legge anche se si trovano in stato di interdizione legale». Tali posizioni soggettive, qualora siano lese da una condotta illecita (attiva od omissiva) della P.A., sono suscettibili di tutela giurisdizionale (Grevi 1981). Può brevemente rammentarsi come appaia assolutamente pacifico che all’ingresso del circuito penitenziario il detenuto si vede riconosciuto dall’ordinamento giuridico nei confronti dell’amministrazione penitenziaria un proprio patrimonio di situazioni soggettive meritevoli di tutela. (…) Possiamo dire, quindi, che grazie ai precetti fondamentali contenuti nella Carta costituzionale che trovano espresso recepimento anche a livello di legislazione ordinaria non può più ritenersi che la detenzione determina il sorgere di una relazione di supremazia speciale tra amministrazione e condannato tale da azzerare il patrimonio giuridico di quest’ultimo. Con l’ingresso del detenuto nel circuito penitenziario non vi è alcuna abdicazione ad i diritti fondamentali che fanno parte del patrimonio indefettibile dell’uomo, ma si registra la limitazione di alcuni di questi diritti, si pensi alla libertà di movimento o alla libertà di comunicazione, ovvero un soddisfacimento degli stessi con modalità distinte rispetto a quelle previste per tutti coloro che non sono presi in carico nel circuito penitenziario (Mag.Sorv. Lecce, ord., 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). In linea di principio, pertanto, la condizione di detenuto non limita la possibilità di adire il giudice secondo le regole di competenza ordinarie; bensì consente di fruire di una tutela speciale ed aggiuntiva attivabile, in corrispondenza di violazioni ai diritti verificatesi nel corso del trattamento, davanti al magistrato di sorveglianza: (…) Legittimata dunque a conoscere di atti e comportamenti lesivi provenienti dall'Amministrazione penitenziaria è la magistratura di sorveglianza, alla quale la Corte costituzionale riconosce «una tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati» e, specificamente il magistrato di sorveglianza quale giudice "più vicino" (Cesaris 2002, 237; nello stesso senso, Della Casa 1999, 859). (…) Occorre preliminarmente osservare che la materia del reclamo al Magistrato di Sorveglianza avverso provvedimenti dell’A.P. da parte dei detenuti, è stata reiteratamente sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, che ha compiutamente esaminato il complesso sistema di difesa giudiziaria dell'insieme dei diritti di cui il soggetto sottoposto a restrizione della libertà personale sia titolare. (…). La Corte Cost. ha in primo luogo escluso dalla suddetta materia sia i diritti che sorgano nell'ambito di rapporti estranei all'esecuzione penale, i quali trovano evidentemente protezione secondo le regole generali che l'ordinamento detta per l'azione in giudizio; sia le posizioni soggettive che possono venire in considerazione nel momento applicativo degli istituti propri dell'esecuzione penale, incidendo concretamente sulla misura e sulla qualità della pena (istituti previsti, ad esempio, nei capi III e VI del Titolo I della legge n. 354 del 1975),che trovano tutela nei procedimenti espressamente previsti in tali casi (art. 678, in relazione all'art. 666) con procedimento di natura giurisdizionale, affidato alla magistratura di sorveglianza. La Corte Costituzionale ha quindi affrontato il tema della tutela giurisdizionale dei diritti, la cui violazione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale. Tale compressione delle posizioni soggettive individuali- tra cui rientrano tutti i diritti suscettibili di essere lesi, senza alcuna distinzione tra diritti aventi fondamento costituzionale e non può dipendere o da atti dell'Amministrazione espressivi del potere di disporre, in presenza di particolari presupposti indicati dalla legge, misure speciali che modificano le modalità concrete del "trattamento" di ciascun detenuto; o da determinazioni amministrative prese nell'ambito della gestione ordinaria della vita del carcere. Il giudice delle leggi ha inoltre precisato che in tale ambito, il giudice deve operare un vaglio di legittimità pieno non solo del rispetto dei presupposti legislativi dettati all'Amministrazione per l'adozione delle misure, ma anche dei loro contenuti, con particolare riferimento all'incidenza su non comprimibili diritti dei detenuti e degli internati, la cui garanzia rientra perciò, nel sistema attuale, nella giurisdizione del giudice ordinario (Mag. sorv. Varese, ord. 24.02.2005, in Fiorentin e Sandrelli 2007, 950 ). Infine, si registra la nascita di nuove posizioni giuridiche derivanti dalla relazione tra l’amministrazione penitenziaria ed il detenuto, alcune delle quali, direttamente riconducibili all’esecuzione della pena, possono variamente atteggiarsi sotto forma di interesse legittimo o di diritto soggettivo. E tra queste alcune vedono nell’amministrazione un referente indefettibile al fine di assicurare il loro soddisfacimento. Non bisogna in definitiva pensare al detenuto come ad una soggetto che nel varcare le mura di cinta del carcere subisca una riduzione del proprio patrimonio giuridico, sicché le sue posizioni giuridiche vengono ricondotte alla situazione di meri interessi di fatto. Ma come ad un individuo che conserva l’intero bagaglio di quei diritti fondamentali inalienabili, che possono subire una limitata compressione nel rispetto del precetto scolpito nell’art. 27 cost., ed acquisisce nuove posizioni giuridiche, la cui tutela deve essere assicurata, ponendo altrimenti a rischio l’utilità stessa della pena. (Mag.Sorv. Lecce, ord., 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). La tutela esercitabile presso il magistrato di sorveglianza – attraverso lo strumento giurisdizionale del reclamo “atipico” ai sensi del coordinato disposto degli art. 35, 69, l. 26.7.1975, n. 354, modellato sull’archetipo del reclamo di all’art. 14-ter, della medesima legge - costituisce una forma più immediata di tutela in forma specifica, attivabile nei casi di inerzia o comportamento illegittimo dell'amministrazione penitenziaria incisivo delle posizioni soggettive dei detenuti, nei casi in cui il ristoro della posizione soggettiva dell'interessato può essere effettuata, in via diretta e immediata, attraverso l'attivazione dell'organo giudiziario (anche – secondo alcuni - attraverso la nomina di commissari ad acta nel caso di inottemperanza dell'amministrazione penitenziaria), con forme procedimentali agili e flessibili, idonee a perseguire il fine del rapido riequilibrio della posizione soggettiva illegittimamente connotata dall'operato dell'amministrazione (Fazzioli 1999). Ancora più semplificata è la procedura attivabile con il reclamo “generico” previsto dal disposto dell’art. 35, l. n. 354/75, che non necessita di forme procedurali particolari e si risolve in una segnalazione all’amministrazione da parte del magistrato di sorveglianza, che può assumere la forma di vere e proprie disposizioni vincolanti per l’amministrazione penitenziaria. Tipico è il caso dell'intervento del magistrato di sorveglianza quando emette il decreto previsto dall'articolo 69, 5° co., l. n. 354/75, al fine di rimuovere le riscontrate violazioni dei diritti dei detenuti in seguito a reclamo degli stessi ovvero in sede di controllo del programma di trattamento (Coppetta 2006; Corso 2006). Occorre, peraltro, considerare che il potere riconosciuto al giudice di sorveglianza di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il riequilibrio della posizione soggettiva del detenuto ingiustamente lesa dall'amministrazione penitenziaria (artt. 35 e 69, l. n. 354/75, letti alla luce della sentenza costituzionale 8-11.2.1999, n. 26), rappresenta uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino-detenuto nei confronti della pubblica amministrazione, ed opera con esclusivo riguardo alla materia del trattamento penitenziario. L'attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme al ruolo riconosciuto dall'ordinamento alla magistratura di sorveglianza, ma completa, in ambito penitenziario, la previsione dell'art. 24 Cost., il cui disposto, garantendo ai diritti piena ed effettiva tutela, implica necessariamente che il giudice sia munito di adeguati poteri. (...) proprio la centralità che assume a livello sistemico il Magistrato di Sorveglianza consente di concludere per la sussistenza di una giurisdizione esclusiva di quest’ultimo su tutte le controversie aventi ad oggetto la violazione di diritti come potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale, recata da atti dell'Amministrazione ad esso preposta (Mag. Sorv. Lecce, ord., 17.09.2009, www.personaedanno.it) 3. La risarcibilità del danno da detenzione “inumana” nel diritto interno. Nel diritto interno la giurisprudenza ha affrontato la questione della natura della responsabilità ascrivibile all’amministrazione penitenziaria, con un unico arresto edito: (…) le strade percorribili sono tre: quella della responsabilità aquiliana, quella della responsabilità da contatto sociale qualificato e quella della responsabilità, latu sensu, contrattuale. (…) Nel caso in esame viene in rilievo la diretta violazione di quegli obblighi contenuti nei testi fondamentali sovranazionali come nazionali, nonché nelle norme dell’ordinamento penitenziario a guisa che si può apprezzare non soltanto la perdita derivante dalla lesione alla dignità del detenuto, ma anche il non miglioramento del suo processo di rieducazione ex art. 27 comma 3 cost. Sotto questo profilo viene in essere una responsabilità per violazione di un obbligo ex lege differente da quella scrutinata da Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9147 e da Cass. civ., sez. I, 10 marzo 2010, n. 5842, che si sono occupate del danno dello Stato-legislatore da mancata trasposizione di direttiva comunitaria anche in quelle occasioni si è valorizzata la natura contrattuale della responsabilità del danneggiante. Nei citati precedenti giurisprudenziali si è giunti, infatti, ad una conclusione, che non può essere estesa al caso in esame, avendo la Suprema Corte concluso per la natura indennitaria della responsabilità della p.a. in quanto proveniente da atto illecito sul piano comunitario, ma non su quello nazionale. Al contrario, nella fattispecie il comportamento dell’amministrazione risulta antigiuridico nella misura in cui viola obblighi che operano a livello nazionale. Da ciò deriva che l’inadempimento non genera il diritto ad un indennizzo, ma ad un risarcimento da parte dell’amministrazione (Mag.Sorv. Lecce, ord. 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). La qualificazione della natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione penitenziaria quale responsabilità contrattuale non incide sulla possibilità che da quest’ultima si generino danni non patrimoniali: nell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale; se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni. (Sez. Un., 26972/2008). Alla luce di tale qualificazione della responsabilità dell’amministrazione penitenziaria in termini di responsabilità, lato sensu, contrattuale, l’arresto richiama la disciplina giuridica della responsabilità da inadempimento ex artt. 1218 e segg., c.c. . (…) Pertanto, dal punto di vista probatorio vale il regime previsto nell’art. 1218 c.c., secondo l’esegesi offerta da Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533. In omaggio al principio di vicinanza della prova e di persistenza presuntiva del diritto, il danneggiato deve limitarsi ad allegare l’inadempimento oggettivo, ossia il fatto storico e soggettivo (l’imputabilità del fatto storico), mentre spetta al presunto danneggiante prova di aver adempiuto ovvero di non versare in colpa per non aver potuto adempiere (Mag.Sorv. Lecce, ord. 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). E’ questione dibattuta se il magistrato di sorveglianza, nella sua veste di “giudice naturale” dei soggetti detenuti o internati, oltre che accertare l'illegittimità delle condotte dell'amministrazione penitenziaria generatrici del danno, possa anche pronunciare la condanna dell'amministrazione al risarcimento del medesimo. Il panorama giurisprudenziale è attualmente contraddistinto dalla compresenza di due indirizzi di merito (mentre non risulta ancora pronunciatasi la giurisprudenza di legittimità), l’uno favorevole alla configurabilità in capo al magistrato di sorveglianza della giurisdizione (anche) di condanna dell’amministrazione penitenziaria al risarcimento del danno; l’altro di segno opposto. Secondo il primo orientamento, in seguito alla sentenza costituzionale, 3 luglio 1997, n. 292, vi è stato il formale riconoscimento della natura giurisdizionale del reclamo ai sensi dell’art. 35, l. n. 354/1975, dinanzi al magistrato di sorveglianza. Successivamente, un altro intervento della Consulta (sentenza 17 febbraio 1999, n. 26), ha dichiarato “… incostituzionali, per difetto della garanzia giurisdizionale sancita dall'art. 24 cost., gli art. 35 e 69 l. 26 luglio 1975 n. 354 (il secondo nel testo sostituito dall'art. 21, l. 10 ottobre 1986 n. 663), nella parte in cui non prevedono, in favore di chi subisca restrizioni della libertà personale, una tutela giurisdizionale nei confronti di atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi di diritti, quando la lesione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a quella restrizione”. In tale prospettiva, il magistrato di sorveglianza esercita una giurisdizione esclusiva in materia di violazione delle posizioni soggettive dei detenuti: (…) proprio la centralità che assume a livello sistemico il Magistrato di Sorveglianza consente di concludere per la sussistenza di una giurisdizione esclusiva di quest’ultimo su tutte le controversie aventi ad oggetto la violazione di diritti come potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale, recata da atti dell'amministrazione ad esso preposta (Mag.Sorv. Lecce, ord. 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). Ne consegue che non verrebbe in linea di conto la distinzione tra diritti e interessi legittimi: Anche in queste fattispecie si radica la giurisdizione esclusiva del Magistrato di Sorveglianza alla luce delle conclusioni alle quali sono giunti due autorevoli precedenti quali Corte cost., 212/1997, e Cass., Sez. Un., 25079/2003. La prima delle citate pronunce ci accompagna sino alla posizione del problema quando afferma che: “Ora, poiché nell'ordinamento, secondo il principio di assolutezza, inviolabilità e universalità del diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.), non v'è posizione giuridica tutelata di diritto sostanziale, senza che vi sia un giudice davanti al quale essa possa essere fatta valere, è inevitabile riconoscere carattere giurisdizionale al reclamo al magistrato di sorveglianza, che l'ordinamento appresta a tale scopo (Mag. Sorv. Lecce, ord. 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). Superato il profilo critico della questione inerente la giurisdizione del magistrato di sorveglianza in materia di diritti e interessi, l’indirizzo cristallizzato nella decisione Slimani approda alla conclusione che sussiste in capo al magistrato di sorveglianza anche la competenza a delibare le richieste risarcitorie, sulla base delle pronunce costituzionali n. 341/06 e n. 266/09. La possibilità, per il magistrato di sorveglianza, di pronunciare la condanna dell’amministrazione penitenziaria è, infine, ammessa sulla base di una complessa ricostruzione interpretativa del quadro ordinamentale: È la finalità di assicurare una migliore risposta giurisdizionale ai diritti del detenuto che pervade il complesso di norme rappresentato dagli artt. 35 e 69 sul quale poggia la giurisdizione del Magistrato di Sorveglianza. Né in questo senso appare convincente una ricostruzione secondo la quale il Magistrato di Sorveglianza dovrebbe limitarsi ad accertare la lesione del diritto del detenuto, assicurandone eventualmente una tutela in forma diretta, salva la possibilità per il detenuto stesso di rivolgersi al giudice civile per ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito dell’accertata lesione. Una simile ricostruzione rievoca i tormentati rapporti che hanno interessato a livello di riparto di giurisdizione la questione relativa al risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo. Le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 191/2006, circa l’esigenza in attuazione dei precetti contenuti negli artt. 24 e 111 cost. di assicurare la concentrazione delle forme di tutela giurisdizionale dinanzi ad un unico giudice, confortano l’idea che il Magistrato di Sorveglianza possa assicurare una tutela anche risarcitoria dei diritti del detenuto (Mag. Sorv. Lecce, ord. 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). Il procedimento di sorveglianza attivabile ai fini del riconoscimento del risarcimento del danno patito dalla persona detenuta avrebbe, infine, secondo la decisione Slimani, la capacità di rispettare i canoni dell’art. 111, Cost. Nella presente controversia il rito seguito è stato quello definito dagli artt. 14-ter, 35 e 69 l. 354/1975, in omaggio all’interpretazione costituzionalmente offerta dalle Sezioni unite penali, con sentenza del 26 febbraio 2003, n. 25079, e ribadita da ultimo nell’ordinanza n. 266/2009 del Giudice delle leggi (Mag. Sorv. Lecce, ord. 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). Benché la giurisprudenza in modo conforme ritenga che l’amministrazione penitenziaria non possa intervenire tramite un suo rappresentante personalmente in udienza, ma abbia solo facoltà di presentare memorie, il rispetto del principio di tutela del contraddittorio tra le parti in posizioni di parità sarebbe assicurato, secondo tale ricostruzione, aderendo ad una lettura della disciplina processuale conforme alla giurisprudenza costituzionale: (…) il principio di parità tra le parti nel processo non comporta necessariamente l'identità dei rispettivi poteri processuali: «stanti le differenze fisiologiche fra le due parti, dissimmetrie sono, così, ammissibili anche con riferimento alla disciplina delle impugnazioni, ma debbono trovare adeguata giustificazione ed essere contenute nei limiti della ragionevolezza (Corte costituzionale, sent. 09.04.2009, n. 108). Una asimmetria di tal fatta può essere giustificata dalla differente posizione di supremazia sostanziale assunta dall’amministrazione penitenziaria nei confronti del detenuto, che si riequilibra in sede processuale. Senza dire che il Magistrato in sede istruttoria ben avrà la possibilità di ascoltare membri dell’amministrazione penitenziaria assumendone a verbale le dichiarazioni. Un ulteriore ragione di tensione tra le regole seguite ed il principio di effettività del contraddittorio è rappresenta dall’esegesi secondo la quale l’amministrazione non solo non potrebbe intervenire in udienza, ma sarebbe sprovvista durante il processo anche di difesa tecnica (Mag. Sorv. Lecce, ord. 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). Al fine di superare l’empasse, l’ordinanza Slimani propone, pertanto, una lettura costituzionalmente orientata proprio dell’art. 14-ter, l. 354/1975, laddove dispone al comma 3, che: “Il procedimento si svolge con la partecipazione del difensore …” La lettera della norma, infatti, non precisa che la locuzione utilizzata faccia riferimento in via esclusiva al difensore del detenuto, riferendosi in modo generico al “difensore”: Deve, pertanto, ritenersi che per “difensore” debba intendersi il difensore delle parti, ivi inclusa l’amministrazione penitenziaria, rappresentata nella fattispecie dal Ministro della Giustizia, che ai sensi degli artt. 1 e 11, comma 2, r.d. n. 1611/1933, è difeso dall’Avvocatura distrettuale di Lecce, che nel presente giudizio si è, infatti, costituita, accettando il contraddittorio e difendendo le ragioni dell’amministrazione (Mag. Sorv. Lecce, ord. 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it). Relativamente alla quantificazione del danno, la decisione in rassegna opta per l’adozione di un criterio equitativo ispirato alle determinazioni assunte in materia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle pronunce sopra citate nelle quali ha ritenuto sussistente la presenza della violazione dell’art. 3 CEDU. La Corte europea nella già citata sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic/Italia ha concesso al detenuto un equo indennizzo pari a 1.000,00 euro per il danno morale sofferto per periodo di due mesi e mezzo nel quale poteva fruire di uno spazio minimo vitale di 2,70 mq. Rispetto a quella situazione la lesione cagionata all’odierno reclamante è di poco più contenuta sotto il punto di vista temporale e manifesta un’aggressione meno intensa al comune bene giuridico della dignità umana. In presenza di una situazione tale da integrare la tortura o il trattamento inumano o degradante si genera, in assenza di conseguenze fisiche, una sofferenza psichica di elevata intensità. Nella presente fattispecie, pertanto, il danno può essere commisurato in misura proporzionalmente inferiore e va stimato in complessivi in 220,00 (duecentoventi/00) euro. Su quanto dovuto a titolo di risarcimento del danno spettano la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat a partire dal 6 settembre 2010 (data nella quale è cessato l’illecito dell’amministrazione penitenziaria) ad oggi e gli interessi compensativi calcolati nella misura legale separatamente sul capitale via via rivalutato dalla data della domanda sino al soddisfo (Cass. civ., Sez. III, 9338/2009). (Mag. Sorv. Lecce, ord. 09.06.2011, Slimani, www.personaedanno.it) A tale indirizzo si contrappone altra, più recente, decisione che ritiene inammissibile la richiesta di risarcimento del danno da detenzione “inumana” se azionata avanti al magistrato di sorveglianza con il procedimento di cui all’art.14-ter, l. n. 354/75. L’arresto in questione contesta, anzitutto, che possa ritenersi sussistente, nella materia dei diritti dei detenuti, una giurisdizione esclusiva del magistrato di sorveglianza estesa alla possibilità di condanna dell’amministrazione: (…) occorre tuttavia considerare che il potere di annullamento dell’atto amministrativo da parte del G.A. è “coperto” da un’espressa previsione costituzionale (art. 113, comma 3, Cost.), così come quello di conoscere (anche) della tutela dei diritti soggettivi (art.103, comma 1, Cost.), per cui il legislatore può assegnare « particolari materie » alla c.d. “giurisdizione esclusiva” del giudice amministrativo, nelle quali «la commistione di diritti soggettivi ed interessi legittimi non si debba ricercare nelle varie tipologie delle singole controversie ma nell'atteggiarsi dell'azione della pubblica amministrazione in settori determinati, anche se molto estesi, connotati da una significativa presenza dell'interesse pubblico» (Corte cost. 204/2004). Sul versante dell’ordinamento penitenziario, il potere di accertare la violazione dei “diritti” delle persone detenute è assegnato alla magistratura di sorveglianza dagli artt. 35 e 69, comma 5, L. 354/75, quale giudice “vicino” ai soggetti ristretti e autorità “garante” del controllo di legittimità del trattamento somministrato ai detenuti dall’amministrazione penitenziaria. Come è stato ampiamente chiarito dalla elaborazione giurisprudenziale, si tratta di una tutela peculiare ed aggiuntiva, che si affianca ma non si sovrappone agli ordinari rimedi apprestati dall’ordinamento a tutela delle posizioni soggettive dei consociati. A tale proposito, merita considerare, riguardo all’oggetto della cognizione attribuita alla magistratura di sorveglianza, che la collocazione sistematica della disposizione normativa dell’ultima parte del comma 5, art. 69, L. 354/75 sembra ispirata alla medesima ratio dell’intervento magistratuale previsto dalla prima parte del medesimo comma 5, in rapporto alle violazioni riscontrate nel programma di trattamento. In altri termini, nello stesso comma 5, art. 69, ord.pen., si attribuisce al magistrato di sorveglianza il potere di rinviare alla direzione dell’istituto penitenziario il programma di trattamento qualora vi ravvisi « violazioni dei diritti del condannato o dell’internato » ; ed un intervento del tutto analogo è contemplato « nel corso del trattamento », qualora, cioè, si ravvisino violazioni trattamentali verificatesi – per così dire - in itinere. La dizione è, infatti, identica nelle due fattispecie, e non può che condurre ad analoghi risultati interpretativi, nel senso, cioè, che in entrambi i casi al magistrato di sorveglianza compete di accertare la violazione di diritti inerenti al trattamento penitenziario rieducativo, sia che essi si verifichino in sede di predisposizione del programma di trattamento; sia che i medesimi occorrano nel corso del medesimo (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 18.04.12, Rollo, www.personaedanno.it). L’intervento del magistrato, in altri termini, è normativamente configurato – secondo la decisione Rollo, quale immediato potere di interdizione su quelle situazioni o comportamenti organizzativi dell’amministrazione assunti nel corso del trattamento che contrastino con i diritti dei soggetti ristretti: una sorta di “pronto soccorso”, insomma, che si va ad aggiungere alla tutela ordinaria assicurata dall’ordinamento a tutti i consociati mediante accesso alla giurisdizione civile, penale ed amministrativa, la cui ratio riposa proprio sulla particolare condizione dei soggetti detenuti, che è apparsa al legislatore del 1975 abbisognevole di una peculiare tutela “ad effetto immediato”, contraddistinta – non casualmente - da una cognizione sommaria e da tempi procedimentali scanditi e particolarmente stretti. E tale caratteristica natura rende ragione delle particolarità che ne caratterizzano la disciplina, segnatamente con riferimento alla previsione di un contraddittorio essenziale e della carenza di strumenti processuali per l’esecuzione coattiva della decisione del magistrato di sorveglianza nel caso di inottemperanza dell’amministrazione penitenziaria, dovendo tale rimedio estemporaneo non già sostituirsi ma concorrere con gli ordinari strumenti a disposizione del cittadino per vedere tutelati i propri diritti apud judicem. Rispetto a tale ricostruzione della natura e dell’oggetto dell’intervento di garanzia riconosciuto al magistrato di sorveglianza pare, in definitiva, eccentrica la possibilità di pronunce di condanna, sia nei termini di un facere specifico; sia soprattutto in relazione ad una pronunzia risarcitoria di una lesione del danno patrimoniale o morale subito dal detenuto (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 18.04.12, Rollo, www.personaedanno.it). Lo stesso Giudice delle leggi – osserva inoltre l’ordinanza Rollo, nel momento in cui si è occupato funditus del conferimento di particolari materie alla “giurisdizione esclusiva” del G.A., oltre a sottendere che una tale attribuzione rientra nella potestà legislativa; ha altresì indicato con rigorosa precisione i parametri cui il legislatore deve attenersi nell’esercizio della discrezionalità – pur ampia- che l’ordinamento costituzionale gli attribuisce ex art. 103, comma 1, Cost. : È evidente … che il vigente art. 103, primo comma, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi: un potere, quindi, del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie. Tale necessario collegamento delle “materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive - e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa - è espresso dall'art. 103 laddove statuisce che quelle materie devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata della circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo (Corte cost. sent. 05-06.07.2004, n. 204). E la Corte aggiunge: Il legislatore ordinario ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.) e, dall'altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo (Corte cost. sent. 05-06.07.2004, n. 204). Le affermazioni della Consulta sembrano escludere la possibilità di riconoscimento di ulteriori ipotesi di “giurisdizione esclusiva” per via pretoria, anche se proposta mediante il ricorso alla c.d. interpretazione “costituzionalmente orientata”, che pare doversi arrestare, proprio per non tradire la sua stessa essenza di strumento atto a conformare l’applicazione della legge ai principi codificati dalla Carta fondamentale, di fronte ai limiti posti dallo stesso quadro costituzionale (che riserva al legislatore la distribuzione delle materie alle diverse giurisdizioni). Secondo l’indirizzo Rollo, il riconoscimento di una “giurisdizione esclusiva” in materia di tutela dei diritti dei detenuti attribuita alla magistratura di sorveglianza, mutuata analogicamente da quella attribuita ad altri plessi giurisdizionali, non consentirebbe comunque di pervenire alla consequenziale ammissibilità della domanda risarcitoria veicolata in forma autonoma e non correlata all’accertamento della illegittimità dell’atto amministrativo o della condotta dell’amministrazione penitenziaria: Invero, il ricordato arresto costituzionale n. 204/2004, in materia di giurisdizione esclusiva del G.A., ha stabilito il principio che la “giurisdizione esclusiva” è compatibile con l’assetto costituzionale solo se la giurisdizione su diritti soggettivi si aggiunge ad una preesistente giurisdizione sugli interessi legittimi: in altri termini, non è ammessa una giurisdizione del giudice amministrativo su diritti soggettivi per così dire “pura” (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 18.04.12, Rollo, www.personaedanno.it). Nello stesso senso è invero l’orientamento della più recente giurisprudenza costituzionale: (…) deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a “comportamenti” (di impossessamento del bene altrui) collegati all'esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di “comportamenti” posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto (Corte cost., sent. 03-05.05.2006, n. 191). La Corte di cassazione ha, per parte sua, ritenuto che: (…) E che la materia del risarcimento del danno esistenziale coinvolga interessi legittimi anziché unicamente diritti soggettivi appare circostanza di cui è legittimo dubitare. Peraltro il principio enunciato dal Giudice delle leggi è stato recentemente ancor più radicalizzato da recente arresto della Cassazione a Sezioni Unite, che, con assoluta chiarezza, ha affermato che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo presuppone l'impugnazione di un provvedimento amministrativo, con la conseguenza che, qualora non vi sia nella fattispecie un atto amministrativo in senso stretto suscettibile di impugnazione e di eventuale annullamento, non vi è spazio per la giurisdizione del giudice amministrativo, anche se quella materia è devoluta alla sua giurisdizione esclusiva (Sez. Un., 25.02.2011, n. 4614, CED). La collocazione sistematica della disposizione di cui all’art. 69, 5° co., l. n. 354/75 impedisce, peraltro, di ritenere che il magistrato di sorveglianza abbia una giurisdizione piena in materia di tutela dei diritti delle persone detenute, nel senso di comprendere non soltanto la giurisdizione di accertamento della lesione del diritto, ma anche la giurisdizione di condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni consequenziali: (…) nulla lascia presagire la volontà
della legge di costruire attorno alla magistratura di sorveglianza una
ampiezza di giurisdizione che travalichi gli stretti ambiti delimitati
dalla lettera della legge, che espressamente attribuisce, appunto, al
magistrato di sorveglianza il potere di . La disposizione pare, invero,
non lasciare dubbi né sulla natura della giurisdizione esercitata,
laddove essa stabilisce, in esito al positivo riscontro di eventuali
violazioni trattamentali, la conseguente emanazione di “disposizioni”
magistratuali dirette ad “eliminare” le ravvisate violazioni; né
sull’oggetto della verifica ope judicis portata sull’operato
della P.A. Sotto il primo profilo, infatti, l’art. 69, comma 5, ord. pen.,
configura una giurisdizione di accertamento in relazione ad un ambito
specifico di illegittimità, coincidente con l’ambito del trattamento
penitenziario (art. 35) o rieducativo (art. 69, comma 5), che non pare
lasciare spazio né a pronunce di natura costitutiva in materia di
annullamento dell’atto amministrativo - che implicherebbe, sulla base
delle coordinate costituzionali (art. 113, comma 3, Cost.) una testuale
previsione normativa - né soprattutto a statuizioni di condanna
dell’amministrazione di natura risarcitoria. In quest’ultimo senso,
infatti, il legislatore sembra non lasciare dubbi, nel momento in cui
precisa che al magistrato di sorveglianza compete unicamente la
possibilità di < (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 18.04.12, Rollo, www.personaedanno.it). Coerente con tale impostazione appare la scelta operata dalle Sezioni unite di indicare, quale modello procedimentale da utilizzare per la delibazione dei reclami “giurisdizionalizzati” in materia di “violazione dei diritti” dei detenuti, quello di cui all’art. 14-ter, l. n. 354/75: In effetti, il ricorso all’art.666 c.p.p. che prevede il termine di dieci giorni per l’avviso alle parti e ai difensori,la partecipazione necessaria all’udienza del difensore e del pubblico ministero,la possibilità di depositare memorie fino a cinque giorni prima dell’udienza,il diritto dell’interessato che ne fa richiesta di essere sentito personalmente, l’applicazione per il ricorso per cassazione dei termini di cui all’art.585 c.p.p.,appare subito un modello esorbitante la necessaria semplificazione della procedura,da attuarsi attraverso il pronto intervento del magistrato di sorveglianza così da omettere,almeno in parte, gli indugi della seriazione generale prevista dal codice di procedura penale. Gli artt.14ter, 69, 71 e seguenti dell’ordinamento penitenziario prevedono il termine di cinque giorni per l’avviso al pubblico ministero, all’interessato e al difensore, la partecipazione non necessaria del difensore e del pubblico ministero;la facoltà dell’interessato di presentare memorie; il termine di dieci giorni per proporre reclamo;la possibilità di proporre ricorso per cassazione entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento ( Cass. sez. un., 26.2.2003, n.25079, Gianni, in Giust.Pen., 2004, II, 282-300). L’affermazione portata dalla giurisprudenza costituzionale in ordine alla necessità che le posizioni soggettive delle persone detenute siano tutelate con pienezza dall’ordinamento giuridico non risolve ancora il problema di individuare la sede naturale dell’azione di risarcimento del danno subito dal detenuto, qualora sia lamentata una lesione prodotta nel corso del trattamento penitenziario. Il quadro emergente dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità che si è pronunciata sulla delicata materia appare, infatti, per un verso chiaramente orientato a individuare nello strumento procedimentale di cui all’art. 14-ter, l. 354/75 il modello idoneo ad assicurare le garanzie minime di giurisdizionalità in relazione alle esigenze di speditezza e all’oggetto della tutela attivabile presso il magistrato di sorveglianza; dall’altro ribadisce come l’attribuzione della giurisdizione o competenza in una determinata materia ed il correlato strumento processuale di governo della medesima siamo prerogativa della discrezionalità del legislatore (Ruotolo 1999): La questione che si pone, in altri termini, non riguarda l’ammissibilità della tutela risarcitoria della persona detenuta considerata in se stessa (atteso che l’ordinamento ammette pacificamente la possibilità, per il soggetto detenuto, di agire davanti al giudice civile per il soddisfacimento della pretesa risarcitoria); quanto la sostenibilità della tesi che la detta azione possa essere proposta uno actu nella medesima sede procedimentale di cui agli artt. 14-ter, 35, L. 354/75, governata dal magistrato di sorveglianza e deputata all’accertamento della violazione del diritto trattamentale del soggetto detenuto, da cui si genera la lesione risarcibile (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 18.04.12, Rollo, www.personaedanno.it). In tale prospettiva ermeneutica, le criticità più difficilmente superabili sembrano concentrarsi sul versante della disciplina procedimentale che governa l’istituto dei reclami c.d. “giurisdizionalizzati”, proponibili davanti al magistrato di sorveglianza dal detenuto per la tutela dei propri diritti e che, nel diritto vivente, si riconduce al compendio normativo di cui ai ricordati articoli 14-ter, 35 e 69, 5° co., l. n. 354/75. E’ agevole rilevare gli importanti limiti che caratterizzano il procedimento di cui all’art. 14-ter, L. 354/75 sotto il profilo della insufficienza di standard accettabili con riguardo alla cognizione su materie inerenti ai diritti soggettivi, segnatamente con riferimento alla mancata previsione della partecipazione personale dell'interessato, che non può essere sentito personalmente, l’assenza di pubblicità del procedimento e sopra tutto la natura stessa della pronuncia emettibile all’esito della procedura: il magistrato di sorveglianza può, infatti, pronunciarsi soltanto sulla fondatezza o meno del reclamo, ma gli è preclusa l’emissione di provvedimenti di condanna (tipico corollario della configurazione della natura dei giudizi, impugnatorio quello avanti al magistrato di sorveglianza, strutturato ai fini di tutela dei diritti soggettivi nel rapporto bilaterale a prestazioni corrispettive quello civilistico). Lo svolgimento del procedimento di sorveglianza in sede camerale pare, invero, contrastare – se applicato con riferimento alle controversie di matrice civilistica - con i principi stabiliti nell’art. 6 della Convenzione dei Diritti dell'Uomo, esecutiva per l’Italia in seguito alla L. 848/55, laddove dispone che "ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale costituito dalla legge che deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale. Il giudizio deve essere pubblico" (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 18.04.12, Rollo, www.personaedanno.it). Le caratteristiche strutturali dello strumento procedimentale prescelto dalle Sezioni Unite sembra porre, in definitiva, il tema dell’incompatibilità della procedura ex art. 14-ter, l. 354/75 con i principi del “giusto processo” enunciarti dall’art. 111, Cost., come la “questione delle questioni” che si pone come un macigno a sbarrare il percorso di riconoscimento di una giurisdizione del magistrato di sorveglianza estesa alla tutela risarcitoria del danno da lesione trattamentale. L'art. 111 Cost., stabilisce, invero, che , ma si è già osservato che, nel procedimento in esame, il contraddittorio non è affatto assicurato in termini adeguati alla natura degli interessi in gioco qualora si tratti dei profili risarcitori del danno occorso in costanza di trattamento penitenziario, essendo espressamente limitate le facoltà difensive alla presentazione di memorie (in termini poco compatibili con la tutela di un diritto soggettivo pieno); incerte le condizioni di parità tra le parti e perfino dubbia la stessa terzietà tipica istituzionale propria del giudice che non sembra perfettamente attagliarsi alla funzione istituzionale del magistrato di sorveglianza rispetto all’ordinario organo giudiziario (su tali profili, v. Bartole 1999, 190; Presutti 1993). In effetti, la posizione di equidistanza formale del magistrato di sorveglianza tra l’amministrazione penitenziaria e il detenuto è inevitabilmente offuscata dalle disposizioni dell'ordinamento penitenziario che attribuiscono alle persone detenute e internate ristretti una serie articolata di “diritti” e assegnano al magistrato di sorveglianza il ruolo di “garante” di tali “diritti” nei confronti dell’operato dell’amministrazione penitenziaria. Secondo l’indirizzo Rollo, inoltre, appare critica la “tenuta” del procedimento ex art. 14-ter, l. 354/75, se utilizzato quale veicolo dell’azione risarcitoria ex art. 2043, c.c., sotto il profilo della coerenza con il principio di cui all'art. 3, Cost., essendo problematico giustificare il diverso trattamento processuale previsto per il detenuto danneggiato ai sensi degli artt. 2043, 2051, c.c., per effetto di un comportamento della P.A., rispetto ai soggetti liberi, tenuto conto che il procedimento semplificato previsto dalla legge penitenziaria è carente rispetto al procedimento civile ordinario, oltre che per i profili già indicati, anche per l'assenza di un doppio grado di giudizio di merito e di disposizioni relative alla esecuzione coattiva delle decisioni assunte dal magistrato (quest’ultimo profilo è ritenuto dalla dottrina dirimente ai fini di ritenere non praticabile la via della condanna dell’amministrazione pentenziaria al risarcimento del danno: Fiorelli 2012, 1230). Pare sussistere, in definitiva, una criticità sul piano della compatibilità costituzionale che inficia la ricostruzione volta a riconoscere alla magistratura di sorveglianza – nel silenzio della legge – la giurisdizione risarcitoria in termini differenti (e deteriori) rispetto alle regole generali, tenuto conto che, con riguardo alla materia della tutela risarcitoria, non si tratta di colmare alcun vuoto di tutela, dacché l’ordinamento già tutela il soggetto detenuto sotto il profilo civilistico, consentendogli di agire – al pari degli altri consociati - nei confronti dell’amministrazione per il risarcimento del danno (contrattuale ed extracontrattuale). Si pone, pertanto, un problema di tenuta costituzionale di un assetto che differenzi, da un lato, la posizione del soggetto libero rispetto a quella della persona detenuta rispetto alla tutela risarcitoria da atto illecito della P.A.; e dall’altro renda immotivatamente differenti la posizione del detenuto che agisca ex 2043 c.c. avanti al giudice civile (a es. nel caso di lesione subita per effetto di un comportamento colposo dell’amministrazione: es. sinistro stradale nel corso di una traduzione); e del detenuto che agisca invece, ai sensi della medesima disposizione del codice civile, ma con il reclamo ex art. 14-ter, ord. pen., per la lesione del “danno esistenziale”. La medesima problematica si ripropone, specularmente, con riferimento alla posizione dell’amministrazione penitenziaria che, a fronte di pretese risarcitorie azionate sulla base della medesima causa petendi, sarebbe chiamata a confrontarsi con diversi modelli procedimentali (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 18.04.12, Rollo, www.personaedanno.it). Se si valuta la norma impugnata nella prospettiva delle suesposte garanzie costituzionali si deve notare, in primo luogo, che la procedura camerale in essa prevista, tipica dei giudizi davanti al magistrato di sorveglianza, non assicura al detenuto una difesa nei suoi tratti essenziali equivalente a quella offerta dall’ordinamento a tutti i lavoratori, giacché è consentito un contraddittorio puramente cartolare, che esclude la diretta partecipazione del lavoratore-detenuto al processo. Per altro verso, la disposizione non assicura adeguata tutela al datore di lavoro, posto che all’amministrazione penitenziaria è consentita solo la presentazione di memorie, e che il terzo eventualmente interessato quale controparte del lavoratore (situazione che ricorre nel caso oggetto del giudizio principale) resta addirittura escluso dal contraddittorio, pur essendo destinato, in ogni caso, a rispondere, in via diretta o indiretta, della lesione dei diritti spettanti al detenuto lavoratore, se accertata da una decisione del magistrato di sorveglianza (Corte cost., sent. 23-27.10.2006, n. 341) Pur in una prospettiva di ricostruzione “costituzionalmente orientata” della procedura, il Giudice delle leggi osserva che l’eventuale modulazione di schemi processuali idonei appartiene alla sfera di discrezionalità riservata al legislatore: Il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, può ben prevedere forme di svolgimento dei giudizi civili nascenti da prestazioni lavorative dei detenuti tali da essere compatibili con le esigenze dell’organizzazione penitenziaria e mantenere integro, nel contempo, il nucleo essenziale delle garanzie giurisdizionali delle parti (Corte cost., sent. 23-27.10.2006, n. 341). In definitiva, sul piano della elaborazione costituzionale, pare difficile contestare che la Corte abbia chiaramente posto dei rigorosi limiti alla individuazione “costituzionalmente orientata” della procedura attivabile nell’ambito della tutela dei diritti trattamentali dei detenuti, costituiti il primo dalla riserva al legislatore in ordine alla attribuzione all’uno a all’altro plesso giurisdizionale o a determinate classi di giudici ordinari della competenza sulla cognizione relativa aspecifiche materie; e il secondo afferente alla riserva alla potestà legislativa della scelta del rito applicabile, così che l’attività ermeneutica di adattamento in senso costituzionale del quadro normativo non può mai travalicare i sopra individuati termini. Secondo la ricostruzione operata con
l’indirizzo Rollo, la possibilità di operare una ricostruzione
adeguatrice della disciplina procedimentale per via interpretativa,
integrando la disposizione di cui all’art. 14-ter, l. n. 354/75
con disposizioni tratte da altri modelli procedimentali presenti nella
stessa legge penitenziaria ovvero in altri ordinamenti processuali
(quali il codice processuale civile, o quello penale) sembra, inoltre,
operazione preclusa anche sulla base di ulteriori precisazioni operate
dal Giudice delle legge, anzitutto – per usare le parole della Corte -
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La competenza sui danni in capo al magistrato di sorveglianza si può, in definitiva, ipotizzare soltanto nel caso la relativa tutela fosse attuata mediante un procedimento garantito dai caratteri identificativi di una giurisdizione piena (primi fra i quali il principio della pienezza delle garanzie difensive; della “parità delle armi”; della efficacia cogente della decisione assunta all’esito del procedimento), laddove non potrebbe – tale giurisdizione esclusiva- essergli attribuita (sopra tutto in via interpretativa) nel caso in cui tale imprescindibile substrato risulti non presente (Corte cost. 204/2004). Resta da osservare che il riconoscimento della impraticabilità – a legislazione vigente – di una configurazione dei rapporti tra la competenza in materia di tutela dei diritti dei detenuti propria del magistrato di sorveglianza e quella in materia di risarcimento del danno che guarda naturalmente al giudice civile sembra, in effetti, la più rispettosa ed appagante per le stesse esigenze veicolate dalla istanza di natura risarcitoria a fronte della più ampia tutela conseguente al riconoscimento della giurisdizione ordinaria del giudice civile. E infatti – sul piano dell’effettività della tutela – il detenuto leso in una propria prerogativa soggettiva non incontra, nel processo civile, soltanto una effettiva pienezza del contraddittorio ma, sopra tutto, può ottenere in caso di esito favorevole una pronuncia di condanna immediatamente esecutiva nei confronti dell’amministrazione, entrambi vantaggi esclusi in radice qualora sia azionata la procedura ai sensi dell’art.14-ter, L. 354/75. Su quest’ultimo profilo, ben vero che la Corte costituzionale, con la ricordata sentenza 8.10.09 n. 266, pur dichiarando inammissibile la questione dedotta dal remittente, ha ribadito in maniera quasi accorata il carattere “vincolante” per l'amministrazione penitenziaria delle disposizioni impartite dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 69 comma 5, L. 354/75, ravvisandovi un carattere intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa persegue; ma tale affermazione – se pure assai importante - lascia ancora aperto il problema più delicato, concernente gli strumenti che possono garantire l’effettività sul piano esecutivo della pronuncia adottata dal magistrato di sorveglianza (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 18.04.12, Rollo, www.personaedanno.it). In conclusione, secondo l’orientamento in esame, il procedimento ex art. 14-ter, l. n. 354/75, non appare idoneo ad assicurare un adeguato tasso di giurisdizionalità in relazione alla natura della materia risarcitoria che tramite esso si pretende azionabile (in senso adesivo v. Fiorelli 2012, 1223): Invero, come si è rilevato, allo stato attuale della legislazione, al magistrato di sorveglianza è espressamente riconosciuto dall’ordinamento il mero potere di dettare all’amministrazione le disposizioni necessarie a far cessare la violazione del diritto inciso (art. 69, comma 5, l. 354/1975), ma certamente non quello di pronunciare anche una condanna al risarcimento del danno, approdo cui non pare possa giungersi additivamente in via interpretativa, implicando una scelta della tipologia di tutela e dell’assetto della giurisdizione che deve rimanere riservata alla discrezionalità legislativa. Alla luce della esegesi letterale e della lettura sistematica del compendio normativo preso in esame, deve, pertanto, escludersi la possibilità che, mediante il reclamo di cui agli artt. 14-ter, 35 e 69, comma 5, ord.pen., possa essere azionata una pretesa risarcitoria civilistica, poiché essa implicherebbe una pronunzia di condanna dell’amministrazione penitenziaria conseguente ad un accertamento di natura squisitamente civilistica, entrambe possibilità che sembrano escluse dal quadro giuridico e normativo vigente e dalla giurisprudenza costituzionale che su di esso si è reiteratamente pronunciata (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 18.04.12, Rollo, www.personaedanno.it). 4. La quantificazione del danno e la sua indennizzabilità in sede europea. La violazione del canone di umanità delle condizioni di detenzione integra una fattispecie di danno indennizzabile con un' “equa soddisfazione”, ai sensi dell’art. 41 della Convenzione EDU: (…)53. Ai sensi dell’articolo 41 della
Convenzione, « Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della
Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta
Parte contraente permette di riparare solo in parte alle conseguenze di
tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione
alla parte lesa.» A. Danni 54. Adducendo di essere stato « gravemente
leso nella sua integrità fisica e psichica » a causa delle condizioni
detentive, il ricorrente chiede una somma non inferiore a 15.000 euro
(EUR) a titolo di risarcimento del danno morale. (CEDU, sentenza 16.07.2009, Sulejmanovic c. Italia). |