Così la custodia cautelare in carcere è diventata un’anticipazione della pena
di Giandomenico Caiazza (Avvocato)
Notizie Radicali, 4 aprile 2013
“Questo è il Paese in cui i termini sono perentori solo per i cittadini ed i loro difensori, ed immancabilmente ordinatori per il lavoro dei Magistrati”.
Non diciamo certo nulla di nuovo - e men che mai parlando dalle frequenze di “Radio Radicale” - ricordando che una delle ragioni principali del vergognoso sovraffollamento delle carceri italiane è dovuto all’uso contra legem, dunque all’abuso, dello strumento processuale della custodia cautelare.
Sappiamo bene che tale giudizio - che i giudici italiani facciano un diffuso e sistematico uso illegittimo della custodia cautelare, divenuto ormai apertamente un mezzo di anticipazione della pena rispetto al giudizio conclusivo di un processo - non viene espresso da un manipolo di penalisti esagitati o di garantisti zelanti, ma addirittura dal Primo Presidente della Corte di Cassazione dott. Ernesto Lupo, che lo argomenta con dovizia di particolari e senza superflue circonlocuzioni sistematicamente ad ogni sua relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario. Si tratta dunque di una vero e proprio sovvertimento del valore dispositivo di norme che, pure, sia per la loro conclamata ratio ispiratrice che per la esplicita e chiarissima testualità, disegnano invece uno strumento eccezionale e residuale, che esige motivazioni non stereotipe né elusive, ma connotate - pena la loro illegittimità- da esigenze cautelari di indispensabile e tangibile concretezza, perché è in gioco il bene della libertà personale. Tutto ciò, come dicevo, è ben noto; ma forse sono poco note le concrete tecnicalità attraverso le quali quotidianamente giudici delle indagini preliminari, che emettono le misure, e Tribunali per il Riesame, che nella assoluta, massiccia maggioranza le confermano, realizzano questa eversione, o comunque questo deliberato svuotamento del valore precettivo delle norme che il nostro codice detta in tema di custodia cautelare. Innanzitutto, nella prassi assolutamente prevalente lo sforzo motivazionale si esaurisce nella individuazione dei gravi indizi di colpevolezza: ciò fatto, le esigenze cautelari vengono fatte conseguire, contro ogni logica, in modo quasi automatico. Dal momento che Tizio è gravemente sospettato di aver commesso quei reati, va da sé che egli venga considerato perciò stesso in grado, se lasciato libero, di reiterare quella condotta criminosa, oltre che di inquinare le prove; e quanto più il fatto contestato è grave, tanto più se ne desume automaticamente - con motivazioni tutte uguali tra di loro- quella concretezza delle esigenze cautelari che le norme imperiosamente richiedono. Questo approccio affascia, con saltuarie, isolate eccezioni, il Giudice che emette la misura ed il Giudice che dovrebbe verificarne la legittimità, cioè il Tribunale del Riesame. Travolte da valanghe di ricorsi, quelle sezioni dei Tribunali italiani interverranno - nella migliore delle ipotesi - su patologie davvero macroscopiche della misura cautelare; l’alternativa presupporrebbe una cognizione degli atti di indagine che - grazie anche alla elefantiasi delle ordinanza custodiali determinata dallo smodato uso della funzione copia-incolla nella redazione di tali atti, oltre che al numero dei ricorsi - appare fisicamente impossibile. Senonché tale oggettiva difficoltà si risolve solo ed esclusivamente in senso conservativo verso i provvedimenti custodiali: nel dubbio, o nella impossibilità del necessario approfondimento, la misura viene ovviamente confermata, non certo annullata. Figuriamoci allora se la Corte di Cassazione potrà farsi carico di operare quella attività valutativa che per primo il giudice di merito non riesce compiutamente a svolgere: ed infatti, la percentuale dei ricorsi per Cassazione in materia de libertate accolti è statisticamente infinitesimale. Ad aggravare irreparabilmente il quadro, si aggiungono - anche in questo caso in aperta violazione delle norme processuali- tempi biblici, insensati, per la verifica della legittimità delle misure cautelari; dilatazione temporale che le norme rigorosamente si erano preoccupate di scongiurare, ma che la giurisprudenza, ancora una volta, elude in modi e forme che dovrebbero considerarsi intollerabili in un Paese civile, e che invece sono praticati, tollerati e legittimati dalla quotidiana prassi giurisprudenziale. Per esempio: il legislatore si era preoccupato di prevedere che il Tribunale del Riesame dovesse depositare la decisione sul ricorso entro 10 giorni dalla ricezione del ricorso difensivo. Ovvio: discutiamo della possibile illegittimità della privazione della libertà personale, impensabile trastullarsi mentre l’indagato sta in galera. Ma ecco che nel 1999 la Cassazione afferma il principio che quella norma debba intendersi riferita al solo deposito del dispositivo della ordinanza (accoglie o rigetta il ricorso), non alle motivazioni, che potranno essere depositate con calma, senza alcun termine perentorio. Da allora assistiamo quotidianamente a motivazioni depositate dopo venti, trenta, anche quaranta giorni oltre il deposito del dispositivo; e fino a che ciò non avviene, il ricorso per Cassazione resta ovviamente bloccato. Quando finalmente posso redigere e depositare il mio ricorso, il comma 3 dell’art. 311 impone alla cancelleria del Tribunale di trasmetterlo immediatamente, entro il giorno successivo, alla Corte di Cassazione; ma questo termine viene prontamente qualificato dalla giurisprudenza come non perentorio, e perciò la trasmissione avviene senza rispetto di alcun termine, non di rado anche un mese e più dopo il già ritardato deposito del ricorso. Ecco allora che l’art. 311 comma 5 impone alla Cassazione di decidere entro 30 giorni. Indovinate un pò? Anche questo termine viene qualificato come meramente ordinatorio. Ed infatti, la Cassazione fissa la discussione dei ricorsi de libertate mediamente ormai a tre mesi dalla ricezione. E se per caso l’ordinanza viene annullata, lo sventurato viene finalmente scarcerato? Solo se la Corte annulla senza rinvio, cosa che non accade praticamente mai. Se annulla rinviando al Tribunale del riesame per un nuovo giudizio, il povero cristo attenderà ancora in carcere la nuova decisione del Tribunale, mai scandita da un solo termine perentorio, E così ad libitum. Perché questo è il Paese in cui i termini sono perentori solo per i cittadini ed i loro difensori, ed immancabilmente ordinatori per il lavoro dei Magistrati. Ma tanto, a chi importa?