di Antonio Bevere
Un cronista e un opinionista del Corriere della sera si sono
recentemente interessati al processo che ha come protagonista uno
studente accusato di furto di un ovetto di cioccolato. L’attenzione di
entrambi è diretta sullo spreco, in termini di risorse dello Stato e
di tempi della Giustizia, causato dal processo dell’autore di questa
piccola trasgressione.
Il racconto di cronaca giudiziaria si conclude con l’arguto auspicio che
non sia anche necessaria una perizia sui jeans dell’imputato, per
verificare la fondatezza dell’accusa del denunciante , secondo cui la
refurtiva era stata celata nell’aderente indumento.
L’opinionista elenca una casistica di giustizia bagatellare e ne
denuncia gli effetti nocivi sullo spaventoso arretrato di pendenze
giudiziarie.
Arguzia e denuncia a parte, il fenomeno che più dovrebbe attirare l’
attenzione è quello degli effetti che tanti piccoli processi penali
hanno sulla libertà dei componenti della microcriminalità e sul
conseguente sovraffollamento delle carceri.
Non merita di essere trascurato, nel nostro episodio , il trattamento
sanzionatorio minimo che può colpire il goloso ladruncolo: qualificato
il fatto come furto monoaggravato ( per esposizione dell’uovo alla
pubblica fede),pur con tutte le attenuanti e con la diminuente del
rito alternativo, la pena detentiva non avrebbe durata inferiore a 15
giorni di reclusione .
Ove il giudice non abbia ritenuto di effettuare la conversione della
pena detentiva, la precedente recidiva o la successiva reiterazione
nel periodo di prova della sospensione condizionale , potrebbero
determinare lo Stato a chiamare il reo , per la sottrazione di un bene
messo in commercio al prezzo di 1 euro, a pagare,per ogni 6,66
centesimi , il prezzo di 1 giorno di libertà.
Pur nella sua marginalità , questo episodio merita attenzione ,perché
consente di introdurre il tema della reale vigenza , nella punizione
dei delitti contro il patrimonio, dell’idea della retribuzione ,
ritenuta da alta dottrina principio guida, idea centrale del sistema
punitivo dello Stato moderno (Bettiol). E’ bene ricordare che la pena,
come categoria storica, è lo specchio più fedele delle faticose tappe
della civiltà umana, registrandone corsi e ricorsi, progressi e
regressioni . Per la sua polivalenza , subisce , a seconda dei tempi,dei
regimi, della cultura, manipolazioni e strumentalizzazioni
politiche-ideologiche. Il riconoscimento dell’esigenza che a un male
segua un male è accompagnata indissolubilmente dalla accettazione del
criterio della proporzionalità ,poiché la pena retributiva deve essere
proporzionata al comportamento precedente. L’idea della proporzione
segna il passaggio dalla vendetta , che è emozione, non controllata
dalla ragione , alla pena ,che è atto di ragione e quindi reazione
proporzionata. La proporzionalità della pena viene concepita non nei
termini meccanicistici della legge del taglione , ma come concetto che
,legato all’evolversi della coscienza civile , va necessariamente
umanizzato , con l’esclusione di ogni fondamento intimidatorio , che ,
attraverso la grossolana teoria del castigo esemplare, conduce
implicitamente alla conclusione che le pene devono essere il più
possibile severe e crudeli . L’esperienza insegna che solo una pena
equa ed umana , non terroristica, può assolvere il compito della
prevenzione (Mantovani) .
Questa lunga escursione storico-culturale ci introduce, a sua volta, nel
tema della regola di misura che guida la proporzionalità della pena
come corrispettivo nei suindicati reati contro il patrimonio.
Tornando al processo dell’uovo, da una ragionevole prognosi sul suo
esito appare una pena che ,in base a una comparazione,rigidamente
commerciale, tra male prodotto e male subìto ,è evidentemente
sproporzionata ,anche se ricompresa in limiti strettamente legali : la
sofferenza di 15 giorni di reclusione non è eticamente e innanzitutto
razionalmente proporzionale ,rispetto al male ascrivibile al
colpevole ( violazione della legalità e danno al patrimonio).
Seguendo quindi la strada maestra della retribuzione legale,il giudice
può giungere a un livello di castigo a cui è razionalmente impossibile
riconoscere i caratteri di una umana reazione ispirata dal senso di
giustizia innato nell’uomo- affermata dai più convinti assertori della
esclusiva rilevanza della retribuzione-, essendo al contrario questa
strada ricca di punizioni estremamente vicine a una primitiva vendetta
ispirata dalla legge del taglione.
Questa irrazionale sproporzione tra male commesso ,in termini
monetari, e male subìto, in termini di libertà, si incontra nella
quotidiana realtà scandita dalla giurisprudenza su marginali e comunque
non gravi reati contro il patrimonio. In questo contesto ,nell’idea
della retribuzione sta acquistando un rilievo esasperato la sua
derivazione dall’ordine economico ,la quale non è sfuggita alla
dottrina,secondo cui la retribuzione è animata –sia pure parzialmente –
da una certa dose di spirito economico-utilitaristico, nel senso che
essa è propria della mentalità commerciale. Va da sé che esistono
alternativi percorsi interpretativi che costituiscono un valida trincea
rispetto alle quotidiane riedizioni della legalità del taglione .
Alla procura di Milano,negli anni ’70 , fu organizzato il dissenso
sull’orientamento dei sostituti , che , contestando due aggravanti nel
furto d’auto (violenza sullo sportello sul congegno di chiusura ed
esposizione del veicolo alla pubblica fede), oltre che violare la
logica(la chiusura è incompatibile con l’affidamento al rispetto per
l’altrui bene) e portare a livelli irrazionali la pena richiesta , ne
anticipava l’esecuzione rendendo obbligatorio l’ordine di cattura ,in
alcuni casi di recidiva. Il procuratore capo , per vincere la resistenza
dei dissidenti, decise l’avocazione di tutti i processi, la cui
richiesta di citazione a giudizio contenesse la sola contestazione
dell’aggravante della violenza sulle cose.
Un collegio del tribunale , presieduto da Guido Galli, sollevò questione
di legittimità costituzionale di questa interpretazione dell’art. 70
dell’ordinamento giudiziario,nei suoi riflessi sull’esercizio
dell’azione penale . La corte costituzionale dichiarò infondata la
questione, ma comunque i dissidenti ottennero ,grazie al grande Guido
Galli, una bella soddisfazione come garantisti di opposizione (per la
cronaca, la doppia contestazione si è consolidata in maniera granitica
nella giurisprudenza).
La vigilanza democratica, in altre ipotesi di punizioni sproporzionate
dei colpevoli di reati contro il patrimonio, può essere gestita con
buona efficacia nel giurisdizione di primo grado, sia pure con maggiore
difficoltà da quando il governo capeggiato del democratico Giuliano
Amato, nell’ambito del primo pacchetto sicurezza , ha portato il minimo
edittale del furto da 15 giorni a 6 mesi di reclusione. .
Nel grado massimo, dinanzi alla superiore funzione di nomofilachia, il
peso di precedenti maggioritari rende la difesa della proporzionalità e
della razionalità della pena molto , ma molto difficile, pur in
modeste infrazioni .
Sono molti i casi in cui è protagonista uno straniero messo a dieta
dalla miseria, un alcolista e/o un tossicodipendente, che si sono
impossessati, in un centro commerciale, di alimenti, di capi di
abbigliamento (scarpe,calzoni, costumi da bagno) del valore complessivo
di 100-300 euro .
Se è chiamato a pagare, per furto monoaggravato di beni del valore di
250 euro, 1 anno e sei mesi di reclusione (547 giorni, ora più ,ora
meno),in un puro raffronto retributivo tra male fatto e male subìto, a
0,45 euro del valore della merce corrisponde un giorno di detenzione.
L’attenuante che può apparire di sicura applicazione, secondo
un’immediata pulsione di razionalità, è quella di aver cagionato al
centro commerciale un danno patrimoniale di speciale tenuità .
Il richiamo a consolidata giurisprudenza impedisce l’ ingresso
dell’attenuante nella determinazione del trattamento sanzionatorio, in
quanto
a) il primario criterio di misurazione del danno è costituito
dall’oggettivo valore commerciale delle cose sottratte (il criterio
soggettivo delle condizioni economiche della persona offesa è
sussidiario );
b) il valore commerciale è commisurato al valore delle cose al
momento della consumazione del reato, cioè al prezzo di vendita
stabilito dal commerciante e non al prezzo a cui le ha acquistate ;
c) questo valore di 250 euro non può essere considerato di speciale
tenuità , in rapporto al livello economico medio degli italiani
nell’anno del fatto (non posseggo un apposito prontuario, ma sembra che
la speciale tenuità è quotata a non più di 70/80 euro) .
Questa giurisprudenza ,con l’idea di infliggere un castigo
condizionato dall’andamento dei prezzi di mercato, inserisce, nella
regola di misura prevista dalla legge, regole di pura derivazione
dall’ordine economico, che rendono del tutto sproporzionato e
irrazionale il trattamento sanzionatorio (alias, la sofferenza
carceraria). In questo orientamento, esasperatamente commerciale – in
cui appare una sorta di privatizzazione della dosimetria della pena
inflitta dallo Stato - rientrano quindi ,come regole di misura, gli
oscillanti e precari dati provenienti dalla specifica politica dei
prezzi, gestita dal commerciante derubato nei confronti del bene
prescelto dal reo : la fase del massimo livello del suo prezzo può
portare al livello massimo la severità dello Stato , mentre , la
campagna promozionale, con abbassamento del prezzo in termini monetari
, può avere speculare effetto deprimente sul prezzo, in termini di
libertà, imposto dal gabelliere in toga .
Anche la generale economia del Paese può avere influenza sull’andamento
della situazione carceraria concernente i responsabili di furto .
Durante la crisi economica e l’ abbassamento del livello medio del
reddito dei cittadini ,aumenta la severità dello Stato e si innalza la
pena per chi attenta all’altrui proprietà. Nel momento di rilancio
economico e di agiatezza dei cittadini , avviene il contrario. Benessere
per tutti !
Nel quadro di questi oggettivi – e paradossali- criteri di
determinazione della pena nei reati lesivi della proprietà, si profila
il rarefarsi della sua proporzionalità e della sua umanità , in virtù
del sopravvento della mentalità commerciale. Nei piatti della bilancia
della giustizia si fronteggiano e si misurano direttamente valore
economico e libertà personale , con esito difficilmente favorevole per
la seconda.
Né si invochi la piena compatibilità della prevalenza della cultura
commerciale con la derivazione dell’idea di pena retributiva dall’ordine
economico , nel quale un razionale governo ben può fissare un equo ed
umano equilibrio di valori .
Il prevalere di questa cultura è tanto più iniquo e paradossale , a
fronte della generale e consolidata impunità delle trasgressioni penali,
entrate nella prassi di governo dei gestori del potere politico
,centrale e periferico.
Ugualmente non appare convincente, per giustificare il livello della
pena , il richiamo al fondamento/finalità della prevenzione speciale,
sia perché ad essa è riservato il campo non della colpevolezza, ma della
pericolosità e quello connesso delle misure di prevenzione, sia perché
un suo ruolo decisivo comporta la degradazione della pena a
provvedimento di bonifica di scadente materiale umano, a misura di
bonifica sociale (Bettiol) .
Una pena che infligga sofferenza al di là di una razionale esigenza
punitiva è un male da evitare rigorosamente, anche se potrà incontrare i
favori dei sostenitori della concezione della pena prevalentemente
utilitaristica, a sfondo preventivo-generale, con la quale si
strumentalizza l’individuo per fini di politica criminale e si
privilegia la soddisfazione di bisogni collettivi di sicurezza,
amplificati e strumentalizzati a fini elettorali. Nel pronunciare la
sentenza di condanna, il giudice, con una valutazione legale,
indipendente da calcoli della logica di mercato, dovrebbe rispettare
l’obbligo di evitare una punizione sproporzionata, fonte di un giro
vizioso di violenza illegittima e violenza legittima. La decisione del
giudice perde la natura di atto di ragione e ritorna ad essere
espressione di emozionale vendetta,sia pure compiuta in nome del popolo
italiano .
Punire meno, per punire meglio - suggerisce Eligio Resta.
Per recuperare razionalità punitiva, si può tentare di riavvicinare i
giudici alla finalità educativa, intesa come recupero sociale , come
recupero ,per il cittadino condannato, della capacità di vivere nella
società nel rispetto della legge penale (Vassalli)
La corte costituzionale ha esplicitato il collegamento tra proporzione e
rieducazione della pena : con la sentenza 2 luglio 1990, n. 313), ha
affermato il principio secondo cui la finalità rieducativa della pena
(art. 27 Cost., comma 3), informa tutto il sistema penale e non soltanto
la fase dell’esecuzione:questo principio deve riflettersi sul
meccanismo delineato dall’art. 133 c.p., orientando il potere
discrezionale del giudice di cognizione. Questi, nel quantificare la
sanzione e commisurandola alla personalità del reo, deve prospettarsi la
sua educazione ,il suo recupero sociale da conseguire attraverso un
calibrate e razionale restringimento della sua libertà personale. La
corte ha ribadito il collegamento con le pronunce n.343/1993
(dichiarazione di incostituzionalità , relativa alla normativa sul
rifiuto del servizio militare) e n. 341/1994 ( dichiarazione di
incostituzionalità della previsione della pena minima di sei mesi di
reclusione per il reato di oltraggio, successivamente abrogato).
La Corte ha quindi prospettato la seguente connessione: la finalità
educativa postula che l’autore del reato avverta un trattamento
punitivo non ingiusto e non eccessivo, ma adeguatamente proporzionato
al disvalore del fatto commesso ; altrimenti si rischia che nel reo
prevalga ( e si radicalizzi) un atteggiamento di ostilità nei confronti
dell’ordinamento(Fiandaca) .
Questa prospettata funzionalizzazione del rapporto di proporzione tra
entità della pena e disvalore del reato allo stesso finalismo
rieducativo cade nel vuoto , in virtù principalmente della scarsa
attenzione al primo dei due fattori.
Questo deficit, nella pratica, dell’impegno del giudice della
cognizione nei confronti della finalità educativa della pena, come può
essere superato ?
Posta l’attuale scissione, sul piano conoscitivo ed operativo, della
cognizione e della esecuzione, si potrebbe tentare di superarla
,prendendo atto che il riadattamento del soggetto alla vita sociale si
dovrebbe sviluppare in un alveo processuale ,gestito con uniforme
impostazione di cultura giuridica e conoscenze empiriche , senza
relegare i titolari della cognizione nella disinformazione degli affetti
dalla punizione e della sofferenza da essi sancita.
Il nuovo compito del giudice di cognizione , dovrebbe realizzarsi
attraverso l’esame dei documentati risultati educativi o diseducativi(
ho punito troppo o troppo poco ?), ottenuti con i criteri sanzionatori
in cui crede,per orientare con questo sapere le successive sanzioni.
Questa figura di giudice che educa se stesso nella sua funzione di
fonte di castigo, in base al vissuto dei detenuti, appare come una
creatura della fantasia di Dostoevskij-che è apparso agli studiosi
come discepolo dei galeotti- ma non come un protagonista della
nostra organizzazione giudiziaria.
Rimane quindi il pericolo di un processo di cognizione, quale cieco
motore produttivo di sofferenza sproporzionata , privo di alcun
collegamento con la sua finalità educativa.
Una visita nelle carceri ,occasionale , senza un programmato studio di
approfondimento,può costituire un’ efficace iniziativa ,mirata a
rendere tutti i giudici almeno consapevoli degli effetti delle loro
decisioni , dei loro calcoli, delle loro commisurazioni e a instaurare
un parziale collegamento tra fase cognitiva e fase esecutiva ?
Questo interrogativo nasce dall’interessante iniziativa ,che è stata
adottata nel luglio scorso dal direttore del carcere e dal presidente
dell’ufficio gip di Torino. Questa iniziativa è consistita nell’
organizzare per i giudici di quell’ufficio la possibilità di una esame
dei luoghi in cui vivono gli esseri umani per effetto delle loro
decisioni: “fare, tappa per tappa, il percorso dei nuovi giunti
all’interno del carcere, toccare con mano i problemi e le difficoltà di
chi vive e lavora dentro carcere, sentirne gli odori, vedere le camere
di sicurezza dove a volte i nuovi giunti dormono uno sull’altro magari
in attesa dell’udienza di convalida, ecc.”
C’ è ottimismo sui risultati di questa visita, da parte dell’autore
dell’informazione, secondo cui i gip faranno il loro lavoro con
maggiore consapevolezza.
C’è da augurarselo , anche se in ogni caso si tratterebbe di un
risultato scaturente da un approccio emotivo – fatto di compassione ,
di solidarietà umana - che ,non sorretto dal nuovo sapere derivato da
una metodica autosorveglianza, inevitabilmente si spegnerà.
Comunque, nella quotidiana lotta dei giudici per l’ indipendenza dalla
cultura dell’emergenza, dai sui ispiratori e dai tribuni
dell’inselvatichita pubblica opinione , anche le iniziative estemporanee
e occasionali sono auspicabili, sia per la loro potenziale diffusione
(c’è un’ esperienza anche a Padova), sia per i benefici effetti
professionali , comunque realizzabili. Secondo Cechov, le persone che
“per le loro funzioni vengono a contatto con la sofferenza altrui, per
esempio i giudici, i poliziotti, i medici, con l’andar del tempo, in
forza dell’abitudine, finiscono col diventare duri a tal punto che,
anche non volendolo, non possono trattare i clienti altrimenti che in
modo macchinale”.
Se non è possibile un’autoriforma del giudice di merito, come pieno
conoscitore, in tutte le fasi del processo, di chi è e di chi può
essere ciascuno dei suoi più assidui clienti, accontentiamoci delle
visite nei luoghi di sofferenza, coinvolgendo anche i supermassimati
giudici di legittimità e,specialmente, i cittadini la cui massima
aspirazione è riempire le carceri per ottenere ordine e sicurezza
(democratiche, ça va sans dire).